Condanna per i moti di Ravenna del 1843

Condanna per i moti di Bologna del 1843, emessa a Ravenna

IN NOME DI SUA SANTITÀ PAPA GREGORIO XVI
FELICEMENTE REGNANTE
SENTENZA
Ravenna oggi 10 settembre 1845.
La Commissione speciale, straordinaria mista, instituita con Notificazione della Suprema Segreteria di Stato, 27 maggio 1843, ed ora in forza della Notificazione dell’Em. e Rev. sig. Cardinale D. Francesco Massimo Legato di Ravenna 29 gennaro 1845, sedente in questa città e composta degli Ilustr. ed Eccell. signori:
Avv. Antonio Colognesi giudice del tribunale di appello per le quattro legazioni, sostituito al sig. com. cav. avv. Luigi Salina presidente dello stesso tribunale.
Avv. Attilio Fontana assessore straordinario della legazione di Bologna sostituito al pred. sig. avv. Colognesi.
Cav. comm. tenente colonnello Stanislao Freddi comandante il corpo dei carabinieri pontificii nelle quattro legazioni.
Cav. tenente colonnello Luigi Magnani comandante la piazza di Bologna, Cav. tenente colonnello Camillo Viviani comandante la piazza di Ferrara.
Si è radunata nella sala delle proprie udienze nel quartiere di S. Vitale nei giorni 1, 2, 3, 4, 5, 6 corrente mese unitamente al sig. avv. Gjampietro Gozzi procuratore fiscale, ed al sig. avv. Ulisse Pantoli difensore d’ufficio, assistendo il sig. Raffaele Magnani f.f. di cancelliere per discutere; e nei giorni 9 e 10 stesso mese, a norma del dispaccio della suprema Segreteria di Stato 2 agosto p.p. n ° 5316, per giudicare la causa in punto Di Società, o Lega per offendere e e resistere alla forza pubblica Contro Orioli Achille, Cappi conte Carlo, Camerani Paolo, Versari Francesco, Ga iani Carlo, Miscrocchi Felice, Barafa Andrea, Gambi Eugenio, Giansanti Ciriaco, Fabbri Annibale, Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico, Dulcini Angelo, Bertacchi Francesco, Samaritani Saverio, Della Valle Mauro, Moruzzi Enge nio, Tarifelli Leonardo, Golfarelli Emilio, Maraffi Domenico, Orioli Febo, Bertacchi Ermenegildo, De Marchi Filippo, Barbiani Giovanni, Bergozzi Giuliano, Gabici Pietro, Gabici Achillc, Baroncelli Giovanni, Boschi Domenico, Gianfanti Andrea, Vassura Paolo, Miscrocchi Domenico, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Rivalta Domenico, Zabberoni Pietro, Montignani Pietro, Vaccolini Giovanni, Savini Giovanni, Angelini Angelo, Fiorentini Onofrio, Landi Vincenzo, Pasini Mariano, Pambianchi Michele, Baldini Gaspare, Ortolani Giovanni, Pascoli Lucio, Pugiotti Francesco, Rava Gaetano, Gianfanti Giovanni, Della Torre Magni Marco, De Stefani Leonardo, Rainbaldi Gaspare, Bezzi Giovanni, Vicari Augusto, Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Mazzetti Luigi, Gambi Domenico, Gambi Antonio, Pinzi Francesco, Conti Antonio, Fava Felice, Morigi Domenico, Landoui Teodorico, Carlini Gian Antonio, Paoletti Luigi:

Quello spirito d’insubordinazione, che oggi pur troppo serpeggia in tante parti d’Europa, agitava eziandio da varii anni la tranquillità di queste Provincie.
Fino dall’estate 1843, quando in Bologna i liberali coalizzati col ceto dei contrabbandieri tentarono colà di rinnovare la sacrilega ribellione dell’anno 1831, i liberali di Ravenna avevano qui formata la stessa alleanza colla turba dei contrabbandieri per conseguire lo scopo medesimo. Già si scorgevano allora pubblicamente ammutinarsi non poche centinaia di questi sciaurati, già si apprestavano le armi, si facevano girare intorno le polizze ove raccoglier le firme di coloro che volessero prender parte all’impresa, e fu udita la voce di chi annunziò non doversi attendere il meriggio di quel giorno per dare lo scoppio.
Ma l’aggredire a petto scoperto la milizia del principe non è cosa di sì facile assunto come l’ucciderne a tradimento un qualche individuo fra le tenebre della notte. Perciò tante millantazioni svanirono senza effetto, ed invece si limitarono tratto tratto a dare atroci esempi della più nera viltà.
I registri criminali sono pieni, e ribollono di molte denuncie di omicidi, е ferimenti gravi dei pubblici funzionari, e di persone affezionate al Governo, che per ispirito di partito si verificarono in questa provincia del breve spazio di pochi anni, delitti sempre avvolti fra il mistero, senza che se ne potessero distinguere gli esecutori, comunque ogni ragionevole congettura guidasse a concludere, che fossero architettati da una fazione micidiale.
L’ultimo però di questi misfatti, cioè l’omicidio del Brigadiere Sparapani cui successe l’altro del Fuciliere svizzero Adolf, come dalla precedente nostra Sentenza, eccitò in particolar guisa lo zelo instancabile di questo politico dicastero, e fece conoscere la necessità di svellere il male dalle sue radici, onde non si riproducessero in avvenire si atroci delitti. Riscontrando pertanto le cagioni del disordine seppe ravvisarlo nella esistenza di una società di tristi, parte col nome specioso di liberali, parte contrabbandieri di instituto, ma tutti insieme collegati, onde sconvolgere l’ordine pubblico, violare impune mente le sanzioni penali, opprimere la forza pubblica, che milita alla conservazione dello Stato, alla esatta osservanza delle sue leggi. Se pertanto non era agevole di scuoprire gli autori degli enormi delitti finora avvenuti, non era arduo di ravvisare quegli individui che appartenevano a tale perversa alleanza e prevenire i sinistri effetti nelle loro cagioni. In simili pubbliche calamità non altra norma insegna la prudenza civile. O infatti la società è costretta a la sciare senza un freno valido il misfatto perfezionato, e quindi a rimanersi il bersaglio della malefica attività dei facinorosi, ovvero le conviene, affine d’evitare tanto disordine, di frenarlo con ostacoli che a lui vadano incontro nel tempo che si sviluppa, e lo arrestino per via pria che giunga alla sua meta criminosa.
Ordinò pertanto l’arresto di coloro che erano più gravemente sospetti di appartenere a tale iniqua collegazione, onde purgare la città da sì perniciosa zizzania, nam in mandatis Principum est, ut curet is, qui reipublicae praeest malis hominibus provinciam purgare. L. 3 Digestis de officio praesidis.
E poiché il carattere più spiegato di tal congrega era quello dell’odio e nimistà contro la forza pubblica che mirava ad opprimere, per innalzare il vessillo del popolare dispotismo, perciò rimise al potere di questa commissione speciale gli arrestati, onde sottoposti a regolare processura subissero il castigo meritato delle loro prave macchinazioni.
Portato il giudizio all’odierna adunanza, il primo obbietto d’ordine recato in campo dal difensore degli imputati, fu quello della incompetenza, come se il relativo giudizio appartenesse ai Magistrati ordinarii.
Il consesso giudicante però non ha stimato di dover arrestarsi a a simile difficoltà. Infatti la tesi proposta è la esistenza di una società di anarchiche sogliono sovrastare al potere legittimo, dominando col proteiforme egoismo, onde far prevalere l’oggetto delle private loro passioni alla legge, all’ordine pubblico, e al bene comune della società. Non può quindi giungersi a tale scopo senza prima abbattere la forza pubblica che forma la barriera difenditrice d’ogni costituzione degli Stati. Summa Republicae tuitio de stirpe duarum rerum, armorum scilicet, atque legum veniens, vimque suam ex inde muniens. L. unic. de Justiniano Codice confirmando. Perciò la solda tesca del Governo è la legge istrumentale, la legge viva e animata che al comando del Principe fa seguire l’obbedienza dei sudditi. Quindi le stesse leggi si dicono: armari jura gladio ultore. L. 31 C. ad leg. Jul. de adult. e la medesima giurisdizione si indica: gladii potestas, gladii jus.L. 70 ff. juris, L. 6 ff. de officio proconsulis, L. 9 9 8 ff. de officio praefecti, L. 6 ff. de interdictis et relegatis, con ciò dimostrandosi, che il potere legisla tivo e giudiziario attingono ogni loro efficacia dal potere esecutivo collocato nelle truppe del Governo.
Ora fino dal maggio 1843 pubblicatosi l’Editto institutore di questa Commissione, seppero gl’inquisiti che qualunque delitto in odio della forza pubblica sarebbe per l’avvenire giudicato colle forme e pene in tale Editto prefisse.
Se adunque posteriormente nell’agosto 1843 costoro si ammutinarono per investire la forza pubblica; se svanite le loro folli speranze proseguirono a mantenersi collegati per coadiuyarsi a vicenda nei pravi disegni, e tenere in istato d’oppressione la milizia, non possono declinare da quel foro speciale che il Legislatore aveva già loro stabilito prima della consumazione del delitto. Ne in ciò si fa onta alla giurisdizione ordinaria della Sacra Consulta pei delitti di Stato a a termini degli art. 45, 555 del regolamento di Processura 5 novembre 1831, a cui è posteriore la notificazione 27 maggio 1843. Essendo instituita oggi una Commissione Speciale, la quale protegge in queste due Province le armi del Principe, questa dee prevalere alla giurisdizione ordinaria. L. 80 ff. de reg. juris. E se anche la giurisdizione volesse ritenersi mista o cumulativa, dee farsi luogo alla prevenzione in forza dell’art. 68 di Processura, come saggiamente osservò il sig. avv. Fiscale nelle sue conclusioni.
Ritenuta pertanto la competenza di questa Commissione si è disceso a ventilare la 2a controversia,se consti o no in genere la esistenza della società il lecita contestata agli odierni inquisiti.
Moltissimi testimoni deponevano di tale alleanza di tristi per volgare notorietà. Ma il tribunale non si è arrestato a simil voce, come ne avvertiva la perspicace sanzione del diritto Canonico: Cap. Consuluit 14 de appellatio nibus.
Cum multa dicuntur notoria quae non sunt prohibere debes ne quod dubium est pronotorio videaris habere. Trattavasi di un delitto formato da vincoli razionali, il quale non cadeva sotto ai sensi in se medesimo, ma potea soltanto rilevarsi nei proprii effetti discontinui, nel qual caso anche le deposizioni sulle notorietà devono portarsi a minuto esame calcolando le ragioni di scienza, le fonti onde i testimoni attivgono il proprio asserto, e la corrispondenza della espressione usata dai deponenti nel caratterizzare il delitto cogli elementi su cui ne avevano essi formata l’idea: altrimenti correva il Giudice rischio di cedere i proprii suffragi al popolo, e render gli uomini vittima di una parola. Farinacius de delictis quaes. 21 N. 89, 93, 95, 97, 99, 102, 104, 105, de test. quaest. 70 ampliatio 3 N. 6. Di fatti il nome di società peregrinando per tante materie economiche, scientifiche, civili e reli giose, si veste di altrettante diverse significazioni, quante sono le cose e forme alle quali si applica. Zanchius de societ. part. 1, cap. 1, N. 24, Mantica de tacitis et ambiguis conventionibus lib. 6 N. 1. Perciò invece dell’espressione i Giudici hanno preso in loro scorta la definizione.
Cosi i pubblicisti definiscono la Società: Societas est pactum vel quasi pactum define quodam conjunctis viribus assequendo. Volfius, ibique Vartel in notis jus nalurae et gentium part: 7, c.1, §1.
Posta la definizione si passò ad analizzare gli eleinenti che la compongono seguendo i criminalisti, i quali indicano gli estremi costituenti il Collegio il lecito.
Tre ne stabilivano gli antichi. Segno comune, arca comune, vicendevole intelligenza, o trattato. Ma il chiarissimo Antonio Mattei de criminibus, lib. 47, tit. 15, N. 1, 2, 3, ben riflette, che i due primi estremi non sono necessari.
Non il primo, altrimenti si confonderebbe il segno colla cosa significata.
Qualunque sia infatti il modo con cui i faziosi comunicano fra essi le loro perfide intelligenze, il vincolo d’iniquità è sempre lo stesso, sia poiché usino le indicazioni naturali, e il linguaggio comune, sia che esista un distintivo di convenzione, o nel gesteggiare compagnevole, o nello stemma, e impresa della Società, o nella affissione del segnale, come a spiegata rivolta suol avvenire.
Nemmeno necessario è il secondo estremo della cosa, od arca comune. Imperciocchè quantunque sia vero, che non può darsi Società senza comunione, benché possa esserci comunione senza Società (Leg. ut sit ff. pro socio. Zanchius de societ part. 1, cap. 7, N. 12), pure non è necessario che siavi comunanza di materia o di cosa, bastando che vi esista una massa accomunata di opere, come nel caso presente Grotius de jurebelli et pacis L. 2, cap. 12 de contractibus, § 4): cosi nella Società delle carovane niuno dei viaggiatori comunica all’altro il dominio delle proprie salmerie, sebbene ponga in massa la propria opera e forza onde resistere in caso alle aggressioni dei barbari.
Restando dunque a provarsi il solo estremo del mutuo accordo a mal fine, questo rimaneva stabilito nelle tavole processuali da questi elementi:
1. Dalle confessioni stragiudiziali di parecchi membri di tale collegazione, deposte da quattro testimoni uditi in processo. Se infatti questo delitto consiste nella reciproca intelligenza, e nell’animo di collimare tutti al reo fine, niuna miglior prova si potea conseguir di tale animo se non la stessa confessione dei collegati. Né deve obiettarsi che la confessione non può cangiare, o stabilire la natura della cosa, non supplendo questo mezzo alla deficiente prova fisica di un delitto in genere. Imperciocchè questo obietto sarebbe appunto valutabile in un delitto di fatto permanente, ove, per esempio, la sola confessione di aver ucciso non basterebbe a provare il delitto in genere, quando della uccisione non constasse pei sensi. Ma trattandosi appunto di un delitto razionale di fatto transeunte, perché consistente nel reciproco accordo, la prova desunta dalla confessione stragiudiziale non può incontrar tale obietto, quando poi non è sola, ma da altri veementi indizi e argomenti corroborata. (Carpzo vius Prax. rer. crim. par. 1, quaest. 16, N. 1 et sequentibus). Tali veementi indizi si desumevano dalle varie cause di scienza che or l’uno, or l’altro dei molti testimoni esaminati in processo adduceva nel proprio giudizio sull’esistenza di tale Società, e che si vengono qui in seguito annoverando quali altri mezzi costituenti la prova generica, cioè:
2. Le numerose turbe di contrabbandieri, altri carichi delle merci in frode, altri guerniti di armi or apparenti, or nascoste, che si facevano vedere nei dintorni, entrando persino talvolta con somma impudenza di pieno giorno, e transitando per la città sicuri di loro scarriera pel cumulo della forza maggiore. Imperciocchè al loro incontro i militi di finanza erano costretti di cedere alla forza dell’attruppamento, volgendo altrove il passo, e fingendo di non avere mirato un sì grave disordine. La provvida legge sempre coerente a se medesima, nell’Editto 5 maggio 1822 tuttora vigente, stabilisce al contrabbando in conventicola di due, tre o più persone la pena dai tre ai cinque anni d’opera pubblica, ed eguale pena dai tre ai cinque anni d’opera pubblica sanziona l’art. 143 del vigente regolamento penale per la resistenza semplice alla forza, quando il delitto non è accompagnato da circostanze aggravanti che lo rendano resistenza qualificata. E ciò sta in piena consonanza delle regole di comune diritto. Conciossiachè l’unire una forza insuperabile nel l’eseguimento di un’azione vietata, onde se ne renda impossibile alla milizia del Principe l’impedirlo, costituisce per se stesso una certa violenza, ossia un timore incusso, il quale trattiene la soldatesea suo malgrado nell’impedire il contrabbando commesso in danno del pubblico erario (Leg. 1 ff. quod metus causa) ibi: vis enim fiebut mentio propter necessitatem impositam contrarium voluntati. Ciò che spiega il Giureconsulto Voet ad pandectas 4, 2, 1. Metus vis inest in quantum metus supponit, et vim quidem non absolutam, sed conditionatam, non illatam, sed referendam. Sperelli dec. 5, For. Ecclesiast. N. 78 et seq.
3. Gli assembramenti numerosi dei liberali, e contrabbandieri che si vedevano in questa città fino al primo arrivo della Commissione per giudicare la causa degli omicidi Sparapani e Adolf, mostrando il loro disprezzo verso la forza pubblica, essendovi chi depone d’aver vedute le turbe di costoro passare vicino alcuni carabinieri, e fare ai medesimi stomachevoli oltraggi, do vendo quei soldati usare prudenza e continuare il loro cammino.
4. Le pompe funebri celebrate coll’intervento di molti liberali in morte di persone del loro partito, e ciò con tale pubblico scandalo, che l’autorità ecclesiastica fu costretta a farne divieto con apposita circolare. Dal che si arguisce la unione di costoro e l’aderenza ai loro partigiani con fermezza dure.
e vole oltre la tomba.
5. La fratellanza che si vedeva di continuo fra gente di simil pensare, e la loro fuga e persecuzione dei buoni. La quale duplice circostanza presenta in se stessa la vera idea di fazione popolare. Lipsius Politicorum lib.6, c.3; factione nomine paucorum at plurium inter se coitionem, et ab aliis dissensum.
6. Il risentimento in comune delle pretese ingiurie, o per dir meglio degli atti di giustizia esercitati sopra a qualche individuo della loro combricola, o su qualche delinquente ai medesimi simigliante. Ciò pure addimostra, che quei perfidi si consideravano tutti di una sola famiglia. «Spectat enim ad nos injuria, quae in his fit, qui vel potestati nostrae, vel effectui subjecti sunt».
L. 1, § 3 ff. de injur.
7. Gli applausi di comune accordo pubblicamente innalzati allorquando avveniva qualche omicidio per odio di parte in persona di un impiegato di polizia, o di un individuo della forza armata. Narra infatti un testimonio, che trovandosi una sera in teatro, udi ripetere spesse volte fuor di proposito l’esclamazione bravo, bravo. Maravigliandosi di simile improntitudine, e chiestone d’intorno il motivo, poiché gli attori non meritavano certamente quegli encomii, fu ad esso risposto non esser rivolti gli applausi agli attori, ne a chi aveva fatto il colpo di uccidere l’ispettore politico Montanari. Questo mede simo testimonio poi nella mattina successiva all’omicidio del brigadiere Sparapani, vide a passare gruppi di persone della feccia del Borgo Adriano, le quali fra esse ridendo esclamavano bravo, bravo. Ed egli che altro motivo non iscorgeva di simili grida, ricordando il senso del gergo, ne dedusse non molto fuori di proposito, che si applaudisse all’omicidio Sparapani, 8. L’ordine, che fra le compagnie dei contrabbandieri si scorgeva di di pendenti e di capi, locchè addimostra come fossero organizzati fra essi, costituenti perciò un collegio e un corpo sociale. Societas est multitudo ordinata; ordo autem quid aliud est quam series inferiorum, ac superiorum? Gal ganetti de jur.pub. tit. 16, num. 21.
9. L’uniformità del premio di uno scudo per ogni notte che si accordava per testa a ciascuno degli spalloni nel contrabbando, dal che si argomenta che non era distaccato un frodatore dall’altro, nel qual caso i compensi dei tirini sarebbero stati diversi secondo le varie convenzioni parziali, ma esisteva tra i contrabbandieri un sistema, un temperamento uniforme, una armonia di misure, e perciò un proponimento preso a comune, dirigendo i mezzi al fine con unione proporzionale.
10. Finalmente da qualche testimonio adducevansi altre ragioni di scienza, cioè la reciprocanza di aiuti fra l’uno e e l’altro dei compagnoni, la esclusione di risse fra i medesimi, le frequenti gozzoviglie comuni, lo scambio reciproco delle vesti, onde non esser conosciuti nelle loro notturne sortite, i discorsi talvolta intesi origliando notte tempo, fatti da persone incognite riunite, che bisognava disfarsi, ovvero uccidere il tale ispettore di finanza, o il tal brigadiere de’ carabinieri energico nella repressione del contrabbando, come avvenne prima dell’omicidio Sparapani; il provvedimento di danaro negli indi genti, che parea derivato dai partigiani più facoltosi. Al che deve aggiungersi l’argomento validissimo tratto dal bisogno, che un contrabbandiere aveva di unirsi all’altro, onde ottenere una scambievolezza di sostegno per superare la forza di finanza.
Per li quali motivi di scienza esposti dai deponenti, si deduce non essere erronea la notorietà riferita dai testimoni, né viziata quell’idea di Società, che si erano essi formata, essendosi tale immagine impressa nella loro mente come un fedele ritratto delle circostanze, e alla giusta impressione dei testimoni corrispondea l’espressione da essi usata in processo.
Ma qui si opponeva non essere stabilito il contratto di Società fra costoro né per convenzione simultanea scritta, né per annolamento nei ruoli, né per altro segno espresso di alleanza. Per altro era facile il rispondere, non essere necessario alla società un patto espresso ed esplicito, bastando eziandio l’implicito ed induttivo, ossia il consenso comune esternato coi fatti. Tale appunta mento di consenso a mal fine, espresso coi fatti, si verifica appunto nel caso concreto.
Se non che presentavasi il dubbio, se nella insubordinazione, nel comune disprezzo delle truppe pontificie si verificasse veramente tra correi, o complici, l’idea del vincolo, e dell’impegno reciproco, senza cui non può darsi vera idea d’alleanza. Ma trattandosi di fazione popolare a mal fine, non sembrò necessaria la mutua obbligazione, ossia l’idea del vincolo e dell’impegno, bastando a ciò l’abituale unione de’ consensi a mal fine reciprocamente riconosciuta ed approvata, come si definisce appunto la fazione: Malorum in eamdem rem consensum. Cremani de jur. crim. lib. 2, cap. 3, art. 1, p. 6.
Difatti il carattere dell’impegno o vincolo non può mai legalmente verificarsi in una società illecita, in cui la turpe promessa non forma nodo fra i soci. L’obbligo di permanenza e perseveranza appena si verifica nelle società lecite di cui è scritto nella legge: tamdiu cod. pro socio. Manet autem So cietas eos quae donec in eodem consensu perseveraverint. At cum aliqui renunciuverint Societati solvitur Societas. Basta dunque all’idea di fazione il plesso ed intreccio che nasce dalle comuni perfide intenzioni assieme manifestate, accettate, abitualmente ritenute, conformando ad esse l’esteriore condotta, ciocchè avvenendo, si verifica il comune impegno, non già in faccia ai soci, ma in faccia alla legge divenendo ciascun risponsabile, non solamente del fatto proprio, ma dell’operato eziandio di ciascuno degli altri cui esso aderi come nella costituzione – Quo graviora – contro le società illecite rimarcava appunto la santa memoria di Leone XII, ripetendo il detto di Paolo: come nella costituzione «Qui talia agunt digni sunt morte, et non solum qui ea faciunt,sed etiam qui consentiunt facientibus».
Ma insorger qui potea la difesa che in tal guisa, concependo una lega si confonderebbe la società con ogni complicità, appellandosi impropriamente più delinquenti soci nel loro delitto.
Il quale ostacolo si togliea distinguendo in tre stadii il numero dei più concorrenti a un delitto secondo gli effetti morali che ne derivano alla Repubblica. La sola qualità basta onde stabilire la complicità. Un numero superiore determinato dalle diverse leggi secondo la ferocia dei popoli e circostanza dei tempi, costituisce la conventicola, quella cioè, che per soli pochi istanti, e per un solo fatto speciale può formare una violenza pubblica capace nel mo mento di sovrastare alla legittima forza. Tale numero nelle nostre leggi è de terminato negli art. 105, 106. Ma quando la società a mal fine si estende ad un numero considerevole e permanente d’individui atto a compromettere lungo tempo la pubblica tranquillità, come nel caso presente in cui i collegati si indicano a centinaia, allora non trattasi di sola complicità, non di sola conventicola, o violenza pubblica,ma di violata pace pubblica, Carpzovius, p. 1, cap. 35 de crim. fractae pacis pubblicae n. 13. Boemer. ad Carpzov. ibi observation. 3, pag. 262. Haunoldus jurisprudentia judiciaria, t. 2, tr. 2, cap. 2, n. 482. Anzi tale delitto di permanente violenza costituito da simil collegio illecito sale al titolo di lesa Maestà, come si deduce dalla legge 2 ff. de Collegiis. Quisquis illicitum collegium usurpaverit ea poena tenetur qua tenentur qui armatis hominibus loca pubblica vel templa occupasse judicati sunt. Che è appunto quella di lesa Maestà come nella legge 1, § 1, ff. ad Leg. Tal Majestatis.
Il nostro Regolamento penale colloca esso pure il delitto delle società illecite fra quelli di lesa Maestà, lib. 2, tit 2, art 96, e ben a ragione. In ogni governo è necessario che siavi un potere capace di superare e trionfare di tutti gli ostacoli. Senza questo potere non vi è governo. Quando adunque una lega d’uomini violenti forma una andiperistasi alla forza del principe, talchè i ribaldi non possano più essere soggiogati dalla voce imperiosa della legge, allora si dichiara una aperta guerra al principe, la sovranità è lesa, e i refrattari sono ribelli.
Ma il difensore degl’inquisiti affacciava che lo scopo del contrabbando non presentava i caratteri di tanta gravezza. A ciò risponderassi primieramente col motu proprio di Benedetto XIII, 17 settembre 1928, richiamato in vigore dalla Circolare della Segreteria di Stato per gli affari interni 23 novembre 1833, num. 8561, in cui i contrabbandieri in conventicola armata costituita anche da tre sole persone sono apertamente dichiarati ribelli. Inoltre i testimoni fiscali ci attestano che gli spalloni sono anche liberali e uniti coi nemici del governo, tutti disposti ad insorgere, tutti pronti per resistere contro la forza.
Avvi dunque la prova del fine pessimo, delittuoso. Ma dato pure che i soci coinquisiti rimirassero al solo scopo del contrabbando, chi vorrebbe negare, che anche un tale disegno concepito da una moltitudine armata ed abitualmente eseguito con tanta pubblicità ed audacia non comprometta lo Stato?
Impossibile enim est ut sacris tributis non illatis alioque respublica eonservetur. Justinianus, novella 149. Perciò i Criminalisti anche più liberi riconoscono il contrabbando siccome un furto pubblico, non peculato indiretto, il quale dissecca le sorgenti del pubblico erario, induce la necessità di nuovi tributi, trasporta il carico delle imposte da un novero di cittadini a un altro che ne sarebbe stato esente, quando i proventi della non frodata gabella fossero colati in integro nella cassa del principe, avvezza lo spirito al sotterfugio, che da un genere facilmente trapassa all’altro, insinua nei cittadini il disprezzo della legge, forma una guerra d’interessi tra l’egoismo dei privati e il paterno amministratore dei beni comuni, rende incerto il prezzo delle cose mercantabili, vacillando ognora tra quello netto da gabella, che offre di celato il contrabbandiere, e quello sopracaricato della imposta, che richiedesi in foro: spinge alla rovina gli onesti negozianti fedeli contributori al loro principe, i quali non possono competere col mercadante frodatore, fomenta l’ozio della plebe, la quale in poche ore di azzardo e di tenebre può lucrare quanto avrebbe dovuto acquistarsi colla paziente, ma tranquilla fatica di tutto il giorno il quale trapassa in giuochi, gozzoviglie, ebrietà e e mollezze, che spesso vanno a scolare nella sentina dei lupercali, toglie alle arti utili tante braccia di lavoratori, aumenta il costo delle mercedi di opere a pregiudizio dei committenti per lo scemato numero degli operieri, colloca il frodatore in una continua indisposizione di animo contro la forza del principe, con grave probabilità ad ogni scontro di resistenza, ferite, omicidi: espone finalmente la società ad un sommo rischio della propria dissoluzione sopra tutti i rapporti, poiché sottraendo le merci alla vista degli ufficiali finanzieri, vengono sottratte egual mente alla ispezione dei magistrati sanitari, politici, religiosi: e quindi si possono introdurre vettovaglie malsane, carni insalubri, provenienze talvolta sospette di contagio epidemico, con pericolo della salute comune, del che non mancano anche nei moderni tempi recentissimi esempi: penetrano nelle città con tali clandestine introduzioni le corrispondenze, armi ed emblemi, che fomentano ognora il frenetico spirito della rivolta, e spargonsi libri ed immagini le più velenose per la morale, contrarie alle massime sacrosante della Religione Cattolica, disordini tutti i quali nascono ad un parto con quello del contrabbando, e che si eviterebbero in gran parte quando la violazione dei sacri termini tra Stato e Stato, dei confini continentali, delle mura cittadine che, sanzionata dal comune diritto con severissime pene, cessasse una volta di sconvolgere fra noi l’ordine sociale.
Per questi motivi la Commissione si è convinta intorno alla esistenza del genere delitto in genere.
Passando ad esporre i motivi della prova specifica nel sistema dell’intima convinzione, sarà lecito di usare brevità.
Basti solo accennare che i massimi aggravati apparivano quasi tutti colpiti da due o tre testimoni di confessione stragiudiziale, amminicolata da gravi indizi, come Versari, Paccapeli, detto Gaiani, Gambi Eugenio, Barasa, Baroncelli, Pambianchi, De-Stefani, De-Marchi, altri dal possesso incolpante di prova congetturale scritta, come Felice Miserocchi, altri dal possesso di prova reale, siccome Orioli Achille, altri alfine da bastevoli, svariati argo menti, congetture ed indizi, i quali posti nella bilancia giuridica e prudenziale, persuasero i giudicanti di ritenere la loro reità o complicità se non positiva, almeno negativa per connivenza, o adesione indiretta, graduando sul maggiore o minore concorso del dolo o colpa la pena applicabile. Né parve rigore soverchio di valutare in un delitto di Stato (comunque vogliasi definire obliquo) la stessa complicità negativa come è disposto dal comune diritto:
Legge 3, Cod. ad Leg Jul Mai 8 6, perché nei grandi delitti interessanti la comune sicurezza la stessa omissione di non impedire le conosciute trame, le intelligenze e maneggi dei riottosi, forma una colpa punibile, sebbene con mite castigo.
Per gli altri inquisiti poi non colpiti da bastevoli indizi per ritenerli rei o complici, la giustizia del tribunale adottò le clausule degli art. 446, 447 del vigente Regolamento di Processura.
Scendendo infine a ragionare sulla pena, ritennero i giudicanti, che la coalizzazione degli inquisiti indettati per eguale illecito proponimento, costituisse una permanente violenza, collimando il concorso dell’uno ad accrescer l’audacia dell’altro, come in materia di società illecite condolevasi l’accennato immortale pontefice Leone XII. «Perspicue potest perniciosissimarum ha rum Societatum vim et audaciam ex omnium qui iis nomen dedere con fensione ac multitudine coalescere». Ma questo carattere di permanente violenza potrebbe comprendere diversi titoli criminosi: «Quoniam multa faci Onora sub uno violentiae nomine comprehenduntur», Leg. quoniam multa Cod. ad Leg. Jul. de vi pub.
Poiché dunque niuna prova esiste in processo che alcuno dei giudicabili siano correi o complici negli omicidi Sparapani e Adolf, ovvero negli altri ferimenti ed uccisioni di militari, o funzionari rimasti tuttora impuniti, poiché la unanime loro collegazione di fatto non presentava i caratteri della società espressa e secreta di cui nell’art 96, poiché infine trattavasi di abito piuttosto che di specifici atti contestati di resistenza per applicare l’art. 143;
il tribunale si limitò a contemplare il delitto come una permanente ingiuria atroce alla legittima podestà e forza del principe, commessa o assentita direttamente o indirettamente dagl’inquisiti in comune. E quindi fu misurata la pena sulla base degli art. 328, 329, 331 cogli aumenti circostanziali degli articoli 107, 103 specialmente pei capi, e coll’aggiunta edittale dei gradi preveduti dalla Notificazione 27 maggio 1843.


Per tali motivi
INVOCATO IL SS. NOME DI DIO

La Commissione suddetta Definitivamente sentenziando ad unanimità di voti Ritenuta la competenza, ha dichiarato e dichiara essere provata in genere la esistenza in Ravenna di una collegazione faziosa di molti individui anche armati, tendente alla infrazione delle leggi, specialmente erariali, con vilipendere in odio di Uffizio, e incuter timore alla forza pubblica, la quale milita per la conservazione dello Stato, e per l’esatta osservanza delle sue Leggi.
Parimente alla stessa unanimità ba dichiarato e dichiara constare in ispecie colpevoli di appartenere alla detta collegazione Versari Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi Felice, Gambi Eugenio, Barasa Andrea, Pambianchi Mi chele, Baroncelli Giovanni, Samaritani Saverio, Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico, De – Stefani Leonardo, Dellavalle Mauro, Dulcini Angelo, De-Marchi Federico, Orioli Achille, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Ta rifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio, Vaccolini Giovanni, Vicari Augusto, Cappi Carlo, Camerani Paolo, Rava Gaetano, Giapsanti Ciriaco, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni Pietro, Savini Giovanni, Gabici Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi Giovanni, Della Torre Magni Marco.
E perciò visti gli art. 328, 329, 331, combinati cogli art. 107, 108 e 13 del vigente Regolamento penale, e coll’art, della Notificazione della Segreteria di Stato 27 maggio 1843, alla stessa unanimità ha condannato e condanna Versari Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi Felice e Gambi Eugenio alla ga lera per anni quindici. Barasa Andrea, Pambiancbi Michele, Baroncelli Gio vanni, Samaritani Saverio, Paterlini Lodovico e Randi Giuseppe alla galera per anni dieci. De -Stefani Leonardo, Dellavalle Mauro, Dulcini Angelo, De Marchi Federico alla galera per anni sette. Orioli Achille, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Tarifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio, Vaccolini Gio vanni, alla galera per anni cinque. Camerani Paolo, Cappi Carlo, Vicari Augusto, Rava Gaetano all’opera pubblica per anni cinque. Gianfanti Ciriaco, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Camporesi Giacomo all’opera pubblica per anni tre. Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni Pietro, Savini Giovanni, Gabici Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi Giovanni, Dalla Torre Magni Marco all’opera pubblica per anni due.
Ha poi dichiarato e dichiara sempre ad unanimità, non constare abbastanza provata la colpabilità delli Gambi Antonio, Fabbri Annibale, Bertacchi Ermenegildo, Gianfanti Andrea, Landoni Teodorico, Fiorentini Ono frio, Montignani Pietro, Pasini Mariano, Conti Antonio, Boschi Domenico, Mazzetti Luigi, Maraffi Domenico, Baldini Gaspare, Barbieri Giovanni, Pascoli Lucio, Golfarelli Emidio, Gabici Achille, Rivalta Domenico, Ortolani Giovanni, Rambaldi Gaspare, Giansanti Giovanni, Landi Vincenzo; do versi però tutti i suddetti a termini dell’art. 447 del vigente Regolamento di Processura trattenere in carcere altri sei mesi decorrendi dalla pubblicazione della presente sentenza, onde assumere in tale spazio di tempo ulteriori indagini.
Ha poi dichiarato e dichiara, sempre ad unanimità, non constare abbastanza la colpabilità degli altri detenuti Poletti Luigi, Carlini Giovanni Antonio, Orioli Febo, Bergozzi Giuliano, Pugiotti Francesco, Gambi Domenico, Pinza Francesco, Fava Felice e Morigi Domenico; perciò a’ termini 446, 675, 676 del vigente Regolamento di Processura suddetto ha ordinato ed ordina che vengano dimessi dal carcere provvisoriamente.
Infine sempre ad unanimità ha dichiarato e dichiara esser tenuti in solido tutti i suddetti condannati al pagamento delle spese di processo e vitto, non che alla rifusione dei danni verso l’Erario pubblico.
Tutte le suddette pene temporanee dovranno cominciare a decorrere tre mesi dopo la rispettiva carcerazione dei condannati.
Il sig. f.f. di Presidente s’incarica della redazione motivata della presente sentenza.
Antonio Colognesi Attilio Fontana Stanislao tenente colonnello Freddi Luigi Magnani tenente colonnello Camillo tenente colonnello Viviani Luigi Trogli Cancelliere Raffaele Magnani f.f. Governo Pontificio Commissione speciale straordinaria mista sedente a Ravenna Vista la presente sentenza, Visto il dispaccio della Segreteria di Stato, in cui si dichiara, che essendo piaciuto all’Eminetiss, e Reverendiss. sig. Cardinal Massimo Legato di questa Provincia, chiamare lo Sguardo Clementissimo di Sua Santità sulla pronunciata sentenza, la Santità Sua in contemplazione dell’ufficio usato da Sua Eminenza, si è degnata diminuire di due terzi la pena inflitta a ciascun condannato, e di ordinare che siano dimessi fin d’ora in libertà provvisoria i venti due inquisiti che dovevano trattenersi in carcere per altri sei mesi,
Si ordina Che previa la intimazione della sentenza ad ognuno dei giudicati, vengano dimessi immediatamente dal carcere tutti coloro, che sono stati dichiarati non bastantemente colpevoli, e vengano i condannati tradotti ad espiare le rispettive loro pene nel senso della sovraindicata minorazione.
Dalla Residenza della Commissione Speciale Straordinaria Mista.
Gio. Pietro Gozzi Proc. Fiscale.


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