Della libertà religiosa in Italia di Minghetti

Della libertà religiosa in Italia: lettere dodici al Signor don Vincenzo Ferranti, Professore all’Università di Bologna, di M. Minghetti

Categoria: Risorgimento

LETTERA I.

Delle controversie che oggidì s’agitano nel mondo, una delle più gravi, se non forse la gravissima, è quella intorno alla libertà religiosa. Per quanto a prima giunta appaia che le costituzioni civili, gli ordinamenti politici, la ripartizione delle ricchezze, e le attinenze franazionali siano in cima ai pensieri e agli affetti degli uomini, pure, a chi ben guardi, l’ansietà maggiore scorgesi tuttavia nelle cose dell’anima. Imperocchè sebbene l’uomo sia svagato dagli oggetti di fuori, e disperso in tanta varietà di occupazioni e di commerci, pur tratto tratto è revocato alla propria coscienza, e alla contemplazione del suo compito in terra e del suo destino dopo la morte. I quali pensieri, se per la grandezza che in sé hanno esaltano lo spi rito, per la terribilità loro lo umiliano e lo spaventano.
Con essi le scienze tutte hanno qualche attinenza, e talune ci metton capo, o ne piglian la norma e l’indirizzo.
Similmente le credenze religiose s’insinuano anche inconsapevolmente nelle cotidiane determinazioni che l’uom piglia, e la efficacia loro è grande in tutti gli atti della vita. Indi la potestà civile fu inchinata sempre a mescolarsene, quando per proteggerle, quando per signoreggiarle, e talora servì alla fede, più spesso se ne servì ai proprii intendimenti. D’altra parte i diritti che l’età moderna propugna ed esalta, s’appuntano e si collegano alla libertà della coscienza. Imperocchè le franchigie del Me dio Evo erano più presto prerogative di classi e di corpo razioni, privilegio alla elezione del Governo, temperamenti di monarchia o di repubblica, di quello che diritti espressi e comuni. La libertà giuridica e universale che noi andiamo cercando, siccome conforme a ragione, confacente alla dignità umana e generatrice di un nuovo ordine di cose, è il portato della civiltà moderna. Dimostrata dai filosofi del secolo decimottavo, ne’loro scritti, essa fu messa in atto per la prima volta nelle colonie americane, allorchè, scosso il giogo dell’Inghilterra, rivendicarono la loro indipendenza: indi la Francia trasse le sue categorie dei diritti umani, e quelli che oggi con baldanza chiama principi del 1789. La via del mezzo fra lo stato antico sociale e il moderno, gli espedienti proposti e provati sovente in questa materia, possono farsi buoni per opportunità, e perché il trapasso non sia d’un salto, ma non hanno valor di fine, né costituiscono una teorica razionale e logicamente connessa. Uopo è adunque risolversi pro o contro quei principii, e accettare le conseguenze che dal sì o dal no derivano necessariamente. Di tal guisa sentono gli ingegni più eletti e vanno in traccia della verità con quell’ardore affannoso di che l’anima è piena quando riguarda le cose a sé più intime e più essenziali. Vedete il Rosmini e il Gioberti in Italia, il Bunsen in Germania, il Gladstone in Inghilterra, come dopo lunghe disquisizioni sempre s’abbattano a quel punto, e riconoscendo l’importanza del problema s’affaticano di scioglierlo. E voi pure, o mio caro amico, non dubitaste trattarne dalla cattedra, parendovi che il diritto naturale e delle genti scaturisca dalle mede sime fonti, e corra per l’uno o per l’altro rivo secondo che accetta o ripudia la libertà religiosa. Ben m’accorgo che le passioni accanitamente s’inframettono di questa controversia, e le danno sembianza di pugna ostinata e crudele: lo veggo nel Belgio, nella Svezia, in Italia e nella stessa Francia. Ma noi deplorando, lascieremo da parte tutto che la cupidità, l’ambizione o il rancore può mescolarvi di sofistico e di torbido. E guardando solo al vero ed al bene, termine fisso del nostri studii, accoglieremo di buon grado, e qual ch’ella si sia, quella conclusione che discenderà da savie premesse e da forte raziocinio, non a guisa di pusilli che paventano di alzare il velo della scienza, e chiudon gli occhi a quel che contrasta alle abitudini e ai pregiudizi ricevuti nell’animo. Però nel manifestarvi questi pensieri che sovente ho meditato, e non senza dubbietà ed angustia, io mi dichiaro volonteroso di ascoltare le vostre osservazioni, e pronto a riconoscere l’errore ove mi sia dimostrato. E per entrare senz’altro in materia, comincierò dal ben circoscrivere il soggetto di queste lettere, e metterle nei termini più chiari e più semplici, i quali mi paiono i seguenti.
I doveri, come i diritti, degli uomini cadono tutti sotto la legge morale, ma non tutti cadono sotto la legge positiva. Avvegnachè sebbene l’uomo nasca alla società e particolarmente alla società civile, tuttavia questa non governa tutti i suoi atti, ma solo quella specie di essi che è ordinata al suo fine. La quale specie di doveri, più ristretta del dovere in genere, ha poi questa caratteristica che vien promulgata e sancita da un’autorità imperante, che ne impone l’adempimento e ne punisce la violazione.
Queste premesse mi paiono addimostrate dai filosofi, e dagli scrittori di morale e di diritto per guisa che non occorre di ripeterne gli argomenti. Le avrò dunque per concesse, tanto più che, se io non erro, consuonano appieno colle vostre teoriche.
Chiedesi impertanto se i doveri religiosi faccian parte di questa seconda categoria, ossia se la potestà civile abbia il diritto d’imporre ai cittadini la professione di un dogma, e l’osservanza di un culto determinato.

LETTERA II.

Come il buon cultore, perché la pianta stenda le sue radici, e cresca soleggiata ed altera, vien purgando intorno intorno il terreno dai germogli e dalle erbe adul terine, così noi ci studieremo innanzi tratto di mettere in evidenza il concetto di libertà religiosa, sceverandolo da alcune altre nozioni che ne potessero render perplesso il significato. Imperocchè di primo tratto può apparire che niuno contraddica a questa libertà, finché propria mente essa stia rinchiusa nell’intimo della coscienza.
Quivi nessun occhio scrutatore può penetrare, niuna forza esteriore premere; quello è il sacrario ove i profani non entrano, il fortilizio che nessuna macchina può espugnare.
Ma codesta non sarebbe libertà vera, sibbene un fantasma di essa. E di fatto che è una potenza che non possa estrinsecarsi ad uscir di se medesima? Può l’uomo con servare, svolgere, tutelare i suoi pensieri se veramente gli è vietato darne alcun segno? Non è egli un desiderio vivissimo, che dico un desiderio, un bisogno, uno stimolo incessante di palesare i sentimenti nostri con atti di fuori?
Invano in sepolcro murato si presume tener viva la fiamma: tosto la mancanza di aere la soffoca e la spegne.
Così la vita interna di ogni ente si alimenta e invigorisce per la vita di relazione. Pertanto noi dichiariamo in sul primo cominciar della discussione che intendiamo prendere a subbietto non solo la recondita e muta credenza, ma la facoltà di esprimerla con atti esteriori, vuoi di parola, di stampa, di culto, di associazione: la professione insomma privata e pubblica della propria religione, salvo di rispettare in altrui il medesimo diritto. E però trovando impropria la parola di libertà di coscienza, vi abbiamo preferito quella di libertà religiosa.
Un altro punto che ci piace di chiarire si è che noi accettiamo la sentenza, che dice l’unità religiosa essere un bene non solo in sé, ma anche rispetto allo Stato. Se avvenga che i cittadini di una medesima nazione ol tre i vincoli della razza, del clima, della lingua, della storia, della tradizione, s’accordino in una stessa fede e in un culto medesimo, le relazioni loro saranno per avventura più sincere e benevole, e più perfetta ne risulterà la civile convivenza. E questa mi pare opinione da preferire, sebbene io vegga potersi disputare se una certa discrepanza anche in fatto di religione non sia fon data sull’umana natura, se la emulazione delle sétte, e lo invigilarsi che fanno, non abbia effetti lodevoli in quanto mantiene in loro vivo lo zelo e la disciplina e le preserva da corruzione, se infine il dissenso non sia un apparecchio e una condizione necessaria allo svolgersi di qualunque dottrina. Ma lasciamo stare queste obbiezioni, e accettiamo come intento e speranza finale l’unità religiosa unum ovile et unus pastor. Ma ciò nulla significa al quesito nostro. Imperocchè si tratta di sapere se questa comunione di credenze, d’affetti e di culto debba esser sempre libera e spontanea, oppure possa eziandio venire imposta dalla coazione. Ecco dove nasce la differenza d’opinioni, non altrove: perocchè sarebbe un contraddire alla libertà e annullarla se le si recidesse la via all’accordo e alla unanimità dei voleri
È adunque assurda l’obbiezione che suole accamparsi che libertà religiosa equivalga ad anarchia degli spiriti: imperocchè ciò scambia l’intimo dell’animo con estrinseche condizioni e non punto necessarie. E chi oserà negare che si può concepire benissimo il fervore e l’unanimità della fede nei cittadini senza che il Governo la imponga: e per lo contrario chi non vede troppo spesso congiungersi le pratiche comandate col dissolvimento di ogni credenza?
E procedendo, dico che un’altra obbiezione insussistente, recata innanzi per offuscare il quesito, è quella che dice: la libertà religiosa è la libertà del male. Son queste locuzioni prese a prestanza dai Francesi, i quali nel bollore della disputa amano trarsi d’impaccio con un motto: ma uomini gravi non dovrebbero ripetere sul se rio un bisticcio come fosse un argomento. Imperocchè egli è certo che la parola libertà inchiude il poter di eleggere fra il bene ed il male, ma non perciò confonde l’uno coll’altro, anzi crea il merito e il demerito che senza di essa non avrebbe luogo. E di vero se altri soccorre il vicino per interesse o per forza, niuno attribuisce all’opera sua un pregio personale. Adunque la libertà religiosa non toglie all’uomo il dovere di cercar il vero con puro e bramoso animo, o ricevutolo per tradizione di aderirvi con fermezza, di amarlo con ardore, di professarlo con franco e coraggioso animo. La responsabilità umana rimane intatta, ancorché sia tolto dal codice penale il delitto di non credere un dogma determinato, o di non esercitare un culto prestabilito.
Né sarebbe questa la sola maniera di colpe che, sebben in sé grave, sia destituita di sanzione esterna. Avvegnachè, siccome abbiam detto, v’ha fra i doveri morali e i giuridici una distinzione rilevante. Il legislatore non può e non deve usurpare l’ufficio del creatore, né il giudizio umano può occupare il luogo del divino. La legge mira al mantenimento della giustizia nel consorzio civile, né trapassa questo termine. E invano si sforzerebbe tra passarlo, chè, lungi dal recar perfezione al cittadino e utile alla società, produrrebbe effetti contrarii. Ma di ciò parlerò distesamente in appresso. Ora il quesito è, a mio giudicio, bastevolmente determinato. Cosicchè potremmo entrare nella ricerca della sua soluzione: pur nondimeno piacemi ancora considerare se lo spirito del Cristianesimo sia contrario alla libertà religiosa; e a ciò la mia prossima lettera sarà dedicata.

LETTERA III.

Vi ricordate, caro amico, laddove Macchiavelli parla della religione dei Romani? Dice che si servivano di essa per ordinare le città, per seguire le loro imprese e per fermare i tumulti; però con la prudenza mostravano di osservarla quando forzati non l’osservavano, e se alcuno temerariamente la dispregiava lo punivano… Donde conclude quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. In queste brevi parole è ritratta l’indole della civiltà greco-latina, dove la religione fu per la massima parte strumento di potenza civile. Ma altrove le idee ebbero un corso al tutto diverso, e se noi guardiamo l’Oriente, e i vasti imperi infra i quali fu diviso, vedremo ivi la religione sovrastare a tutte le cose, e lo Stato ordinarsi a vera teocrazia. E sebbene si riscontri titolo e dignità di re, e le schiere dei guerrieri vi siano in pregio, nondimeno la casta sacerdotale entrambi signoreggia, dà leggi e costumi, regola e dispone a suo grado; e tutti gl’istituti civili non sono che strumento alla grandezza dei ministri di Dio. Ma in ambedue questi casi, la politica e la religione si scorgono conglomerate sia che l’una serva di strumento all’altra o l’altra all’una.
Similmente i fondatori di nuove sétte o i riformatori di esse cominciano col piaggiare le signorie per averle fautrici, ovvero le osteggiano per rovesciarle: ma ossequienti o nemici fanno grande assegnamento nell’ordine civile che trovano stabilito.
Ora se noi poniamo di riscontro a ciò le origini del Cristianesimo, e la vita del suo fondatore, nulla havvi in esse di simigliante a quello che abbiamo detto. Imperocchè l’Evangelio si volge ad ogni uomo singolarmente, e ponendogli innanzi siccome fine la vita futura, intende alla perfezione morale dell’anima qual necessario apparecchio di essa: diresti che obblia il secolo e il luogo ove nacque, e delle condizioni estrinseche non piglia pensiero; tantochè, senza offendere o impedire lo svolgimento della famiglia, della gente, della nazione, pon mente solo ai due termini estremi, l’individuo e l’umanità. Non precetti di civil reggimento, non parole di politica condotta, non un motto di alleanza fra Chiesa e Stato, né tampoco delle relazioni fra loro. La vita di Cristo è il tipo ideale della bellezza morale, del sublime che sorge dalla negazione di se stesso. Quivi si predica e si cerca la purezza del cuore e l’integrità della vita, non la potenza, la grandezza e la gloria. E si può francamente asserire che non vi scorgi traccia di spirito mondano, né ombra alcuna di dominazione e di intolleranza.
Non è mio ufficio, né fa di mestieri andar raggranellando citazioni; e sarebbe anzi molto a dirsi contro il metodo, per il quale da una proposizione spiccata dai libri sacri si vuol dedurre tutto un sistema di ordinamenti religiosi e civili. Ma contemplando l’essenza del Cristianesimo, niuna cosa vi apparisce più evidente e più splendida di quello che la libertà dello spirito: che anzi parmi che dell’aver creata questa libertà, e con essa sollevata la dignità personale a non mai più vista altezza, traggasi uno dei più bei titoli della sua gloria. Niuno giungerà mai a pervertire il senso delle parole e degli atti de scritti negli evangeli, tanto da esprimere la proposizione, che la Chiesa di Cristo ha bisogno del braccio temporale dei governi.
Ma guardando anche più addentro, il dogma capi tale della redenzione si fonda in quello della caduta, e la colpa del primo padre rampolla dalla libertà. Il principio cristiano della libera creazione dell’universo arguisce che Dio poteva non crear l’uomo, o crearlo di tal guisa che vivesse ognora innocente; ma che nella sua sapienza infinita preferì di far l’uomo libero ancorché prevedesse le sue colpe, e giudicò che la virtù avvalorata dalla grazia fosse più degna e più nobile di quello sia la inconscia e incolpabile ingenuità. La libertà adunque colla possibilità, anzi coi pericoli e colla certezza del male è la pietra angolare di tutto l’edificio cristiano, e mal s’apporrebbe chi, accogliendo il principio, volesse rifiutarne le logiche conseguenze. Né per questo può dirsi che l’uomo sia privo di sussidii che lo abilitino a vincere la battaglia dell’errore e delle passioni. Imperocchè lasciando stare gli aiuti soprannaturali, basta por mente agli ordini peculiari della Chiesa per essere persuaso che tutti sono indi rizzati a tal fine, e quante sono le età e le condizioni della vita, altrettanti argomenti spirituali essa pone in opera per mantener l’uomo nel retto sentiero, o disviato ricondur
velo. Rimpetto ai quali che efficacia può mai avere o il divieto del Governo, o la stessa inflizione di una pena?
Ben lieve in vero: ma per lo contrario altera ed indebolisce la forza delle sanzioni spirituali. Di ciò abbiamo esempi pur sotto i nostri occhi. Imperocchè non è raro il caso di vedere nella società civile uomini che si vantano increduli, e nondimeno pretendono di godere gli estrinseci benefici della Chiesa, e si sdegnano delle censure e delle pene ecclesiastiche. Laddove nulla è più ovvio che chi vuol far parte della Chiesa, debba accettarne con ragionevole ossequio le norme e l’indirizzo; e per lo contrario chi ad essa non vuol sottoporsi, francamente riconosca di non appartenere a quella società religiosa. Ma quando fu stretta alleanza fra Chiesa e Stato, e alle pene spirituali si congiunsero le temporali, o almeno la professione del culto statuale fu necessaria condizione per l’esercizio dei diritti civili, allora dirimpetto alla violenza sorse l’impostura, e i governi stessi se ne fecero complici. Laonde la Chiesa mentre stimò per l’una parte afforzarsi di materiale sostegno, perdette per l’altra le sue più legittime prerogative. Conchiudo pertanto che il domma fondamentale della religione implica la libertà; il Van gelo non pur non la contraddice, ma la favoreggia; gli ordini spirituali della Chiesa sono intesi a tutelarla, senza che la società civile debba in alcuna guisa mescolarsene.

LETTERA IV.

Nella precedente mia lettera io diceva che la distinzione fra l’ordine spirituale e l’ordine temporale è uno dei più nobili principii che il Cristianesimo ha promulgato.
Il quale principio nondimeno rimase lungo tempo al tutto ideale, anzi trovò nel mondo ostacoli da ogni parte a venire in atto, e parve talora vicino a smarrirsi persino nelle menti degli uomini; ma rinacque poscia e si pro pagò, e gittò radici eziandio nelle leggi, nei codici e nelle istituzioni. E notate che codesta distinzione fra l’ordine spirituale e il temporale non esclude le attinenze loro, né tampoco la inferiorità delle cose terrene alle celesti;
bensì esclude la confusione e immedesimazione del fine loro. Avvegnachè tanto la teocrazia quanto la religione statuale hanno questo di comune, che presuppongono unico e solo essere il fine dell’uomo e della società; di guisa che la Chiesa e lo Stato vengono a identificarsi. Però in Oriente dove la vita contemplativa prevale, e le dottrine ieratiche fanno dell’uomo un nulla, ivi tutto cede al supremo intento di adorare e servir l’Infinito: ondechè la potestà civile è un rivolo, o per parlare più propria mente, un satellizio della potestà sacerdotale. In Grecia e in Roma per lo contrario dove campeggia la vita attiva, e l’uomo si gloria di domar colle proprie forze la natura, di scoprire la verità colla ragione, di effigiar la bellezza colla fantasia, ivi i fasti consolari precedono le bende sacerdotali, e lo Stato adopera le cose sacre siccome arte di regno, o almeno le governa e indirizza alla prosperità e grandezza della patria. Ora io non mi soffermerò più a lungo in questa materia, perocchè stimo che le opinioni espresse non trovino nell’animo vostro alcuna repugnanza.
Inoltre credo che niuno, considerando l’essenza del Cristianesimo, sostenesse mai essere necessario alla Chiesa il presidio della forza pubblica. Imperocchè una siffatta tesi arguirebbe poca fede nelle sue dottrine, sarebbe eziandio contraria alle sue origini, quando nuda e povera, anzi derelitta e perseguitata per tre secoli, pur trionfò del mondo. Ma quelli medesimi che osteggiano con più calore la libertà religiosa, lo fanno per zelo e in nome dello Stato, giudicando debito principalissimo della potestà civile mantenere per i cittadini l’unità di dommi e di culto, e togliere qualunque ostacolo sorga a perturbarla.
E qui torna in acconcio ricordare quel che avvertii nella seconda mia lettera, cioè che se è desiderabile l’accordo degli uomini in una fede, e non pur quello de’ privati, ma di tutte le umane associazioni, uopo è che cotale accordo germini da intima persuasione e da naturale ossequio, e allora soltanto potrà recare salutevoli frutti. Ma il quesito dee presentarsi nella sua vera e prima forma, che molto importa tenere spiccata ed evidente, voglio dire – se lo Stato debba mantenere l’unità religiosa colla forza. – Ora per isciogliere questo quesito, importa esaminare qual sia dello Stato il proprio fine, quali i mezzi e le condizioni ad esso essenziali, sino a qual punto infine possa limitare i diritti individuali.
Il concetto supremo di quella aggregazione d’uomini che società civile si appella, è la giustizia. Determinare i diritti, circoscrivere la libera attività dei privati entro i suoi giusti termini, tutelarla da ogni violazione interna e da ogni esterno invadimento, tal è lo scopo primo e precipuo dello Stato. Indi una legge, un’autorità che la promulga e la fa osservare, una forza pubblica che ne impone la esecuzione. Senza questo ufficio, non si può figurare Stato, ma esso basta a figurarlo: laonde normalmente e idealmente solo può dirsi essenziale alla sua costituzione. Pur se noi guardiamo all’indole del governi quali essi sono, vedremo che le attribuzioni loro in generale stendonsi assai più oltre. Che anzi una volta costituita la potestà civile, essa s’è usurpata molti uffici, e i cittadini stessi hanno voluto addossargliene più e più altri, quasi per iscaricarsi in lei di tutto che soverchiasse l’interesse privato e presente, e richiedesse lume, zelo ed operosità. Pertanto non sarebbe ragionevole disconoscere cotali attribuzioni, prima perché esistono, poi perché la storia ne scusa le origini, e ne giustifica la durata: fors’anco non potranno al tutto venir meno per l’avvenire. Le quali attribuzioni volendo compendiare sotto un sol titolo, io affermerei che, oltre il mantenimento della giustizia, lo Stato integra all’uopo l’opera dei singoli cittadini e delle altre associazioni: dico della famiglia, dei comuni, delle private società, delle chiese in tutto ciò che riguarda l’interesse generale.
E ciò fa in due modi: l’uno che può chiamarsi negativo, e consiste in rimuovere gli ostacoli all’umana attività; l’altro positivo, porgendo ad essa aiuti ed argo menti. Il Governo rimuove gli ostacoli colle opere pubbliche; strade, ponti, canali, colle provvidenze igieniche, colle discipline circa le arti, gli scambi e via discorrendo;
fornisce aiuti ed argomenti, coll’istruzioné che dispensa e colla diffusione di tutte le notizie e di tutti i dati statistici che possono essere utili al giudizio dei privati, in fine cogli istituti di beneficenza. La parola integrazione che io adopero arguisce difetto, ondechè se i singoli cittadini, le famiglie, i comuni, le private associazioni, le chiese facessero spontaneamente i predetti uffici, non sarebbe mestieri d’ingerenza governativa. Ed è in questo senso che può farsi buono quel detto che a prima giunta par strano e poco plausibile, che il Governo migliore è quello che meno governa. Ma siccome gli sforzi individuali o collettivi paion sempre inferiori all’uopo, così sarà invocata eziandio in avvenire, e avrà luogo l’opera integratrice del Governo. Solo può dirsi ch’ella vien scemando in ciascuna delle materie sopradette mano a mano che i cittadini si vantaggiano d’istruzione e di operosità. E per ciò è diversa di estensione e di efficacia secondo i luoghi ed i tempi, accomodandosi sovrattutto all’opportunità. Ma intanto precipuo compito di ogni savio Governo sarà abilitare e indurre privati e corporazioni a fare ciascuno liberamente il più e il meglio che possa, e la propria in gerenza proporzionatamente restringere; guardando, siccome termine e norma del proprio ufficio, il manteni mento della giustizia. Di che abbiamo per avventura un qualche esempio sì nell’Inghilterra, sì nelle repubbliche dell’America settentrionale. Nondimeno noi, tornando a nostra materia, piglieremo ad esaminare entrambe le attribuzioni dello Stato rispetto al quesito che abbiam per le mani, e innanzi tratto quella che dicemmo essere precipua ed essenziale. Di che naturalmente ci viene all’animo la dimanda: Al mantenimento della giustizia, ossia alla determinazione e tutela dei diritti, occorre necessariamente una precisa forma di dommi e di culto? – Ma io m’accorgo d’essermi dilungato oltre il termine con veniente ad una lettera, e per breve ora chieggo da voi licenza.

LETTERA V.

Gli antichi effigiarono la virtù come una donna in sembiante grave e sereno, nelle vesti semplice e mode sta, con in mano una corona o una palma a significare il premio che apparecchia ai suoi seguitatori. Effigiarono ancora la giustizia, ma diversamente: cioè colla spada nella destra, colla bilancia nella sinistra siccome misuratrice e vindice dei diritti. Le quali rappresentazioni dei pittori e dei poeti non sono che imagini sensibili di quel concetto volgare e scientifico ad un tempo, pel quale la giustizia è distinta dalla virtù, ed entrambe sono comprese in una più lata categoria, che è quella della morale e del bene. Imperocchè la giustizia consiste propriamente nel suum cuique tribuere, del quale il neminem laedere non è che un brano. L’honeste vivere finalmente può sotto il risguardo delle civili relazioni spettare alla giustizia, ma in se medesimo è soggetto della morale. E mentre l’una contempla gli atti esteriori e si ferma al debito di rispettare la libertà altrui, e rendere ad ognuno ciò che gli appartiene, l’altra procede innanzi, penetra i più reconditi pensieri ed affetti, dando loro norma e sanzione; e con soave comandamento impone agli uomini la beneficenza sublimata sino alla carità e alla negazione di se medesimo. Ora se ufficio dello Stato è mantenere la giustizia, e suo diritto coartarne l’adempimento, ciò che importa al nostro discorso è di esaminare se la giustizia sia essenzialmente connessa con un dogma ed un culto.
Questo è, a mio avviso, il nodo vero della quistione, e per iscioglierlo ci porgono concordi argomenti e il raziocinio e la storia, e i dettati dei Filosofi e quelli dei Santi Padri, e l’autorità medesima della Chiesa. I quali tutti ammettono che la ragione umana abbia in se medesima la facoltà di conoscere il vero: né solamente circa alle cose fisiche, ma eziandio circa le morali, e possa quindi colle sole sue forze pervenire al discoprimento della esistenza di Dio, dei suoi attributi, della libertà e responsabilità dell’uomo, della immortalità dell’anima, della vita avvenire.
Coteste sono verità religiose, in quanto esprimono le attinenze dell’uomo a Dio; ma sono naturali, in quanto la ragione umana per intrinseco valore può conseguirle.
La rivelazione prende quinci le mosse, e trasporta l’intelletto a più sublimi regioni, nelle quali gli sia dato preconoscere e gustare le verità soprannaturali, sebbene allo splendore che ne irraggia, rimanga commista non lieve oscurità. Quindi i misteri ed i dogmi che vincono ragione, e per credere i quali uopo è che l’uomo con libero ossequio pieghi la fronte.
Ora a me pare indubitato che l’idea di giustizia e dei diritti e dei doveri giuridici che ne discendono, abbia il suo fondamento nella esistenza di Dio e nella libertà umana, cosicché in questo senso accetto il dettato che non si dà principio morale senza religione. Ma nel medesimo tempo non credo necessario alla formazione di essa idea il possedere una religione rivelata coi suoi misteri, colla sua disciplina e colla sua gerarchia. Diasi pure che queste abbiano attinenze colle parti più nobili della morale: non si può inferire da ciò che la giustizia propriamente detta non possa essere riconosciuta ed osservata eziandio col solo uso della ragione e delle altre facoltà, onde la Provvidenza è stata larga al genere umano. Ce ne porgono testimonio i filosofi e i legislatori dell’antichità, Confucio, Lao Tseu, Pittagora e Numa Pompilio, Socrate e tutta quella mirabile scuola degli stoici, la quale è riassunta con tanta gravità e temperanza da Cicerone. Il Codice romano stesso non è egli in gran parte l’opera della sapienza pagana, e chi potrà negare che vi si trovi il fiore di quella dottrina che alla determinazione e alla tutela dei diritti si conviene? So bene esservi una scuola la quale nega alla ragione umana qual si voglia potenza di conoscere il vero, se non è illuminata e condotta dalla rivelazione. Ed essa in vero si sforza di spiegare tutta la sapienza pagana come una rimembranza, o come la ristaurazione di reliquie campate nella dispersione dei popoli di una primitiva rivelazione. Ma oltredichè questa scuola non ha trovato conforto né approvazione sia nei filosofi liberamente disputanti, sia nel magistero ecclesiastico, io oserei sostenere che neppur quella ipotesi offende sostanzialmente la teorica espressa innanzi. Imperocchè codesta rivelazione primitiva, o vuoi fatta all’uomo da Dio direttamente ed immediatamente, o vuoi per via d’ispirazione, o vuoi per una singolare e straordinaria efficacia delle facoltà umane, in quella singolarissima epoca delle origini, codesta rivelazione, dico, sarebbe stata certamente più ristretta della mosaica e delle altre successive: anzi per conghiettura può ridursi ad alcune fondamentali nozioni sia morali, sia fisiche, che alla vita e alla esplicazione dell’uomo erano necessarie. Ma qual ch’ella si fosse, nel primo uomo data a tutta la specie, e a quell’ora s’immedesimò col l’uso della ragione, poniamo che talora potesse temporaneamente ottenebrarsi, ma smarrirsi completamente non mai. Mentre adunque per l’una parte è comune a tutto il genere umano, per l’altra si mostra sufficiente al fine della società civile; cosicché ammessa quella rivelazione primitiva, non sarebber da reputarsi strettamente necessarie al riconoscimento della giustizia e della legge morale le altre rivelazioni posteriori. Ora non è di ciò che gli avversari della libertà religiosa si pigliano pensiero; sì bene vorrebbero propugnare e di fendere colla forza pubblica la religione attuale, e quella propriamente che è professata dalla totalità, o dalla pluralità almeno degli abitatori di un paese. Conchiudo dunque e a guisa delle disputazioni scolastiche restringo in un sillogismo il mio discorso. Della società civile e dello Stato è proprio e peculiare intento mantenere la giusti zia, e tutto ciò che al detto fine è mezzo necessario, o indispensabile condizione giustifica insieme l’uso della forza. Ma la giustizia può essere promulgata e difesa senza connettersi necessariamente alla credenza di un domma rivelato, e all’osservanza di un culto prescritto.
Non può dunque lo Stato imporre colla forza ai suoi cittadini la professione e l’adempimento di speciali doveri religiosi.

LETTERA VI.

I Francesi, i quali troppo spesso vanno in cerca di locuzioni iperboliche e smaglianti, credettero di aver trovato un’espressione molto significativa dicendo che la legge dee esser atea. Di che nulla può immaginarsi più scipito e più assurdo, quasi che l’ordine reale o ideale possa pur concepirsi separato dalla divinità. Ma sopravvenne uno dei lor barbassori, che dando agli altri in sulla voce mutò l’epiteto, e sentenziò che la legge non è atea, ma laica. Or se questo vocabolo potrebbe farsi buono per avventura rovistandone la greca etimo logia, ha però tanto dell’oscuro e del confuso da essere rifiutato, parendo in esso che la società civile sia fatta solo pei laici e non pei chierici; laddove questa distinzione non ha importanza rispetto al suo fine, ed entrambi soggiacciano egualmente all’impero della legge.
Giova dunque sperare che gli Italiani non facciano, come purtroppo incontra sovente, le cattive scimmie ripetendo gli oracoli e le parole che ci vengono dalla Senna. Molto più sapientemente diciotto secoli fa Cicerone chiamò la legge recta et a numine deorum tracta ratio. E veramente la giustizia è divina, anzi in essa splende perspicacemente la sapienza e la bontà del Creatore. Ma non tutte le cose divine sono sovraintelligibili, e ve n’ha di quelle che la ragione umana per se sola può intendere. A questa categoria appartiene la legge, e però non è rivelata, ma, se condo il senso ciceroniano, divina e in un razionale.
Codesta conchiusione non può essere impugnata se non quando vi riuscisse di provare: o che l’uso della ragione è posteriore alla fede, senza la quale invano presume di formarsi le idee di Dio e della libertà umana, ovvero che queste idee non bastano a fondamento della legislazione; ma che fra l’adempimento della giustizia e dommi rivelati v’ha una connessione necessaria.
Ma senza assalire risolutamente la libertà di fronte, altri potrà bezzicarla di fianco; voglio dire, che non piglierà a sostenere i predetti assunti, ma produrrà nella disputa il grande influsso che la religione ha sulla morale e sui costumi, donde trapassa poi nelle leggi e in tutta la politica. Avvegnachè l’abito della virtù, della beneficenza, della carità addirizza le menti, migliora gl’istituti, rende i codici più perfetti. Gli antichi non ebbero un concetto pieno della giustizia; e se non altro ba sterebbe a capacitarsene che sancirono concordemente la schiavitù, e non pur le moltitudini ignare, ma gli ordinatori e legislatori dei popoli e gli stessi filosofi speculativi, come Platone e Aristotele. Le leggi romane dei tempi della Repubblica misconobbero i diritti della donna e del figlio. La stessa proprietà non si trova ben definita e tutelata che col progresso della civiltà. Orchi potrà negare che il Cristianesimo non abbia profonda mente trasformata la civiltà antica perfezionandola, e purgandola dalle macchie che la bruttavano, e la rende van magagnata e corruttibile?
Consento nei fatti, ma non mi par giusta la induzione che si vorrebbe trarne circa la coazione in materia religiosa. E prima di tutto se noi guardiamo la sto ria, il concetto della morale e della giustizia non uscì già dalla mente umana tutto intero e compiuto, come Pallade dal cervello di Giove; ma si è venuto esplicando grado a grado fra gli uomini, e si esplica tuttavia, e sarebbe strano vantarci di avere conseguito nei nostri codici la perfezione suprema. E codesto svolgimento morale fu effetto di molte cagioni, fra le quali pongo principalissima la introduzione del Cristianesimo. E chi oserebbe negare i benefici influssi di una religione di amore, di carità, di perdono?
Ma di grazia ponete mente a queste cose. In prima il Cristianesimo, come altrove toccai, si rivolse al cuore di ogni uomo, e mirò a trasformarlo; non si brigò della esterna compagine civile, né chiese alcun mutamento nelle leggi della società. Il suo influsso fu adunque al tutto mediato, e penetrò negli ordini e negli istituti per mezzo dei sentimenti e degli affetti di ogni uomo. Il che è tanto vero che il Cristianesimo era già da lungo tempo universalmente professato in Europa, anzi la Chiesa e lo Stato vedevansi stretti ad un patto; e pure duravano nelle leggi le tracce dell’antica durezza e barbarie. La schiavitù si è perpetrata per ben quattordici secoli dopo che il Vangelo ebbe proclamato l’eguaglianza di tutti gli uomini: né cento anni sono ancora trascorsi che la tortura avea sede legittima fra gli argomenti del processo.
Anzi è lecito affermare che finora la religione è ben lungi dall’aver prodotto tutti i suoi frutti salutari; poiché se tu guardi, per cagion d’esempio, il diritto frannazionale, appena è se i sensi cristiani cominciano a penetrarvi.
Non è adunque la profession speciale di un domma, o l’osservanza di un culto che si connette colla giustizia civile, ma è lo spirito religioso che infuso nei cittadini, e creando a poco a poco l’opinion pubblica, e per mezzo di essa purgando le idee morali da gravi mende, alla perfine s’insinua nella legislazione e la perfeziona. E per conseguenza altro è negare i beni che dalla religione si riflettono in tutte le parti della società, altro è costringere gli uomini a crederne la divina origine ed osservarne i precetti. Di che è prova manifesta in ciò che gli stessi filosofi del secolo passato i quali minacciavano il Cristianesimo, pur nondimeno erano talmente imbevuti delle sue dottrine, che moltissimo di quel bene che hanno chiesto e propugnato negli ordini civili, può dirsi la conseguenza di premesse evangeliche. Che anzi io tengo per fermo che questo influsso del Cristianesimo sulle leggi e sui costumi sarà molto più efficace, se esso rimanga come un ideale indipendente del mutabil corso degli Stati, di quello che se associandosi ad essi, debba pure in alcuna parte seguirne le vicende.
Ma quand’anche si volesse ammettere il nesso indissolubile fra certe verità dogmatiche, e il fine della società civile, che cosa ne seguirebbe? Ne seguirebbe nel Governo la facoltà di escludere dal consorzio civile qualunque religione diversa dalla cristiana, ma non già di escludere le varie comunioni che accettano del Cristianesimo le massime e i comandamenti. Eppure la cosa non va così: anzi egli è contro di esse che più ferve l’animosità, e più vivamente s’invoca il braccio secolare, siccome quelle alle quali è più prossimo e pericoloso lo sdrucciolo. Così la Chiesa cattolica vorrebbe nello Stato la pura fede romana; i Luterani bandiscono i seguaci di Calvino, ed entrambi s’azzuffano contro i dissidenti; l’Anglicano o l’Evangelico punisce colui che dalla sua confessione dà sembianza di separarsi. Ora per giustificare siffatta rigidità, non basta neppure la tesi che io per modo di discussione aveva concesso, fa mestieri eziandio esagerarla; e provare che la promulgazione e la difesa della giustizia non può consistere che con una sola delle moltissime comunioni cristiane, poniamo il Cattolicismo. Ma a questo punto il fatto ci dà una solenne smentita: poiché gli Stati protestanti d’Europa sono almeno altrettanto bene ordinati quanto gli Stati cattolici, ed hanno leggi e codici parimenti savii e giusti. Che anzi il Codice Napoleone, il quale per avventura è prototipo di tutti gli odierni, fu compilato non tanto in relazione ad un domma o ad una chiesa speciale, quanto in relazione alle verità razionali che la scienza della morale e del diritto hanno stabilito.
Per questa parte adunque, cioè per rispetto al primo ufficio del Governo, non credo si possa dedurne in alcun modo la necessità della intolleranza religiosa. Mi resta ad esaminare se potesse addentellarsi all’altro suo ufficio, che è quello d’integrare l’opera dei privati, dei comuni, delle associazioni e della Chiesa stessa; il che a primo sguardo può apparire come un ministero educativo. Ma già troppo v’intrattenni colla presente, e per ora fo fine.

LETTERA VII.

La storia e il senso universale dei popoli ci ammaestrano che il Governo non istimasi aver compiuto il suo ufficio coll’assicurare soltanto ai cittadini il libero esercizio delle facoltà loro secondo giustizia, ma si vuole che in talune materie di interesse generale esso cooperi al bene materiale e morale della civil compagnia; e a cotal uopo non pure i sudditi gli forniscono il danaro necessario, ma eziandio lasciano ad esso la balìa di molti personali diritti. Ma sino a qual termine? Ecco uno dei più gravi problemi del tempo moderno:
conciliare cioè la libertà personale coll’azione governativa. Problema che, secondo il mio avviso, non può sciogliersi in modo assoluto, ma piuttosto si ragguaglia ai tempi, ai luoghi, alle circostanze. E mentre l’attributo di mantenere la giustizia è universale e immutabile, come già altrove io vi diceva, questo di favoreggiare il progresso della civiltà ha molti gradi a seconda dell’opportunità. E per ciò lo definii come opera d’integrazione, indicando così che dall’una parte presuppone deficienza nei privati e nelle aggregazioni che vivono entro la società civile, e dall’altra accenna alla propensione dello Stato di deporre quelle ingerenze via via che la necessità ne venga meno. Vigili dunque lo Stato a tutto che può mettere a repentaglio la salubrità o la sicurezza pubblica, apra vie e canali, costruisca ponti, sancisca il pregio delle monete, dia regola e protezione ai mercati: in questo ed in molti altri ufficii nulla havvi di comune col quesito che andiamo esaminando: dove può cadere la disputa si è sulla istruzione pubblica e la beneficenza, le quali per avventura appaiono manchevoli anzi pericolose, se non le informa e non le avviva il domma religioso. Certo io credo che specialmente nelle condizioni presenti della società, l’istruzione pubblica sia uno dei più nobili attributi, e uno dei più importanti del Governo, come quello che intende ad accrescere il valor personale di ogni cittadino, abilitarlo a fornire degnamente il proprio compito nella società, e temperare le disuguaglianze che la natura e l’emulazione pongono fra loro. Le quali disuguaglianze se entro un certo limite sono statuite dal l’ordine della Provvidenza, e formano una giusta ed utile gerarchia civile, al di là di esso possono generare la discordia, e fermare il corso della pubblica prosperità. Ma ciò che vuolsi accuratamente distinguere si è istruzione da educazione, non già che io disconosca le congiunture loro, atteso la stretta parentela del vero col bene; nondimeno giudico che all’educazione propriamente si appartiene lo svolgere i retti sentimenti e gli abiti virtuosi, laddove la istruzione, spezialmente se è generale e pubblicamente ministrata, si tien paga di erudir la mente, e fornirgli quelle cognizioni che agevolano l’esercizio delle arti tecniche o delle professioni liberali. Ora io sostengo franca mente che l’educazione non potrà mai essere ufficio governativo, né da ordini pubblici fondata; imperocchè non è solo esposizione di veri, ma ispirazione di affetti impressi con autorità benefica, ricevuti con ossequio volonteroso e confidente. Egli è alla famiglia che appartiene propriamente la educazione, e nelle famiglie stesse alla donna ancor più che all’uomo siccome quella che alla pietà, alla dolcezza, alla pazienza ha l’animo mirabil mente connaturato. E ciò che la famiglia inizia, la Chiesa lo compie colle sue dottrine, colle sue pratiche, colle sue cerimonie atte non solo a guidar l’intelletto, ma a fare impressione nel cuore. Che se voi mi ripigliate colla mia stessa teorica che, ove manchi la famiglia e la Chiesa, il Governo dee supplire ad esse, rispondo che l’opera d’integrazione non può giungere mai sino a surrogarle nelle parti più intime e più vive del loro ministero. E se, insistendo, esigete almeno che il Governo sorvegli e impedisca che nella educazione privata s’insinui uno spirito contrario alla religione dominante, io allora gli nego risolutamente la facoltà d’invadere il diritto individuale, domestico, ecclesiastico. Imperocchè supplire al difetto non è già imporre una forma, un metodo, una credenza. E mentre la famiglia educa da sé il figliuolo, o chiama ad educarlo i ministri di quella religione nella quale ha fede, né chiede aiuto o sussidio dal Governo e rispetta le leggi e il diritto altrui; non ha obbligo di rendere ragione del suo operato. Lascio stare per ora la impossibilità di conseguire lo scopo, e i pericoli che nascono quando la potestà civile si fa giudice ed arbitra dell’insegnamento religioso, imperocchè ne discorrerò appresso recando innanzi la storia. Rispetto poi all’istruzione pubblica, veggo bene potersi impedire con assoluto comando che non si offendano i veri supremi che della giustizia sono il fondamento; ma non veggo come il Governo possa prescrivere e dar norma all’insegnamento, né star mallevadore di tutte le opinioni che verranno bandite dalle cattedre. La qual cosa è dal comune senso avvertita ottimamente.
Imperocchè la promulgazione delle leggi e le sentenze dei tribunali (salvo lievi eccezioni che dipendono da mala condotta dei governi) sono accolte come verità quasi inconcusse dalle società medesime: ma delle dottrine scientifiche, quali si professano nell’insegnamento, non si accagiona la potestà civile, il che argomenta che come l’opera sua là è immediata e autorevole, qui è indiretta e insufficiente. Dal che discende che quando la società e la scienza si discordano nei dommi rivelati, cotesta discrepanza non può a meno di non insinuarsi anche nelle scuole, poniamo, più copertamente e di sbieco, ma non meno efficacemente, anzi per avventura con quelle attrattive che hanno le dottrine ardite e insieme misteriose.
Simiglianti considerazioni occorrono circa la beneficenza. Sarebbe desiderabile che ogni uomo potesse ognora colle proprie fatiche guadagnare onoratamente la vita, procacciare a sé ed a suoi qualche agio, provvedere ai casi d’infortunio e al bisogno della vecchiezza. Ma per quanto possiamo accostarci a questo ordinato vivere, rimarranno pur sempre cagioni di miseria e nelle straordina rie calamità, e nelle imperfezioni della persona, e nel malvolere, e nella pigrizia. Vi saranno ognora poveri da soccorrere, infelici da consolare. E parimenti in questa materia sarebbe bellissimo se le mutue associazioni, la beneficenza privata, e i pii istituti da essa fondati, infine la carità religiosa con sublime gara a tante opere valessero. Ma se non bastano, il Governo ha titolo di porvi mano, sino a che la necessità lo esige, e la possibilità lo consente. Se non che la beneficenza governativa non avrà mai né la soavità che accompagna il benefizio, né la gratitudine che lo riceve, sarà misurata e fredda, poniamo che talora le condizioni della società la rendano necessaria: ma il dare ad essa un influsso religioso, porre nelle pratiche sacre una condizione per chi dee riceverla, o infine, come alcuni clericali pretendono, escludere il laicato da ogni ingerenza nella carità pubblica, e voler farsene soli ministri e dispensieri, parmi dilungarsi interamente dall’intento della società civile.
Il punto vero della questione sta in ciò, che taluni attribuiscono al Governo il debito di cercare e promuovere con ogni mezzo la massima perfezione dei cittadini, e per conseguenza anche l’unione loro e il fervore in materia religiosa. Ma questa proposizione che di primo tratto può sembrar giusta e plausibile, non regge al lume della critica. Perché la perfezione massima è principalmente morale, e risiede nell’intimo dell’animo; l’azione governativa per lo contrario è soprattutto esterna, versa negli atti pubblici, e non penetra nei cuori. E quando il Governo si briga di maggiori ingerenze, è costretto a moltiplicare sì fattamente le regole, e a congegnare tanti modi di prevenzione che violano il diritto individuale. E ne segue l’uno di questi due effetti: o che i cittadini perduta ogni dignità e snervato ogni vigore si accasciano vilmente, e in segreto si corrompono, ovvero che la natura repugnante in breve si ribella, spezzando i vincoli colla violenza a guisa di quei fuochi sotterranei che lungamente compressi erompono in vulcani. Se il Governo fosse abilitato ad esigere dai cittadini il massimo di dovere e di perfezione, la civil compagnia si trasformerebbe in una regola monastica, e questo solo basta a svelare la vanità del proposito. L’errore giace in una falsa idea del fine della società civile, e in una con fusione dell’ordine giuridico coll’ordine morale. Laonde io chiamerei volentieri questa teorica un socialismo po litico e religioso, perché come i socialisti odierni vogliono che il Governo regoli la produzione e la distribuzione delle ricchezze, assegni i limiti al possedere, sovvenga tutti di lavoro, così gli altri pretendono che il Governo s’ingerisca nelle coscienze e le signoreggi. E cotale errore non è nuovo, anzi il rinnovellamento di Sparta, e delle utopie di Platone nella Repubblica; con questa differenza, che Platone accoglieva le conseguenze logiche del suo principio, e sottraeva ai genitori l’educazione, anzi perfin la conoscenza dei figliuoli, e ne dava allo Stato la balla dalla culla fino alla tomba. I moderni non si attentano a dirlo, ma tirano a quella parte invocando e sperando ogni bene dalla pubblica autorità. In quanto a me, io non posso acconciarmi all’avviso loro, perché credo che ogni uomo abbia delle facoltà e dei diritti che niuno può signoreggiare, senza togliergli l’essere e la dignità personale, e ridurlo ad essere uno strumento, o come gli antichi dicevano dello schiavo, una cosa.
Rispetto poi alla società il dilemma mi par chiaro: o non vi ha che una società unica che ha per fine la salute delle anime, e in tal caso la teocrazia è la sua forma essenziale, e lo Stato non è che il braccio secolare della Chiesa; ovvero la società civile è distinta dalle altre, ed ha un fine proprio, sia pure subordinato al fine oltra mondano, e in tal caso sussiste da sé e per sé. La di stinzione implica un obbietto speciale, e quindi il Governo non può mescolarsi, né usare la forza in ciò che al proprio fine non è essenziale. La subordinazione arguisce ch’egli non impedisca a veruno la via dell’eterna salute. Da queste due proposizioni emerge la libertà religiosa.

LETTERA VIII.

Se nelle precedenti lettere io ho esposto chiaro le mie idee, parmi che in esse già si trovi virtualmente in chiusa la risposta alle obbiezioni che sogliono recarsi innanzi Laonde potrei tralasciarle al tutto, spezialmente favellando con voi che di tale materia siete peritissimo.
Nondimeno io vi chieggo licenza di prenderle ad esame quasi a compimento del mio discorso, ed altresì a fine di rendere a me medesimo più esatta ragione delle conseguenze che ne discendono. Né crediate che io voglia confutarle ad una ad una, imperocchè troppo sono molteplici e svariate; ma avendone fatto la rassegna, mi è parso che si possono classificare sotto due capi principali, secondochè risguardano il bene del cittadino, ovvero la conservazione e prosperità dello Stato. Quando dunque ci avvenga di mostrare che la libertà religiosa conviene sì all’uno che all’altro, avremo spuntate le armi ai nostri oppositori.
Primieramente si allega che la volontà umana essendo inchinevole al male, facilmente trascorre e preci pita. Per la qual cosa fa mestieri ricingerla validamente di esteriori presidii, e rimuovere quanto è possibile ogni maniera di tentazioni. Gli uomini, dicesi, van dietro più volentieri al sofisma che alla verità, e ciò che lusinga le passioni, è udito avidamente da loro e ricevuto nel l’animo. Or con che cuore un Governo serio rimarrà freddo e impassibile, quando la menzogna e la perfidia dei novatori adesca dovunque e perverte la incauta gioventù? Con che cuore vedrà le generazioni far gettito di ciò che vi ha di più sacro e di più sublime? Ma se lascia che l’errore germogli, presto distenderà le sue radici, e crescerà rigoglioso, e della sua mortifera ombra aduggierà i popoli soggetti. Codesta obbiezione è pur quella medesima che si fa alla facoltà di stampare, a quella d’insegnare, di associarsi e in generale ad ogni franchigia; laonde ben si vede che tutte le libertà si tengono per mano, e la ruina dell’una scrolla ed atterra anche le altre. Paventasi l’abuso, si tien probabile, anzi certo; dunque si chiede un rigido e general sistema di prevenzione. La corruzione materiale dell’uomo chiama di riscontro una perpetua tutela, e questa si vuole affidata in parte alla potestà governativa.
Noi non siamo così disperati dell’umana natura, né così poco fidenti nella potenza del vero da rassegnarci a tale sentenza. Certo l’uomo ha delle propensioni cattive e sovente si lascia vincere a quelle; ma ha eziandio tendenze nobili e generose, ha la ragione che lo illumina e lo guida, ha infine il proprio interesse che si collega col bene, e generalmente n’è la sanzione in questa vita.
Non si può adunque stabilire in massima che l’errore e la colpa prevalgano sempre, e per lo contrario porrei questa come eccezione, sia pur frequente, ma pur sempre eccezione; e porrei la regola nel trionfo del bene. I fatti che si adducono per la comune, di quei popoli che subitamente conquistata la libertà ne fanno baldoria e licenza, son veri, ma non calzano all’uopo, perché non si pon mente alla lunga tirannide e al mal governo che ha preceduto la riscossa; per lo che gli animi si trovano abbiettiti dalla servitù, e insieme infiammati e pieni di rancori e di vendetta; e ben sapete che la molla salta su con più forza quanto maggiormente è stata compressa. Codesti esempi adunque non mi paiono concludenti, se non in quanto dimostrano la necessità di cautele e di apparecchi a ritornare in libertà chi da secoli ne fu disavvezzo; come lo infermo rimane alcun tempo convalescente prima che, recuperata la sanità, possa usarle sue forze senza pericolo.
Ma se veramente la falsità e la sfrenatezza fossero il retaggio dell’uman genere, credesi egli possibile di trasformarlo per mezzo della violenza? Forse e a gran fatica si giungerà ad impedire qualche scandalo, ma il guasto per essere più celato non sarà men diffuso; e non avremo già de’ buoni cittadini, ma degli ipocriti pronti a prevaricare, ogni qual volta s’affidino di farlo in se greto, e di averne l’impunità. E oltre a ciò fra tanti tri sti e fiacchi, come sorgeranno i generosi che debbano educare, e adoperando con arte le leggi e la forza impedir la diffusione dell’errore? Dio buono, che è questo contraddirsi! Mentre si suppone nella moltitudine ogni male e ogni pericolo, s’immagina che chi dee governarla sia franco della universal corruzione e forte alle tentazioni, le quali tanto più ti assalgono quanto maggiore in te è la potenza, e le occasioni, e la facilità del misfare.
Si foggiano col pensiero quasi due razze diverse e si rinnoverebbe la distinzione di Aristotele fatta per giustificare la schiavitù, quella cioè degli uomini nati a comandare, e di quelli nati a servire. E poniamo pure che alcuni spi riti ben creati ed eletti sottraggansi al comune fato: questi si troveranno sparsi in ogni classe, e come sarà possibile riconoscerli, eleggerli e dar loro l’indirizzo della cosa pubblica senza libertà? Finalmente se il Governo può mescolarsi di materie religiose, ogni Governo, con vinto che la religione dominante nel proprio Stato sia la vera, avrà l’ufficio e il dovere di tutelarla; laonde rimane legittimata la persecuzione a conto di ogni Chiesa stabilita. Singolare accecamento degli uomini! V’hanno molti che per avere il diritto di perseguitare chi dissente dalle proprie opinioni, concederebbero altrui il diritto di per seguitare altrove i loro fratelli. E una cinta di monti, o un corso di fiumi basterebbe per avventura a cambiare i martiri in tiranni, senza che il diritto potesse dirsi violato. Noi conforme alle nostre massime non ci troviamo in queste dolorose strette. Né vogliamo concedere venia alla Russia di martoriare i Polacchi, né alla Svezia di bandire i Cattolici, o alla Regina d’Inghilterra di costringere gli Irlandesi a pagare i vescovi protestanti. Se lo Stato non ha ingerenza in materie dommatiche, ogni cittadino, che rispetta ed osserva le leggi, potrà professare la religione in cui crede, pregare Dio secondo il suo cuore, far comunione e carità coi suoi fedeli.
Né per questo si nega che l’uomo abbisogni di tutela, di ammaestramento e di consiglio in un punto così scrupoloso e difficile. Ma a questo sovviene prima la fa miglia, che le credenze ricevute dai padri insinua nell’animo del pargolo; vi sovvengono gli istituti d’educazione, le congregazioni benefiche, gli sforzi degli uomini generosi, e vi sovviene soprattutto la Chiesa, la quale si vanta di avere questo proprio e peculiare ufficio. La Chiesa s’intitola faro che illumina, e segna il retto cammino e addita gli scogli; s’intitola ancora madre pietosa che assiste l’uomo in tutti i momenti della vita quel che sia l’età, la condizione, la fortuna; conferma i dubbiosi, riconforta i timidi, ammonisce gli erranti, accoglie amo rosamente al suo seno i pentiti. Come dunque potrà dirsi che l’uomo, sia pur debole e inchinante al male, rimane nella società senza difesa contro l’errore e le lusinghe?
E se una affettuosa e caritativa tutela non basta, crediamo noi che sarà bastevole una minaccia e una pena corporale? E in effetto ha essa bastato? Ma non voglio precorrere le storiche deduzioni, e prima esaminiamo se la libertà religiosa rechi tali conseguenze sinistre allo Stato, da abilitarlo in sostegno e conservazione dei proprii ordini a repellerla ed impedirla.

LETTERA IX.

La libertà religiosa pone essa in pericolo la pubblica quiete e l’ordinamento dello Stato? Ecco il timore che assale taluni uomini discreti, e li fa desiderare che lo Stato professi una religione, e la protegga colle leggi e colla forza. Pericoli molti e gravi s’affacciano al loro pensiero. E in prima, chi oserebbe affermare che in tanta varietà di culti non si mescolino dottrine ingiuste e pratiche immorali? Lasciamo stare le cerimonie feroci ed oscene dei popoli barbari. Ma come conciliare il codice e le leggi vigenti colla poligamia dell’Islamismo, colle prescrizioni mosaiche circa l’anno sabatico ed il giubileo? E se i Mormoni volesser domani far sosta e stanziare nella vostra città, sarà lecita la comunione delle donne, e tanti altri strani abiti e vergognosi che la credenza loro non divieta. Inoltre quale rischio e qual ci mento non è la coabitazione di tante sétte in un solo paese? Chi vi assicura ch’esse non divengono battagliere, e l’arringo della disputa si converta in campo di battaglia? Che se pur non giungono a tali eccessi, non si potrà negare almeno che non ingenerino scandalo e inquietudine nella coscienza altrui. Or la pace non basta guarentirla di fuori: preziosa e desiderata soprammodo è quella dentro di noi, né ordine e sicurtà puòvantarsi sol perché nelle vie e nelle piazze non si combatte. Che se negli animi è turbamento ed ambascia, né il cittadino si sente appagato, né il Governo può rimanersi tacito ed inerte.
Codeste riflessioni sono gravi, ma non tanto da scuotere la teorica che io ho sostenuto finora. Il primo obbietto avrebbe efficacia per escludere dalla civil tolleranza il Politeismo, l’Islamismo, le religioni dell’India e altre simiglianti; ma non prova contro coloro che accettano il Vangelo, e comunque interpretino la parte dei misteri e dei dommi, tutti convengono sostanzialmente nei precetti morali. Ora se accordate la libertà alle comunioni cristiane, la concessione è tanto grande che in pratica per rispetto all’Europa equivale al tutto; imperocchè niuno paventi di veder sorgere nelle vostre città una pagoda o una moschea, né che Budda e Maometto facciano proseliti fra gli Europei. Dico inoltre che la libertà religiosa non menoma punto il diritto che ha lo Stato di vietare tutti gli atti contrari alla sua norma di giustizia. Laonde ogni cittadino è obbligato ad astenersene quand’anche fossero dalla propria religione permessi, se pur non preferisca abbandonare la patria: imperocchè del godere i beneficii della società nella quale tu vivi, è condizione indeclinabile rispettarne le leggi. E nota che generalmente code sti atti immorali ed ingiusti sono da certe religioni più presto permessi che comandati; condiscendenze e non precetti. Così, per esempio, il Pentateuco permette la poli gamia, e nondimeno gli Ebrei, che son molti e vivono in molte parti d’Europa, si contentano di una sola moglie, e parimenti si sobbarcano alle leggi comuni circa il riparto delle proprietà e i diritti di successione. E se volessero valersi di quelle facoltà che la loro credenza consente, lo Stato avrebbe il diritto di impedirne l’esercizio, non già perché si arrogasse di pronunziare sui dogmi, ma perché violerebbero le leggi da esso promulgate e sancite. E codesto concetto ci aiuta a risolvere eziandio le altre istanze. Non credo che la coesistenza di più religioni metta in pericolo la quiete pubblica, né turbi la società civile, quando questa sopraveglia imparzialmente acciocché niuna offenda o invada il diritto altrui: forse alluma in esse zelo ed emulazione di studii e di beneficenza. Né le eresie moltiplici del primi tempi fecer luogo a pugne materiali fra cristiani. E solo quando Costantino fece del Cristianesimo la religione dello Stato e insieme si proclamò vescovo esteriore, allora alle dispute e alle contese spirituali si congiunse dall’una parte la persecuzione, dall’altra la resistenza e la rivolta. Vedete oggidì in Francia e in Germania protestanti e cattolici vi vere commisti rispettandosi a vicenda. La Scozia contiene una gran varietà di sétte dissidenti, e non v’ha per avventura in Europa contrada così pacifica, così pia e così onesta. L’America settentrionale infine vi offre lo spetta colo della totale libertà di religione senza che nascano conflitti, e che lo Stato corra alcun pericolo nella sicurezza e nella prosperità. E come delle sétte, così dico dei privati. Forsechè la libertà di coscienza implica il disturbare altrui dagli uffici della propria religione? Mai no.
Forsechè lo costringe di ascoltare le prediche degli avversarii, leggerne le scritture, vederne le cerimonie, par
teciparne in alcuna guisa alle pratiche? Mai no. Donde nascerebbe adunque la irrequietezza e il timore? Nasce da ciò soltanto che l’uomo per naturale tendenza non si tien sicuro del proprio pensiero se non lo vede accolto e seguito dall’universale. Tendenza in sé buona e salutare qualora adoperi al proprio fine il mezzo della persuasione, e nella efficacia della verità ponga il suo fondamento; ma pessima ed esiziale qualora confidi nella forza, e per essa presuma comandare nelle coscienze altrui. Finalmente accogliendo l’ipotesi che le discussioni religiose degenerassero in conflitti, lo Stato ha ragione d’interporsi: e puniti i sovvertitori, costringere ciascuno a rimanersi nel cerchio dei propri diritti. E ciò fa non per sentenziare sui dommi, ma per tutelare la giustizia e l’osservanza delle leggi.
Gli argomenti per noi addotti ci porgono altresì norma a giudicare due punti assai importanti. L’uno è circa la gravità della pena e il modo di procedere in casi simiglianti. Quando lo Stato professa una religione, e con danna coloro che ne dissentono, esso viene in qualche guisa ad usurpare l’ufficio della divinità, e a farsene il rappresentante ed il vindice. Guardata assolutamente la colpa di osteggiare la fede, e adescare altrui all’errore, è massima, poiché si tratta di veri che rispetto alla vita oltramondana sono superiori. Quindi è che la pena parrà sempre mite in confronto della colpa, e il sacrilegio sarà degno del più spaventoso castigo. Invano vorreste invocare temperanza e mansuetudine; la logica vi trascina vostro malgrado alle ire feroci e implacabili: e pel delitto che offende una maestà infinita, esige la massima delle pene.
L’Inquisizione spagnuola è l’esito storico e necessario di questo concetto. Ma se per lo contrario lo Stato si dichiara incompetente in fatto di dommi, e non punisce la professione di una fede, o l’esercizio di un culto se non quando ciò violi il diritto altrui e turbi la pace e la moralità pubblica, allora il delitto diviene misurabile, e la pena può ad esso proporzionarsi colle regole comuni.
L’altro punto riguarda la pratica applicazione del principio, cioè come si possa introdurre la libertà in un paese avvezzo da lungo tempo e quasi direi connaturato al regime di una religione di Stato. E questo può essere il caso dove la subitanea comparsa di nuove dottrine e di nuove sétte ingeneri nella pluralità dei cittadini quel l’agitazione e quello sconforto che dianzi abbiamo di scorso. Però parmi che dalle nostre medesime teoriche discenda la convenienza di farlo grado a grado, e con temperamenti, perché la innovazione troppo rapida non offenda l’opinione pubblica. Egli è appunto nella riforma degli antichi ordini, nei mutamenti e nei trapassi che si manifesta la saviezza e la prudenza del Governo, il quale trova giustificazione di molti suoi atti transitorii nell’opportunità. V’hanno uomini che, veduta la bontà di un principio astratto, con puerile impazienza ne pretendono l’attuazione immediata, e dimenticano così che il presente si concatena al passato, e che le idee, gli affetti e gli interessi che i nostri maggiori ci lasciarono, quand’anche non sieno in tutto a noi confacenti, sono pur degni di rispetto e di considerazione. Io sono disposto in questo punto a fare delle concessioni ai miei avversarii, e desiderando la libertà non pur religiosa, ma politica e civile, amministrativa e commerciale, mi acconcio al procedere gradato, purché si proceda al fine senza ambagi e senza ipocrisie. E per conseguenza ammetto che se vi sono contrade in Europa dove lo spirito d’associazione sia ancor freddo e pigro, e la vita pubblica disusata; ivi sia lecito tenersi ancora ai Concordati, ponendosi d’ambe le parti in termini ragionevoli, e costituendo questo regime di transazione quasi scuola ed apparecchio alla compiuta libertà. Ma non si dimentichi giammai che questa è la norma, il fine e il destino avvenire dei po poli civili.

LETTERA X.

Fin qui, mio caro amico, abbiamo discorso sui dati della filosofia e del diritto: ora sarebbe tempo che, volgendoci alla storia, interrogassimo l’esperienza dei secoli per averne un responso che o confermi la nostra sentenza, o al contrario l’inforzi o la neghi. Ma voi ben capite che lavoro siffatto sarebbe troppo vasto e disacconcio a una serie di brevi lettere, quali son queste che io v’ho indirizzato. E nondimeno stimo di poter asserire che il mio assunto è ancor più facile a provarsi più trionfante colla scorta degli eventi passati di quello che col nudo ragiona mento. E di vero i sostenitori della intolleranza religiosa o rifiutano il testimonio della storia, o la svisano e vanno cercando scuse estrinseche ed insuete per ispiegare come i benefici effetti da lor ripromessi non siansi mai verificati; e come per lo contrario tante discordie e tanti mali scaturissero da quella medesima causa che doveva, se condo il giudizio loro, conservare l’unità di credenza, e promuovere la perfezione dei cittadini.
Ora io dico che una sincera e durevole alleanza fra Chiesa e Stato non fu mai possibile a stringersi o a mantenersi. Parlo di quell’alleanza che da taluni si desidera e si esalta, dove entrambe le parti non solo riconoscono ed osservano i diritti o i doveri rispettivi, ma procedono di conserva in ogni lor atto importante, e scambievolmente si fiancheggiano e si aiutano. Ma salvo rarissimi intervalli e di momentanea durata, tu non iscorgi nella storia altro che controversie sui limiti dell’una e dell’altra potestà, spesso ancora conflitti sanguinosi, e una alterna vicenda di dominazione e di servitù.
Non appena Costantino ebbe dato pace e libertà alla Chiesa, ch’ei volle ingerirsi delle sacre cose; pronunziare sulle eresie, regolar la disciplina, adunare concilii. Il Me dio Evo nella sua ignoranza dei fatti passati credeva per volgare tradizione che Costantino avesse donato Stati e ricchezze al Pontefice, onde la terzina irosa del poeta:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, Non la tua conversion, ma quella dote Che da te prese il primo ricco patre!
La critica storica ha purgato Silvestro da questa nota: ma il concetto del poeta è vero e quasi profetico, se intendiamo che il dono funesto fosse la protezione che la Chiesa accettò da Costantino, la quale tostamente si con verse in tirannide. Ed ecco una lunga sequela d’impera tori d’Oriente intromettersi ognor nelle materie ecclesiastiche, teologizzare, pronunziar l’anatema, e imporre la volontà loro a vescovi e patriarchi. Questo triste connubio doloroso alla Chiesa, infausto allo Stato, durò per secoli, ma non senza contese, e finalmente riuscì allo scisma orientale; che allorquando il Pontefice romano volle e poté resistere alle pretese di Bisanzio, la Chiesa greca si divelse dalla latina. Ed oggi ancora, mutate le condizioni dei tempi, pur ci sta innanzi un’immagine di quell’impero: imperocchè l’Autocrate della Russia incoronandosi imperatore si mitria capo della fede; ma ivi la religione è fatta strumento di politica, e il Clero vi ha perduto molto della sua indipendenza e dignità. E un altro fatto degnissimo di considerazione si è che il Cristianesimo colla purezza de’ suoi precetti, e colla santità dei suoi consigli non giunse mai a tanto da moralizzare e ritemprare i popoli greci.
Furon essi cristiani di nome, ma peggio che pagani di fatto; e la storia dell’Impero bisantino non è che un tessuto di delitti, di viltà, di bassezze, di turpitudini. Or come la luce del Vangelo per cinque secoli, quanti ne corrono sino allo scisma orientale, e per altri dieci secoli sino alla distruzione dell’Impero, come mai quella luce non giunse a diradar le tenebre dell’ignoranza e del vizio?
Pensaste mai seriamente a questo singolare problema e ne avete, meditando, investigato le cause? Per me io credo che se non sola, certo principalissima fu la mancanza di libertà.
Nell’Occidente al contrario le cose procedettero in modo al tutto diverso. Dal Settentrione scesero le orde dei barbari, devastarono, distrussero, dispersero: ma di riscontro a loro la Chiesa proclamò la separazione del potere spirituale dal temporale, e, abbandonando ad essi il governo della terra, serbò a se medesima la conversione delle anime. Con questo segno visse libera in pre senza loro, anzi si ordinò interiormente per guisa che nella universale dissoluzione della società essa sola si trovò potente, e, se mi è lecito usar questa parola, ebbe la virtù organica ed assimilante. E fattasi istitutrice dei barbari ne ammansò la salvatichezza, e con mirabile efficacia li trasse alla fede. Fu bello vedere la forza più brutale che mai scompigliato avesse il mondo render omaggio alle dottrine ed alla santità della vita. Sacerdoti e vescovi furono obbediti dai nuovi re, e l’autorità della Chiesa inermè fu rispettata e venerata da coloro che avevano conquassato il romano Impero. Ma da questo stato di cose a un patto di reciproca alleanza e difesa il passo era facile e sdrucciolevole, e codesta alleanza provata dai Longobardi, ma in breve disciolta, fu stretta in modo solenne da Pipino e da Carlomagno. E così «Roma – come dice il Macchiavelli – ricominciò ad avere l’imperadore in Occidente, e dove il papa soleva essere raffermo dagli imperadori, cominciò l’imperadore nella elezione aver bisogno del papa, e veniva l’Imperio a perdere i gradi suoi, e la Chiesa ad acquistarli.».
Nondimeno se i successori di Carlomagno fossero stati uomini di civil tempera, sagaci e fra sé uniti, puòfacilmente congetturarsi che l’accordo avrebbe di certo fatto luogo alla opposizione, come già prima era avvenuto ai re longobardi, e poscia avvenne agli imperatori d’Alemagna. Se non che la dinastia carolingia venne in tanta debolezza e disunione che non pure la forza di resistere al Clero, ma le manca eziandio la forza di reggersi in piedi. E la monarchia universale tentata da Carlomagno frangesi dopo la sua morte, si sparpaglia, si sminuzza, e poi da quella confusione esce il Feudalismo. Durante questo periodo la Chiesa tuttochè soggiaccia a gravi vicissitudini, mondimeno sale sempre in autorità e potenza, fin al punto che si colloca sul piedestallo, dominatrice uni versale dei re e degli imperatori. È dessa che li consacra e li esalta, o li giudica, li condanna, e scioglie i popoli dall’obbligo di fedeltà. E l’opinione predominante di quei tempi raffigura la società siccome una, e fatta ad imagine dell’uomo. La Chiesa n’è l’anima, lo Stato il corpo, e però questo a quella deve essere sottomesso ed obbediente.
i È agevole il concepire come questo pensiero avesse effetto, quando si considera alla qualità infelice di quei tempi nei quali ogni vincolo civile era infranto, alla preminenza intellettiva del Clero, ai benefici infine che ogni giorno dalla gerarchia sacerdotale derivavano alla società. Queste ragioni possono forse giustificare la dittatura papale come una tutela passeggera, richiesta dalla necessità del momento e accolta dal tacito consenso dei principi e dei popoli, poniamo che non fosse esente da ambizioni, da ingiustizie, da cupidità. Ma allorché si vuol convertire una dittatura temporanea in istabile teocrazia, e una condizione di cose transitoria si scambia coll’ordine perenne, allora nascono le difficoltà, gli arrotamenti, i conflitti. E rivolgendo indietro lo sguardo, apparisce il contrasto assoluto fra cotesto tipo della Chiesa e quello ideato dal suo fondatore. Non poteva adunque non levarsi contro di essa un sordo risentimento nel Laicato, il quale prima resiste, poscia combatte, e alfine vince e soverchia.
Pertanto noi troviamo sin d’allora l’aristocrazia feudale mal sofferente del giogo dei cherici, dai quali non si lascia mai interamente signoreggiare. Appresso vi si para innanzi il gran contrasto fra il Papato e l’Impero. Primieramente gli Ottoni rissarono coi pontefici, e venuti a Roma ebbero animo di riformare il Papato. Crebbero queste controversie colla Casa di Franconia, si invelenirono e generarono una lunga ed ostinata guerra per le investi ture. Che se Enrico IV, scalzo, coperto di cilicio, digiuno e tremante nel castello di Canossa, fu costretto implorare il perdono da Gregorio VII; questo stesso Papa poco appresso dovette fuggir da Roma cercando asilo presso i Normanni, e morì esule dal trono. La guerra ferve più ancora sotto la Casa sveva, e l’Italia è lacerata dalle pestifere fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Il Barbarossa e Federico II spendono la vita a combattere il Papato, e questa epopea dopo aver durato tre secoli ha fine col supplizio del giovine ed infelice Corradino, ultimo rampollo della lor schiatta.
Per combattere gl’Imperiali, i Papi avevano fatto assegnamento or sui Normanni, or sulle repubbliche d’Italia congiunte in lega, or finalmente sopra gli Angioini che chiamarono al conquisto del regno di Napoli. Ma sebbene la Casa di Francia fosse ligia al Pontificato, pure di mala voglia ne sosteneva le pretese, e il medesimo San Luigi, il più pio dei re, proclamava la prima prammatica che divenne base di tutte le altre. Ma non guari appresso Filippo il Bello trovasi già in isconcordia colla Chiesa; scomunicato non cede, anzi persegue Bonifazio VIII, lo imprigiona, lo amareggia di strazii ed onte, e dopo la sua morte fa eleggere papa un suo creato.
L’Alighieri, sebbene ghibellino fosse e nemico cordiale di Bonifazio, non può tenersi che in alcuni versi nobilissimi della sua cantica non isfolgori l’infamia di coloro che rinnovellavano nella Chiesa il supplizio del Redentore. Ma in questo modo la Casa di Francia di protettrice ch’ella era diviene tiranna della Chiesa, e ne segue il periodo della cattività avignonese; periodo che i cattolici non possono ripensare senza tristezza. Nel qual tempo ancora e la religione e l’autorità ecclesiastica declinarono rapidamente, e qua vedevi i Visconti di Milano ostentar baldanzosi lo scorno dei legati pontificii, là i tiranni di Romagna dar di piglio nel sangue e nell’avere dei chierici, la Repubblica fiorentina di spegiar l’interdetto, e a forza aprire i templi e celebrare i riti con solennità. Or, ditemi di grazia, dov’è nel Medio Evo quella pace fra Chiesa e Stato, quell’alleanza, quella comune difesa di che si mena rumore? Io non ci veggo se non certame alternato da tirannide o da servitù.
Poteva forse il ritorno del Pontefice alla sua sede di Roma migliorare i costumi della Corte e ridonarle una certa indipendenza e dignità; ma il dissidio scoppia fra il Clero stesso, e ne segue lo scisma occidentale, che per oltre mezzo secolo contrista e scandalizza la cristianità. Papi ed antipapi si scomunicano, si guerreggiano a vicenda, e qual di loro si volge alla Spagna, qual alla Francia o all’Impero, cercando a prezzo di molte condiscendenze partigiani e fautori. I concilii di Pisa, di Basilea, di Costanza accennano alla necessitàdi una riforma; e i segni di qualche fiera tempesta che si addensa, balenano nel cielo intorno intorno. Noi siamgiunti al tempo della protesta, per la quale una gran parte d’Europa e della nobil schiatta germanica si divisero dal Papato. Di questo grande evento abbiamo soventi volte le cagioni e gli intendimenti, e le conseguenze insieme esaminate. Noi osservammo che al trionfo delle riforme ebbero non piccola parte i principi alemanni; e un tratto stette perplesso fra il Papa e Lutero lo stesso Carlo V. Ma se finalmente ei pigliava la difesa del Cattolicismo, compiacevasi di umiliarlo e lasciava che le bande del Borbone scorazzassero i dominii della Chiesa, saccheggiassero Roma, tenessero il Papa prigione. La pace di Vestfalia, che pon termine alle guerre religiose, dà ai protestanti un posto legittimo fra le nazioni e i potentati d’Europa: e inoltre stabilisce formalmente un nuovo ca none di diritto pubblico che la Chiesa è nello Stato, e che perciò appartiene al sovrano temporale la facoltà di poter riformare anche la religione nei suoi dominii. Invano i pontefici ributtarono questo principio; invano studiaronsi di accomodare le lor pretese con quelle dei principi per mezzo di concordati più o meno larghi e favorevoli.
D’allora in poi, onorata con esteriori segni di riverenza e di ossequio, la Chiesa andò perdendo le sue franchigie, e gli stessi re più devoti non si peritarono di sostenere alacremente il primato della potestà civile sopra l’ecclesiastica.
Ora riguardate indietro e mirate quale mutamento si è fatto nelle relazioni fra la Chiesa e lo Stato. Quanta differenza dagli atti e dal linguaggio dei Gregori e de gli Innocenzi, a quello dei Clementi e dei Pii. Ma né la indomabile ferocità degli uni, né la mite pieghevolezza degli altri vuol essere giudicata con soverchia rigidità. Imperocchè la critica imparziale scorge come l’ambizione del comando e la servilità dell’ossequio non tanto siano da attribuire a colpa di quegli uomini, quanto alle condizioni dei tempi e all’influsso di un’idea falsa e nondimeno ribadita fortemente nelle menti, quella cioè del collegamento necessario fra la Chiesa e lo Stato.

LETTERA XI.

I filosofi del secolo passato nella passionata ed accanita guerra che mossero al Cristianesimo, produssero contro di esso, quali titoli d’accusa, le persecuzioni, il sangue e le lagrime per tanti secoli versate. Con questo argomento venivano ad attribuire alla religione ciò che è difetto degli uomini, e disconoscevano come la più nobile ed eccellente dottrina possa essere tortamente maneggiata; che anzi quanto una teorica è più perfetta, tanto più è difficile la effettuazione e più tremendo l’abuso. Ma se quegli scrittori avessero imparzialmente meditata la storia e scrutato il cuore umano, avrebbero veduto di leggieri che tutte le religioni, anzi tutte le sétte furono intolleranti. Avrebbero veduto ancora come per la naturale imperfezione dell’uomo una fede assoluta e fervida di leggieri suscita uno zelo insofferente e violento. Imperocchè colui che è convinto di possedere la verità, e tal verità che sola ed unica è necessaria alla salvezza eternale, e a petto di cui la vita e il mondo sono un nulla, questi anela di convertir gli altri, s’impazienta alla ritrosìa, si sdegna agli ostacoli, e ne incolpa il mal volere, e la malvagia inerzia, e le turpi passioni. Quinci il trapasso dall’insegnamento al comando, dalla persuasione alla forza. L’ardore di servire alla divinità, la speranza di salvare altrui anche suo malgrado, e la foga di estirpare i germi che possono pervertire le generazioni future, ingombrano l’animo e lo fanno entrare in una specie di frenesia, che va sino al punto di glorificare gli atti inesorabili ed inumani, e che si chiama fanatismo. Tardi e col maturarsi della riflessione e della civiltà si è svolta l’idea della tolleranza, e il riconoscimento e il rispetto della libertà personale ha costato agli uomini lunghissimo tempo e grandi sforzi; né può dirsi ancora connaturato negli animi.
Lungi da noi il pensiero che l’uomo debba transigere coll’errore, o non curarlo, o avversarlo colla mente: codesto è scetticismo proprio di quelle tristi età che vivono senza fede e senza grandezza d’animo; ma fra la indifferenza e la persecuzione vi è un intervallo immenso, in mezzo al quale sta la verace norma della nostra condotta.
Il vero non può venir a patti col falso, e in questo senso havvi una giusta ed eterna intolleranza; ma essa è al tutto diversa, anzi opposta all’intolleranza materiale e agli eccessi dell’Inquisizione: che dove l’una si fonda sull’efficacia della persuasione e sulla virtù dell’esempio, l’altra imbrandisce le armi e, volendo sforzare le coscienze, suscita la incredulità. Or questo è appunto ciò che mi sembra risultare evidentemente dalla storia, e che compie la dimostrazione del mio discorso, vale a dire: che la persecuzione religiosa non ha mai conseguito il suo fine.
Imperocchè né le minaccie, né gli esigli, né le torture, né i roghi impedirono il progresso delle eresie, e se lo sperpero d’intere popolazioni ne spense insieme con esse ta luna, ben tosto altre più forti ne rampollarono; e il cantico della vittoria fu interrotto dal rombo di nuovi e più fieri assalti.
Io non citerò il fatto stesso del Cristianesimo, cui gli editti più rigidi, i divieti più risoluti e le più spietate condanne non menomarono, anzi rinvigorirono, apparecchiandone più splendido il trionfo. Ma se il martirio dei cristiani è uno dei più sublimi spettacoli dell’umanità, non però di meno la vittoria della loro causa potrà attribuirsi a decreto provvidenziale oltre il corso ordinario dei fatti. Ricorderò soltanto che dall’ultima persecuzione di Diocleziano all’editto di Costantino, che accorda la libertà dei culti, passarono pochi lustri. Così avesse egli mantenuto questo principio di tolleranza! ma pur troppo l’aver domato i suoi nemici all’Impero, rese il vincitore baldanzoso; né forse i tempi consentivano tanta ragione ed equità. E sotto Costantino medesimo ebbe principio la sanguinosa persecuzione dei Donatisti che disertò l’Africa, e donde pullularono tante altre sétte mimiche e crudeli, che per tre secoli vennero a zuffa sino a che il Cristianesimo fu dall’Africa intera sbandito. Ma intanto in Alessandria sorgeva la eresia, che negando la divinità di Cristo scalza il fondamento stesso della nuova credenza. A voi è troppo nota la controversia fra Ario e Sant’Atanasio; ma ciò che fa al nostro proposito si è che, nonostante le ostinate pugne fra i seguaci dell’uno e del l’altro, non ostante la condanna del Concilio di Nicea, l’Arianesimo si perpetuò per altri due secoli, si diffuse largamente, e fu vicino a trionfare nell’imperial seggio di Costantinopoli. Ed ecco nuovi eresiarchi in Oriente impugnano la divinità dello Spirito Santo, mentre in Occidente Pelagio, negando la necessità della grazia, mette in iscompiglio lo Stato e la Chiesa. Tale e sì inveterata era l’abitudine di adoperare la forza per sostenere le opinioni religiose, che in Costantinopoli un inno ecclesiastico commuove la guerra civile, e si mena strage sui proseliti di Nestorio e su quelli di Eutichate, intanto che i barbari penetrano in Occidente, e l’Oriente rimane esposto alle incursioni dei Persiani e alle minaccie dell’Islamismo. Finalmente chi può senza raccapriccio fermarla mente sulla lunga guerra pel culto delle immagini, la quale precede di poco e quasi prenunzia la separazione della Chiesa greca dalla latina?
Ma ricerchiamo oggimai eventi più a noi vicini. Dopo la lunga notte d’ignoranza, ai primi e fiochi albori del nostro risorgimento, nonostante che gli ordini teocra tici prevalessero in tutte le parti della società, e soprattutto nell’insegnamento, alcuni filosofi fin dall’undecimo secolo accennano a libertà di pensiero non dico in mate rie dommatiche, ma nella interpretazione di esse. La co storo audacia riceve severo castigo. Rascellino è costretto a ritrattarsi metu mortis innanzi al Concilio di Soassone, e Abelardo, i cui affanni oggi ancora impietosiscono le anime gentili, finisce la vita condannato, rinchiuso, ma cerato dalle penitenze. Pure nel secolo dodicesimo il guasto e il pericolo son fatti già più gravi, né si tratta solo d’imporre silenzio ad alcuni filosofi solitari, ma di reprimere sétte numerose e ferventi. Cito infra le altre quella dei Valdesi e degli Albigesi, la strage e lo sterminio dei quali forma uno dei più feroci episodi del ferocissimo Medio Evo. Lo stabilimento generale della Santa Inquisizione nel tredicesimo secolo mostra che già le false dottrine eransi moltiplicate e diffuse, e che se la Francia ne pativa travaglio, l’Italia e la Spagna non n’erano immuni. Ma considerate, di grazia, quanta efficacia abbia sugli animi un falso principio, e l’abito del dominare. Non si cercava già in quel tempo se del crescente malore fosse per avventura cagione o l’oltrapotenza dei Pontefici, o le ricchezze dei Vescovi, o il mal costume del Clero, o gli abusi del Monachismo: se ne argomentava soltanto che la vigilanza era stata insufficiente, e la pena scarsa al delitto; quindi se ne traeva la necessità di avvivare le investigazioni e di provocare la delazione, di organar le accuse e i processi, di far più certo e terribile il supplizio. Ora, lasciando da parte qualsivoglia invettiva e declamazione, ditemi per fede vostra: La Inquisizione ottenne ella il suo fine di estirpare l’eretica pravità?
E se non l’ottenne, fu per zelo monco e per mollezza? V’ha forse alcuno che meditando la storia s’attenti di concluderne, che se la persecuzione avesse inferocito e imperversato maggiormente, l’unità cattolica si sarebbe man tenuta nell’Europa? Giovanni Huss e Girolamo di Praga, predicatori di novità pericolose nel principio del secolo quattordecimo, sono gittati nel fiume Reno, e fin la me moria vuol esserne spersa. Ma poco appresso gli Ussiti in sorgono in Boemia cotanto forti di numero e d’armi, che tengono testa per diciotto anni all’Imperatore, e cedono alfine dispersi e divisi piuttosto che vinti. Chetati gli Ussiti, ecco Lutero, e dietro a lui la lunga tratta degli al tri riformatori che si levano d’improvviso, e fanno echeggiare tutta la Germania del grido della protesta. Quel grido sorprende Roma, la quale nel rogo di Savonarola sperava di aver spento le reliquie della severità novatrice, e, ignara del pericolo, spensieratamente gioiva in mezzo allo splendor delle lettere e delle arti. Or non più uomini baldi di scienza e d’orgoglio, non misere borgate e tribù montanare, non provincie remote e segregate dal civile commercio; ma nazioni intere addottrinate e culte, nel cuore stesso d’Europa minacciano di separarsi dal Cattolicismo.
V’ha forse, per ricondurre i traviati, ancora una speranza nel riconoscere i proprii falli, emendar gli abusi, accordare temperate franchigie. Ma si elegge l’anatema e la persecuzione, e così ha principio una guerra che per Centocinquant’anni in nome della religione arreca lo spavento e la morte.
Né i protestanti si mostrano men feroci dei loro avversarii, e con tutto che mossi da un senso di libertà neppur sanno intendere la tolleranza. Questa guerra prende forme diverse, e sortisce diverso esito secondo le varie contrade. In Inghilterra, dopo una tumultuosa vicenda di re cattolici e scismatici, le riforme trionfano.
Nella Svezia, nella Prussia, nella Germania settentrionale i principi divengono fautori delle nuove dottrine, e di tal guisa si levano in maggiore potenza. I Paesi Bassi sono per alcun tempo la palestra, ove la libertà s’affronta col dispotismo religioso e civile incarnato nel Duca d’Alba.
Alla fine il trattato di Vestfalia pon termine alle guerre religiose, ma la giurisdizione della Chiesa cattolica in Europa rimane dimezzata, e gli Stati protestanti ricevono la sanzione e i benefizii del diritto pubblico universale.
Non si può negare che a mantenere in fede i popoli di razza latina non cooperassero in fra le altre cagioni e la terribile signoria di Filippo II, e i massacri di Carlo IX, e i rigori dell’Inquisizione, e le pratiche dell’Ordine gesuitico novellamente creato. Se non che per l’una parte, siccome io vi dicevo nell’altra lettera, anche in codesti paesi il Papato scema d’indipendenza, e lo Stato prende baldanza a soverchiare la potestà ecclesiastica; per l’altra parte il fuoco soffocato non si estingue, ma segreta mente divampa. Come quelle infermità che respinte e scomparse dall’epidermide s’insinuan nel sangue, e scorrendo le vene feriscono la vita stessa del cuore, così il principio del libero esame serpeggia tacitamente in Francia, in Italia e in Ispagna. E mentre le nazioni protestanti s’arrestano in una specie di compromesso fra la ragione e la fede, le razze latine proseguono il lavoro della cri tica, e precipitano nella incredulità o nella indifferenza.
L’enciclopedia è il portato scientifico di questo invisibil lavoro, la rivoluzione francese n’è lo scoppio di fuori. Essa rovescia il feudalismo, le monarchie, gli antichi ordini, e finalmente la religione; e scaccia dal santuario i sacerdoti, e Dio stesso dagli altari. Così è chiuso questo ciclo, che, cominciando dalle eresie mal represse dalla forza, e trapassando per riforme non vinte dalla guerra, si compie colla negazione totale del Cristianesimo.

LETTERA XII.

Nelle due precedenti lettere io non presumo di aver dimostrato il mio tèma; ma sol dato cenno come dalla lezione dei fatti passati possan trarsi rettamente queste due conclusioni: che alleanza sincera e stabile fra Chiesa e Stato non si vide mai, e che la persecuzione non valse a mantenere l’unità religiosa nel mondo. Ora se queste storiche induzioni si congiungono a ciò che in prima mi sforzai razionalmente di chiarire, cioè l’indole e il fine della società civile, e i limiti dell’azione governativa ri spetto al diritto personale, m’avviso di esser pervenuto là dove intendeva sin da principio; cioè, a provare che lo Stato non dee mai colla forza imporre ai cittadini la professione di un domma e l’osservanza di un culto.
Ora mancherebbe solo, al preso assunto, di guardare a guisa di legislatori e statisti alla opportunità, cioè alle condizioni presenti d’Europa, per investigare se, poste le inveterate abitudini d’intolleranza, non vi sia qual che pericolo ad accordare ad un tratto tutta intera la libertà religiosa. Ma, volendo considerare addentro lo stato delle cose, parmi indubitabile che quel sentimento che nei secoli passati più istintivamente che per riflessione faceva desiderare a taluni la libertà religiosa, oggi abbia preso forma di vero principio, e dalla coscienza dei pochi siasi diffuso nelle moltitudini. Aggiugnete a ciò la universale tendenza alle altre franchigie civili e politiche, e se è vero, come credo che entrambi scorgiamo, che v’ha una connessione necessaria fra le libertà, poniamo di stampa e d’insegnamento, anzi fra tutte le li bertà e quella di religione, non si potrà concesse le une negar l’altra, e farà mestieri o risospingere l’Europa a quella condizione di cose, dove il diritto aveva le forme di privilegio, vuoi personale o di classe, o di comune, o di nazione; ovvero accettare in tutta la sua pienezza l’eguaglianza civile e il diritto comune. La prima di queste imprese mi dà sembianza di un sogno; stimo dunque possibile soltanto la seconda, la quale se non potrà essere condotta che fra molte concitazioni e vicende, nondimeno parmi nel suo esito essere immanchevole. E come l’assolutismo in politica, il privilegio in economia, l’arbitrio nelle leggi; così verrà meno anche la coazione in materie religiose.
Se non che si dirà che la civiltà odierna è imperfetta, e che tutti gli estrinseci suoi pregi non tolgono ch’essa non manchi appunto di ciò che è più importante e sostanziale; laonde non si può imprometterle vita lunga e vigorosa, anzi già i segni appariscono della sua declinazione. Bello è il progresso delle scienze fisiche, e il vincer la natura, e di nemica ch’ell’era, farla schiava ed ancella; bello trascorrer lo spazio quasi a volo e, abbreviando gl’intervalli del tempo, allungare la durata. Curioso è disaminar colla critica il passato, e quasi direi ravvivarlo mercé l’erudizione. Nobile fondare istituti pubblici, sollevar la dignità delle plebi, migliorarne la condizione materiale, chiamarla a parte del reggimento.
Ma tutto ciò non basta all’uomo, il quale anela all’infinito, e sospira una vita migliore oltre questa mortale;
non basta alla società, poiché la virtù che nobilita gli uomini e li congiunge cordialmente fra loro, ha mestieri di una sanzione più sublime di quella che può fornirgli ogni premio terreno; non basta alla scienza né all’arte, le quali appuntano loro principii supremi alle cose divine, e da quelle ricevono grandezza e beltà.
Io convengo in questi pensieri, ma non veggo chiaro dove ferisca l’argomento dei nostri oppositori. E per verità, che cosa si deplora? Forse il raro e non più feroce uso della forza in materie religiose? Non credo che molti si attentino a dirlo. Forse la risurrezione degli ordini feudali e della teocrazia? Neppure; ma si deplora la in differenza e lo scetticismo che pervade le menti, e si vorrebbe che i beni della civiltà fossero sottordinati al dovere, e informati dallo spirito del Cristianesimo. Siamo concordi nel fine: rimane la scelta dei mezzi, e quindi il problema (sia pure il massimo della età nostra) sarà il seguente – come il sentimento religioso quasi spento rifiorisca e sia di nuovo accolto con fede negli intelletti, e con amore e speranza nei cuori. Perciò coloro che sapranno additare la via, la quale conduce alla desiderata mèta, dovranno reputarsi aver fatto opera pietosa e benemerente.
Un movimento assai notevole da trent’anni in qua si va operando nella Chiesa cattolica, la quale all’interno attende a restringere i vincoli della gerarchia, a incentrare i poteri e soffocare ogni franchigia locale, a risusci tare le minute pratiche del culto e della devozione; al di fuori rinnovella l’alleanza coi sovrani che, paventando l’onda popolare, cercano in essa un puntello ai loro troni.
Da questa duplice tendenza nasce negli ordini mentali il sospetto di ogni nuova dottrina, l’avversione ad ogni progresso civile; negli ordini di fatto, il conato di rinnovellare la persecuzione. Ora vi confesso ingenuamente che in cotai mezzi non ho alcuna fiducia; e li credo acconci ad alienare più ancora gli animi dalla religione, di quello che ad attrarveli. Un nuovo vocabolo, quello di partito cattolico, è accettato, e suona nella bocca di tutti, sì fautori che avversarii, di che nulla parmi più funesto; perocchè pone la religione in mezzo alle opinioni e alle passioni umane, e mentre serve ad attizzare la reazione ecclesiastica, apparecchia una popolare riscossa. Triste spettacolo e presagio di dolorosi eventi è il vedere da una parte la Chiesa, che in nome della religione impreca alla libertà; dall’altra popoli oppressi, che nell’odio loro congiungono la tirannia e la religione. Questa a me pare mala via, e per lo contrario i soli mezzi che umanamente parlando siano atti, a mio giudicio, a far risorgere la fede, sono la scienza e le virtù. Datemi un Clero sapiente che, lasciate le invettive e le declamazioni, colla dottrina e la erudizione sveli e confuti gli argomenti degli oppositori, faccia buon viso ad ogni nuova scoperta nelle leggi della natura, o in quelle della società, addimostri il nesso che congiunge in una sintesi vasta e profonda la teologia con tutte le scienze fisiche, filologiche e civili, e finalmente accolga tutte quelle riforme che sono richieste dalla condizione dei tempi: datemi un Clero che risplenda di ogni bel esempio di carità e di coraggio, di franchezza e di annegazione, e vedrete il mondo che novellamente a lui sarà converso. Vedrete la religione riprender il suo impero nei cuori, e la gerarchia cattivarsi il rispetto e la vene razione dei popoli. Ma senza queste condizioni vano è sperare il risorgimento. Imperocchè s’egli è vero che la civiltà spogliata di ogni religione manca di sostegno, la religione scompagnata dalle scienze e dai benefici influssi sulla società rimane deserta.
Ma se la libertà religiosa è il destino dei popoli culti, e se le relazioni fra Stato e Chiesa saranno nell’avvenire fondate sulla rispettiva autonomia e sulla completa loro indipendenza, segue forse da ciò che la potestà civile e l’ecclesiastica debbano vivere sempre in conflitto fra loro?
No, certamente: e sarebbe in quella vece più conveniente il presagire che la separazione della Chiesa dallo Stato sarà apparecchio e tirocinio ad uno stato di cose, nel quale l’armonia loro potrà essere promossa confidentemente e attesa senza pericolo. Imperocchè tale armonia non sarà cementata dagli interessi, dalle paure, dalle passioni; ma sarà il resultato dell’intima e originaria unità che sussiste fra gli ordini spirituali e temporali, anzi fra tutti gli ordini del pensiero e della vita, della speculazione e dell’azione:
sarà il simbolo esteriore di quel nesso recondito che con giunge il cielo e la terra. Similmente la libera professione dei dommi e il libero esercizio dei culti permesso ad ogni cittadino, lungi dall’impedire l’unità religiosa degli spiriti, potrà farla nascere dall’accordo spontaneo e dal razional ossequio di essi: imperocchè l’unità obbiettiva, di che dicemmo dianzi, tu la rinvieni subbiettivamente anche nel l’uomo, il quale è ad un tempo pensante ed operante, cittadino e credente; e mentre rivendica il diritto di esaminare e di giudicare, si sente inclinato a riconoscere spontaneamente una guida illuminatrice e una tutela benefica. Di tal guisa si vedrà per gli effetti, che la massima libertà può andar di paro colla massima autorità, perché entrambe scaturiscono dall’eterno fonte del vero e del bene.

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