Corte di Cassazione e diritto di voto della donna

Corte di Cassazione sentenza del 1906 sfavorevole al diritto di voto della donna

Sentenza della Corte di Cassazione di Roma del 4-15 dicembre 1906 in Roma, Corte di Cassazione di Roma, Sentenze civili 1906, n. 883
In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III
per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia.
La Corte di Cassazione di Roma Sezione Civile omissis

Considerato Che Dina Tosoni ed altre otto Signore domiciliate in Senigallia, e Luigia Mandolini Matteucci domiciliata in Montemarciano facevano domanda alla Commissione provinciale elettorale di Ancona di essere iscritte nelle liste elettorali politiche, e la detta Commissione ritenendo di riconoscere nelle richiedenti tutti i requisiti legali, cioè il possesso dei diritti civili e politici, l’età maggiore di ventun’anno, il sapere leggere e scrivere, poiché tutte erano fornite di patente di maestre elementari, ordinò la loro iscrizione nelle liste di quest’anno.
Che il Procuratore del Re presso il Tribunale di Ancona appellò contro tale deliberazione sostenendo di essere le donne per leggi vigenti incapaci del diritto elettorale; ma quella Corte di appello con Sentenza del 25 luglio 1906 respinse il gravame.
Che il Procuratore Generale presso la medesima Corte con ricorso notificato alle interessate ha chiesto l’annullamento di cotesta Sentenza, per essersi con essa falsamente applicato l’articolo 24 dello Statuto del Regno e violati gli articoli 1-8-12 della legge elettorale del 28 marzo 1895.
Che si è eccepita l’inammissibilità del ricorso perché non accompagnato dall’elenco dei documenti dati in comunicazione, e perché nelle copie notificate alle interessate manca la firma del Procuratore Generale ricorrente.
Che non sussiste la prima ragione giacché per la natura del presente ricorso altro documento non occorreva produrre se non la sentenza impugnata, e questa è stata regolarmente presentata.
Che neppure regge la seconda ragione, bastando a rendere valida la notificazione del ricorso che il medesimo sia stato sottoscritto nell’originale dal Procuratore Generale ricorrente e che l’ufficiale giudiziario abbia attestato nelle copie notificate di essere esse in tutto conformi all’originale e quindi anche nella parte ove è riportata la sottoscrizione. Che passando all’esame del ricorso, egli è da notare che la Corte di appello ha desunto il principale argomento per ritenere le donne capaci del diritto elettorale politico dalla considerazione che l’articolo 24 dello Statuto riconosce a tutti i regnicoli, senza alcuna distinzione di sesso, il godimento dei diritti civili e politici, e che l’inclusione di entrambi i sessi in questa espressione di regnicoli vin confermata dal successivo articolo 25, il quale dichiarando di dover tutti essi concorrere in proporzione dei loro averi a carichi dello Stato, comprende senza alcun dubbio nella generale sua disposizione anche le donne.
Che un simile argomento non può avere nella risoluzione della presente questione la importanza che la Corte ha creduto di poter ad essa dare; imperocché, se non è da dubitare di avere anche le donne il godimento dei diritti politici nel senso generico attribuito a questa espressione per denotare qualche cosa di diverso da diritti meramente civili, non è lecito dedurre da ciò la conseguenza che tutti i diritti politici siano stati conceduti alle donne.
Che l’art. 24 dello Statuto, pure riconoscendo in tutti i regnicoli il godimento dei diritti civili politici e dichiarando inoltre di poter tutti venire ammessi alle cariche civili e militari, fa nondimeno espressa salvezza delle eccezioni determinate dalle leggi.
Che siffatta riserva basta già di per sé a togliere calore all’argomento che il diritto elettorale debba essere riconosciuto anche alle donne solo perché manca al riguardo una espressa eccezione nel medesimo articolo 24, mentre è poi certo che, nonostante la generalissima locuzione in essa adoperata vi hanno dei diritti politici, come quello dell’ammissione alle cariche civili e militari, da cui le donne sono senz’altro escluse per la ragione del loro sesso. Che spettano certamente anche alle donne quei diritti politici, che sono determinati dal sol fatto della cittadinanza e debbano considerarsi quali attributi della stessa personalità come la libertà individuale, la inviolabilità del domicilio, il diritto di manifestare la propria opinione, il diritto di riunione ed altri consimili.
Che havvi però un’altra categoria di diritti politici, e sono quelli che più propriamente rispondono a tale qualificazione, i quali, senza bisogno di ricercare se e fino a qual punto la loro generica capacità possa essere riconosciuta anche nelle donne in virtù dell’articolo 24 dello Statuto, non possono tuttavia venir ad esse attribuiti quando manca un’espressa disposizione di legge che ne conceda anche a loro l’esercizio.
Che tra cotesti diritti rientra il Diritto elettorale, il quale anche per gli uomini non ripete la sua ragione di essere dalla sola generica dichiarazione statutaria contenuta nel citato articolo 24, ma dalle apposite leggi venute posteriormente, le quali hanno dapprima stabilito le condizioni per cui si diventa capaci di esercitarlo ed hanno poscia apportato alle medesime, secondo il progresso dei tempi, successive riforme.
Che il non potersi invocare la solenne proclamazione di uguaglianza contenuta nella citata disposizione per attribuire anche alle donne il diritto elettorale, è reso eziandio manifesto dal considerare che proprio scopo d’essa fu quello di dichiarare cessata ogni distinzione di classe e quindi aboliti tutti i privilegi di classe e quindi aboliti tutti i privilegi e tutte le prerogative che potevano essere retaggio dell’antica regione; ed ove si ponga mente alle esigenze a cui s’intese soddisfare mediante la concessione dello Statuto, si scorgerà di leggieri che i suoi compilatori non potettero avere l’intendimento di parificare a tutti gli effetti la condizione della donna a quella dell’uomo se la prima continuò a rimanere soggetta anche nel riguardo dei soli diritti civili a non poche eccezioni e limitazioni. Che una conferma di questo concetto si ha nel fatto che in tutte le leggi riguardanti l’elettorato amministrativo, a cominciare da quella subalpina del 1848 fino all’ultima ora vigente, la esclusione delle donne è stata formalmente dichiarata, senza che perciò si potesse dire di essersi colle dette leggi fatta una cosa contraria alla costituzione togliendo alle donne un diritto politico che fosse stato già in loro favore riconosciuto dallo Statuto.
Che in verità nella legge elettorale politica non si rinviene una simile disposizione che in modo categorico vieti alle donne di partecipare alle elezioni; ma prima di vedere se da talune prescrizioni della stessa legge non risulti implicitamente cotesta esclusione, conviene esaminare quale sia la condizione fatta alle donne rispetto all’esercizio dei diritti politici da tutta la vigente legislazione.
Che ora egli è innegabile che tutte le leggi che hanno ordinato e disciplinato l’esercizio delle pubbliche funzioni di ogni sorta sono fondate sul presupposto ed hanno come principio e regola, che non si è sentito neppure il bisogno di dichiarare espressamente, di non potere le donne venir ammesse ad una qualsiasi partecipazione di funzioni e cariche attinenti alla vita politica dello Stato. Che ad esse è anche negato il concorrere ai più importanti atti ed uffici che abbiano carattere pubblico; e sono occorse apposite disposizioni legislative perché potessero essere chiamate a far parte dell’amministrazione degli istituti di beneficenza e dei collegi dei probiviri.
Che tale essendo la condizione creata alle donne dallo stato attuale della legislazione che governa i rapporti di pubblico diritto, diventa ovvia ed irrecusabile la conseguenza di non essere ad esse consentito l’esercizio del diritto elettorale, il quale ha per fondamento la partecipazione dei cittadini alla pubblica cosa mediante la nomina di coloro che debbano esercitare la funzione legislativa.
Che in tal guisa il diritto all’elettorato trova per le donne un ostacolo in quelle eccezioni determinate dalle leggi di cui parla l’articolo 24 dello Statuto; e non vi ha certo alcun bisogno di dimostrare che le eccezioni da tale articolo contemplate non sono quelle soltanto che si trovino espressamente formulate in qualche testo di legge, ma quelle altresì che risultano dalle regole fondamentali e dallo spirito informatore di tutta la legislazione in materia di pubblico diritto.
Che cotesta condizione in cui anche dopo la promulgazione dello Statuto erano rimaste le donne rispetto ai diritti politici, dove per fermo essere tenuta presente quando fu compilata la legge elettorale; e se si fosse allora pensato di introdurre una deroga al principio generale concedendo ad esse il diritto all’elettorato, non era possibile che ciò avvenisse senza una formale ed esplicita disposizione che lo dichiarasse e ne determinasse i modi e le condizioni di esercizio, ovvero stabilisse di dover il medesimo essere in tutto uguale per entrambi i sessi.
Che se ciò non fu fatto, torna vano il voler argomentare la concessione del diritto elettorale alle donne dalla mancanza di una espressa clausola proibitiva, quando il bisogno di una simile clausola non poteva in alcun modo occorrere in una legge che, regolando uno di quei diritti politici da cui le donne erano escluse in forza al principio dominante in tutte le leggi di ordine pubblico e politico, non poteva non essersi conformato, tostoché non dispose altrimenti, alle medesime norme ed ai medesimi criteri.
Che il non essersi quindi voluto concedere alle donne il diritto al voto costituisce un presupposto indispensabile della legge elettorale politica, e ciò rinviene una sicura conferma in talune delle sue disposizioni, le quali non solo mal s’intendono senza quel presupposto, ma valgono anche di per sé sole a fornire una positiva dimostrazione che le donne non sieno state ammesse al godimento dell’indicato diritto. Che invero l’art. 8 della legge elettorale del 28 marzo 1895 dichiara che al marito si tien conto, per il censo, della contribuzione pagata dalla moglie, la quale non sia da lui legalmente separata; e l’art. 12 della stessa legge stabilisce che le imposte pagate da una vedova o dalla donna separata dal marito possono essere computate per il censo in favore di uno dei figliuoli o generi da lei designato.
Che coteste disposizioni lasciano chiaramente intendere di non potere le donne essere elettrici anche quando posseggano il censo all’uopo richiesto, imperocché, ove cotal diritto esse avessero, non si comprenderebbe come il loro censo dovesse servire ai mariti o potesse essere computato per rendere elettore qualcuno dei figli. Che la facoltà poi concessa dal capoverso dello stesso art. 12 soltanto al padre,e non puranche alla madre, di delegare ad uno dei figli o genero l’esercizio del diritto elettorale, quando egli non possa o non voglia esercitarlo, rende sempre più manifesto il concetto di essere state dalla legge ritenute le donne prive del diritto elettorale, sicché non possono delegarlo neppure ad uno dei loro figli, mentre viene ciò consentito al padre, consentendosi ad esse soltanto, sempreché sieno vedove o separate dal marito, la facoltà di costituire colle contribuzioni a proprio carico il censo necessario perché possa diventare elettore qualcuno dei loro figli.
Che egli è pur da notare che, durante il matrimonio e sempre quando nessuna separazione legale sia intervenuta fra i coniugi, non è neanche richiesto alcun esplicito consenso della moglie per potersi il marito avvantaggiare della contribuzione da lei pagata al fine di diventare lui elettore, giacché l’art. 8 dichiara senz’altro di tenersi conto al marito della imposta pagata dalla moglie; il che non potrebbe avvenire senza una formale sua annuenza se a lei fosse dato di avvalersene per proprio conto.
Che non giova qui opporre che simili disposizioni si rinvengono anche negli art. 17 e 18 della legge Com. e prov., e nulladimeno si è creduto necessario di dichiarare espressamente nell’art. 22 di non potere le donne essere elettori né eleggibili.
Che l’essersi menzionate in tale articolo anche le donne tra coloro a cui è negato il voto per le elezioni amministrative null’altro significa se non che la legge ha voluto confermare con una ulteriore sanzione positiva quella esclusione che risultava già indirettamente dal tenore degli articoli 17 e 18, ed era una conseguenza indiscutibile della condizione fatta alla donna dal pubblico diritto imperante nel Regno, secondo quanto è stato sopra osservato.
Che l’avere il legislatore aggiunto al riguardo un’esplicita dichiarazione dimostra sempre più il proposito da cui egli era dominato di mantener fermo il principio della esclusione delle donne da ogni partecipazione alle funzioni di carattere pubblico e quindi anche dal voto amministrativo, allontanando così il dubbio che, nella limitata sfera degli interessi municipali, si potesse ritenere ammissibile un’eccezione alla regola generale.
Che il dubbio poteva sorgere sia perché non mancava in qualcuno degli antichi Stati d’Italia la tradizione di una certa partecipazione accordata alle donne, per quanto indiretta e circondata di restrizioni, negli affari delle amministrazioni comunali, sia perché in altri Stati d’Europa il loro concorso alle elezioni delle rappresentanze locali si era cominciato ad ammettere con disposizioni legislative, ed anche nel Regno in più di un disegno di legge relativo alle riforme dell’amministrazione comunale era apparsa la proposta di concedere alle donne questo limitato diritto di voto. Che la riforma però non riuscì a farsi strada, e ciò prova ancora una volta di essere le donne rimaste sempre incapaci del diritto di voto nelle elezioni politiche, non potendosi in alcun modo accogliere il concetto che speciali ragioni di convenienza avessero indotto il legislatore a negar loro nel campo amministrativo un diritto che già possedessero agli effetti dell’elettorato politico.
Che senza qui entrare a vedere se per l’esercizio del diritto di voto nelle elezioni delle rappresentanze municipali occorra, com’è parso alla Corte di appello, una maggiore attitudine che per quelle della rappresentanza politica, egli è inconcepibile che il diritto di concorrere alla nomina dei rappresentanti della nazione si fosse potuto acquistare dalle donne sotto l’impero delle leggi vigenti e nello stato attuale del pubblico diritto quasi inconsapevolmente e senza che il legislatore si rendesse conto della importanza degli effetti che l’esercizio di simil diritto anche per parte del sesso femminile avrebbe avuto non solo con l’accrescerne in larga misura il corpo elettorale, ma anche col modificarne profondamente la composizione.
Che riforme di questa natura nella sfera del pubblico diritto non possono senza una lunga e studiata preparazione e senza una matura ponderazione di tutte le conseguenze che in qualunque senso potranno da esse derivare e ripercuotersi su tutta la vita dello Stato; e basterebbe questo soltanto a dimostrare la vanità di ogni sforzo che voglia farsi mediante la interpretazione di qualche singola disposizione per giungere alla conclusione che l’altra metà della intera popolazione del Regno si trovasse già in possesso di un diritto politico che nessuna legge ha finora riconosciuto, determinandone le condizioni e regolarne l’esercizio, e che per contrario apparisce escluso da tutto il diritto pubblico vigente, non solo nelle disposizioni scritte, ma anche nelle norme, nelle consuetudini e nelle tradizioni sempre riconosciute, che le completano e ne formano parte integrante. Che vuolsi infine osservare che, ove dovesse ammettersi il diritto delle donne all’elettorato politico solo perché anch’esse possono reputarsi subietti di diritti politici stando alla formola generica dell’art. 24 dello Statuto, converrebbe far luogo a tutte le conseguenze di una tal principio; ed allora riuscirebbe malagevole il rinvenire la ragione per cui non potessero le donne diventare eleggibili posto ché, giusto l’art. 40 del medesimo Statuto, ad essere deputati la fondamentale condizione che si richiede si è il possesso dei diritti civili e politici, e nessuna espressa esclusione trovasi fatta del sesso femminile. Che torna quindi manifesta la necessità dell’intervento del legislatore perché le donne sieno ammesse a godere qualcuno dei diritti politici che importino una diretta o indiretta partecipazione a pubblici poteri dello Stato; e il giudicare altrimenti non è interpretare la legge facendo rientrare nella sua formola nuovi casi e nuove esigenze che virtualmente e come in germe fossero già da esse contenuti, ma è usurpare l’opera legislativa senza che l’innovazione a cui si apre l’adito possa essere giustificata dalla maturità del bisogno che, trattandosi di riforme di ordine pubblico, soltanto il legislatore è in grado di riconoscere, e senza che la medesima innovazione possa essere circondata da quei temperamenti e da quelle cautele che si reputassero necessarie o convenienti. Che per le esposte considerazioni debbesi far diritto al ricorso del procuratore Generale ed annullare la denunziata Sentenza.
La Corte accoglie il ricorso del Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Ancona avverso la Sentenza profferita da quella Corte il 25 luglio 1906 ed annullando tale sentenza rinvia la causa per nuovo esame alla Corte di Appello di Roma.

Così deciso in Camera di Consiglio dalla Prefata Corte di Cassazione in Roma li 4 dicembre 1906.
Seguono le firme Pubblicata a norma di legge all’udienza delle Sezioni Unite del quindici dicembre 1906.
M. Rossi Per questi motivi, respinge l’appello.

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