Dino Campana

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Dino Campana, poeta

Categoria: Saggi biografici

Il poeta Carlo Giuseppe Campana[1] Versioni digitalizzate dei documenti e delle foto della vita di Dino Campana sono disponibili su: Immagini della sua vita, detto Dino, nacque il 20 agosto 1885 a Marradi in una famiglia piccolo borghese, un comune in provincia di Firenze nella Valle del Lamene nell’Appennino tosco-romagnolo al confine con la Romagna. Alla sua terra natia, che caratterizzò la sua opera letteraria, dedicò in seguito un suo componimento:

Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e ruggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi!
(Marradi (Antica Volta, Specchio Velato), Canti Orfici)

Il padre Giovanni fu prima insegnante di scuola elementare per poi divenire direttore didattico, mentre la madre Francesca Luti (detta Fanny) era una casalinga proveniente da una famiglia benestante. La sua casa natale era in via Celestino Bianchi, nel quartiere nei pressi del fiume detto l’Inferno: verrà poi bombardata e distrutta durante la seconda guerra mondiale. Dino visse gran parte dei suoi giorni marradesi nella casa “Campana” di Via Pescetti.
I rapporti con la madre divennero problematici nell’anno 1888, quando nacque suo fratello Manlio (detto Nini), il secondogenito della coppia, come testimonia una lettera della zia del poeta Giovanna Diletti Campana. “Dopo la nascita di Manlio, il Cocco”, scrisse Giovanna Diletti Campana,

Dino passò in seconda, o per meglio dire in terza linea. Ninni (Manlio), sempre Ninni, solo Ninni.[2]Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.25.

Dino frequentò le scuole elementari a Marradi, dopo di che frequentò la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza (Ravenna) e nel 1899-1900 sostenne gli esami di licenza nel locale ginnasio-liceo “E. Torricelli” (in questa fase aveva già manifestato i primi disturbi nervosi che comparvero quando aveva dodici anni). L’anno successivo divenne allievo di prima liceo presso lo stesso “Torriccelli” e cominciò a dare i primi segni di quello squilibrio mentale con manifestazioni di aggressività verso la madre che lo affliggerà fino alla morte. Gli studi liceali li svolse in parte a Ravenna presso il Liceo “Torricelli”, in parte a Carmagnola (Torino), in Piemonte, presso il Regio Liceo “Baldessano”, dove conseguì con difficoltà la maturità nel luglio del 1903. Durante questi anni il rendimento scolastico divenne incerto e saltuario.
Nella sua formazione contò molto la lettura di poeti e scrittori moderni, lui stesso infatti affermò: “Leggevo molto qua e là. Carducci mi piaceva molto, Pascoli, D’Annunzio, Poe anche; l’ho letto molto Poe. Dei musicisti ammiravo molto Beethoven, Mozart, Schumann. Verdi anche mi piace; Spontini, Rossini.”[3]www.dinocampana.it. Accanto a queste passioni si interessò anche di pittura.
Durante questo periodo ebbe a che fare per la prima volta, secondo una sua testimonianza purtroppo abbastanza vaga, con la giustizia: sarebbe stato rinchiuso per un mese in un carcere di Parma, probabilmente durante una delle pause della vita di collegio. Il motivo è ignoto, ma è probabile che la motivazione sia riconducibile a una di quelle che nel resto della sua vita gli causarono innumerevoli problemi: l’ubriachezza, l’irascibilità e lo squilibrio nervoso.
Dal 4 gennaio al 4 agosto 1904, a diciannove anni, anticipando di due anni il servizio di leva, Campana entrò nella scuola per ufficiali di complemento di Ravenna (40° Reggimento di fanteria): non superò però l’esame per divenire sergente e venne espulso per “comprovata inidoneità”[4]Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.46.. Si iscrisse quindi il 22 novembre 1905 il primo anno della facoltà di chimica pura presso l’Università di Bologna, per passare l’anno seguente alla facoltà di chimica farmaceutica a Firenze.
La sua presenza a Bologna sarà importante per la sua formazione letteraria: qui infatti frequentò le lezioni della facoltà di lettere e intrattenne rapporti di amicizia con i gruppi di goliardi e con i giovani appassionati di letteratura. Nel 1905, durante la frequentazione dell’università, venne regolarmente chiamato alle armi ma rinviò il servizio a causa degli studi. Nel 1906 venne congedato a causa della sua infermità di mente (già a dodici anni manifestò i primi disturbi nervosi). A quest’anno risale appunto una lettera, del 13 settembre, inviata al prof. A. Bruglia, direttore del manicomio di Imola ove era stato rinchiuso per la prima volta in maniera coatta, dal padre:

Nel 1900 incominciò [Dino Campana] a dar prova di impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma.

Veniva considerato un soggetto dedito a una “vita errabonda che lo potrebbe esporre a gravi pericoli” ed incline ad una “condotta irregolare”.
Nel 1905-1906 frequentò chimica farmaceutica di nuovo a Bologna, nel 1906-1907 restò a Bologna, ma passando di nuovo a chimica pura.
Nel 1906, mentre era ancora a Bologna, il padre lo fece visitare dal prof. G. Vitali che in una sua lettera inviata a Brugia scrisse:

Si tratta di una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l’isolamento affettivo e morale, e l’uso di preparati bromici. Con tali si otterranno vantaggi; ma quali? E fino a qual punto?[5]Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.41.

Il 4 settembre venne ricoverato nel manicomio di Imola, dove restò fino al 31 ottobre, quando il padre, contro il parere dei medici, decise di farlo uscire sotto la sua responsabilità. Nei mesi successivi Campana migliorò, ma l’ombra della pazzia e della demenza non lo lascerà mai più.
Probabilmente nel 1907, trovandosi un giorno alla stazione di Bologna fu preso da un improvviso desiderio di partire e, infilatosi in un treno, raggiunse con pochi soldi Milano: di qui attraverso Domodossola passò in Svizzera, poi in Francia, dove arrivò fino a Parigi e poi in Belgio. Il 1908 fu probabilmente l’anno dei grandi viaggi. A quella data, infatti, va fatto risalire (secondo la ricostruzione fatta da G. Gerola) l’inizio di una lunga peregrinazione di cui vi sono varie testimonianze nei suoi componimenti.
S’imbarcò di lì a poco a Genova e raggiunse Buenos Aires. Nei mesi successivi, girovagando quasi sempre a piedi, si recò a Bahia Blanca, Montevideo, Rosario, Santa Rosa de Toay e Mendoza (Argentina). Esercitò nel contempo innumerevoli mestieri per ottenere abbastanza da mantenersi e continuare la peregrinazione: il suonatore di triangolo nella marina argentina, lo sterratore, il garzone, lo stalliere, il portiere in un circolo, il poliziotto (ossia “pompiere”), il pianista nei caffè concerto e nei bordelli. Di questi suoi viaggi si trova traccia nei componimenti intitolati appunto Pampa, Viaggio a Montevideo, Passeggiata in tram in America e ritorno e Genova.
Per ritornare in Italia, s’imbarcò clandestinamente su una nave ma venne scoperto e dovette così lavorare come mozzo, tornato in Europa sbarcò ad Anversa, da qui andò a Parigi e poi a Marradi e da qui in pellegrinaggio a piedi, fino alla Verna.
Secondo le sue testimonianze poi si recò in nave, svolgendo il lavoro di fuochista per pagare la traversata, fino ad Odessa, dove la nave fece un lungo scalo.
Qui Campana riprese a girovagare e si aggregò ad una compagnia di bossiaki, sorta di zingari, con i quali si recò in varie fiere a vendere stelle filanti. Ripartito, raggiunse Anversa, dove visitò diversi musei e vide il quadro da cui trarrà ispirazione per Il cappello alla Rembrandt. A causa delle sue stravaganze, venne messo in prigione a Saint-Gilles (Belgio) e poi rinchiuso nel manicomio di Tournay (dove incontrò la figura che lo ispirò nella stesura de Il russo). Rilasciato, passò a Parigi e di lì tornò infine a Marradi, dove era già giunto in marzo, quando il sindaco comunica al procuratore del Re la notizia di aver emesso un’ordinanza per il suo ricovero. Dal ritorno, avvenuto nel 1909 fin verso il 1912 continuò a condurre un’esistenza di vagabondaggio e di inquietudine. Dal 9 aprile 1909 fu ricoverato in una clinica fiorentina per malattie nervose e mentali, da cui venne dimesso il 26 del mese. Nel 1910 compì un lungo pellegrinaggio a piedi da Marradi al Monte Falterona e alla Verna (Arezzo); una delle sue poesie, dedicata a Francesco d’Assisi, si intitola appunto La Verna.
All’incirca nello stesso periodo si trasferì, pare per parecchi mesi, presso un contadino delle montagne di Marradi, molto probabilmente alla ricerca di una pace che doveva essere propizia alla manifestazione della sua poesia.
Fra il 1911 e il 1912 rimise insieme, molto probabilmente in più riprese, i frutti di un’attività poetica che doveva aver cominciato intorno ai venti anni costituendo il cosiddetto Quaderno ed entrò in contatto con il circolo del giornale “La Voce”. I suoi primi lavori letterari risalgono infatti a quel periodo, per la precisione al 1907: si tratta di quei quarantatré componimenti che, essendo stati trascritti su di un quaderno scolastico ritrovato in casa sua molti anni dopo la morte, compongono quella sezione delle liriche che è nota sotto il nome di Quaderno. I suoi esperimenti poetici raccolti nel Quaderno vennero poi accantonati, presumibilmente nel 1912, quando iniziò la stesura dei Canti Orfici.
L’8 dicembre pubblicò nel foglio goliardico bolognese “Papiro” alcune delle sue opere: La chimera, Le cafard e Dualismo. A metà febbraio del 1913 pubblicò nel “Goliardo”, un altro foglio universitario bolognese, Torre rossa – Scorcio (i primi otto capoversi de La notte). In questo stesso periodo si trasferì presso l’università di Genova, ma verso la primavera s’imbarcò, raggiunse La Spezia e di lì la Sardegna. Verso l’autunno del 1913 la composizione della raccolta delle sue opere doveva essere terminata. Nel dicembre 1913 Campana si recò da Marradi a Firenze e si presentò a Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879-1964), allora direttori di “Lacerba” – una rivista letteraria fiorentina per avanguardie fondata il 1° gennaio 1913 – per avere un giudizio sul proprio lavoro letterario.
Campana era un uomo di cultura che si interessava attivamente ai dibattiti del tempo. Aveva una buona conoscenza di Nietzsche, probabilmente letto in tedesco, e delle opere di Freud.
In questo fondamentale periodo della sua vita, da un punto di vista artistico e letterario, Campana di descrive così: “Io ero un povero disgraziato esausto e avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene e un po’ tacevo”[6]Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.193..
La storia dei suoi burrascosi rapporti con l’ambiente della giovane cultura fiorentina fu alquanto complessa e controversa. Campana consegnò a Papini prima e Soffici – un suo quadro, forse Ballo dei pederasti del 1913, fu anche di ispirazione ad uno dei componimenti di Campana, Fantasia su un quadro di Soffici[7]Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.580. – poi il manoscritto de II più lungo giorno (il primo titolo della futura opera Canti Orfici) che Soffici, in un trasloco, sostenne di aver smarrito, causando la furia dell’autore che in una lettera scrisse:

Caro Cecchi, le dò parola d’onore che le dico ora pura verità. Non so come fare a descrivere quei fiorentini. Li ho mandati a sfidare 4 volte in due anni senza risultato […] Un mese fa ho scritto a Papini che andavo a Firenze con un buon coltello per lui e mi ha risposto gentilmente. Volevo bastonarlo a morte. Se provocava un processo non m’importava. La sua vigliaccheria risultava evidente […] Posso provare che Papini e Soffici sono ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto.[8]www.christies.com

Invece ai due diretti interessati scrisse, in una lettera: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò”[9]Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.193.. Visto però l’insuccesso tornò a Marradi ove non dette segni di essersi ripreso e infatti scrisse “mi decisi a riscriverlo, giurando di vendicarmi se avevo vita”. Il manoscritto rappresenta una fase di avvicinamento ai Canti Orfici che la leggenda, assecondata dallo stesso poeta, vuole riscritti a memoria anche se molto più probabilmente utilizzò gli appunti e le bozze per ricostruire i componimenti. A conferma di questa seconda ipotesi sono stati ritrovati un Taccuino faentino (datazione incerta) ed un Quaderno (probabilmente risalente al periodo 1908-14)[10]Carlino Marcello, Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, pag.234., in cui sono riportati molti brani poi pubblicati nei Canti Orfici ed altri che ne sono rimasti esclusi. Nel 1949 è stato pubblicato il Taccuino a cura di F. Matacotta dagli Amici della Poesia di Fermo.
Dai contatti con il poeta Vincenzo Cardarelli (1887-1959, vero nome Nazareno Cardarelli) e il critico d’arte e letterario Emilio Cecchi (1884-1966) nacque il progetto di fondare una nuova rivista, Il diario della nuova Italia, un organo di “umanesimo integrale”, “la realtà come dimostrazione dell’attuazione dello spirito”, capace di collocarsi al livello europeo.
Nel 1914 pubblicò alcune sue poesie sul giornale “La Voce bianca”, giornale diretto dal critico letterario Giuseppe De Robertis (1888-1963), ex esponente del giornale “La Voce”. Quest’anno ultimata la stampa della prima edizione dei Canti Orfici, l’autore si recò a Firenze a più riprese, vendendo le copie per le strade e ai frequentatori dei caffè. Nell’autunno del 1914 componeva il Canto proletario italo-francese, pubblicato nel novembre ’14 sul foglio goliardico bolognese Il cannone e poi nel 1916 sulla rivista “La Riviera ligure” di Mario Novaro (1868-1944). A dicembre era a Torino, da dove venne rinviato a Marradi dalla polizia. All’inizio della primavera del ’15 ritornò nuovamente a Torino e poi, attraverso Domodossola, raggiunse quindi Ginevra dove lavorò come operaio straordinario, presso il Comitato delle società italiane fino al 6 maggio, quando fu licenziato. Rientrato in Italia, ormai scesa in guerra, cercò di farsi arruolare, ma venne riformato all’Ospedale militare di Firenze. Campana accusò il colpo, che ufficialmente lo condannava alla sua infermità: nei mesi successivi fu preso da altri malesseri e da una crescente irrequietezza. Dopo la pubblicazione dei Canti, continuò a scrivere: Bastimento in viaggio, Arabesco-Olimpia, Toscanità.
Si trasferì nell’aprile del 1916 a Lastra a Signa, presso il padre. Qui durante l’estate conobbe la scrittrice Sibilla Aleramo (1876-1960, vero nome Rina Faccio) che si recò da lui dopo aver letto i suoi scritti. Si innamorarono, anche se i loro sentimenti durarono solo fino all’inverno dell’anno successivo: ne rimangono testimonianze nella raccolta delle Lettere, raccolte e pubblicate a cura di N. Gallo (Carteggio con Sibilla Aleramo, Vallecchi, Firenze, 1973).
Lei conobbe il pittore e incisore Giovanni Costetti (1874-1949) per il quale aveva posato nel 1913 per un ritratto e fu in buoni rapporti con Primo Conti (1900-1988), di cui resta una piccola corrispondenza dell’aprile 1918 con Raimondi circa il ricovero del comune amico poeta a San Salvi (Firenze) e poi a Castelpulci presso Scandicci (Firenze).
Campana dopo questa parentesi venne arrestato a Novara, nel settembre del 1917, per vagabondaggio ed in quanto scambiato per una spia tedesca (venne liberato dopo che riuscì a prendere contatto con la Aleramo che non lo vedeva già da vari mesi); poi il 12 gennaio 1918 venne ritenuto necessario ricoverarlo all’Istituto fiorentino di osservazione per le malattie mentali.
Del suo viaggio a Novara Piemonte rimangono tracce in una sua poesia ove parla de “la Torre di San Gaudenzio”.

L’ospedale e la morte

Il 28 fu trasferito all’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Badia a Settimo, da cui non uscì più. Della lunga degenza sappiamo soprattutto quanto narrò il dottore Emilio Pariani, il suo medico curante per un certo periodo. Pare Campana non fosse sempre tranquillo, alternasse momenti di aggressività e di confusione mentale. “Fallacie sensoriali o solo rappresentative, ossia percepite come idee immesse da altri, generano e rafforzano i deliri”. Si adattava però al trattamento riservato ai più umili fra i ricoverati, mostrava occasionalmente di conservare coscienza di ciò che era stato. Nel 1928, quando apparve una nuova edizione dei Canti Orfici, curata dall’amico e poeta Bino Binazzi (1878-1930), rilevò i difetti e le modificazioni apportate rispetto all’originale. Nel novembre 1931 manifestò un netto miglioramento, ma la speranza del ristabilimento era effimera infatti nel febbraio 1932 ebbe una ricaduta. Verso la fine del mese fu preso da una forte febbre, originata probabilmente da setticemia. Morì così il 1° marzo 1932. Venne dapprima sepolto nel cimitero di S. Colombano a Badia a Settimo (Firenze).

Post mortem

Nel 1937 Carlo Bo ravvivò l’interesse sui Canti di Campana pubblicando in “Letteratura” un saggio a lui dedicato e nel quale studiava i Canti, saggio intitolato Dino Campana e nel 1937 lo psichiatra Carlo Pariani pubblicò una raccolta delle interviste che gli aveva fatto quando era internato.
In seguito all’invito per una sistemazione più degna per la sua salma, lanciato nel 1938 dallo scrittore Piero Bargellini (1897-1980) dalle pagine della sua rivista Frontespizio (1929-1940), nel 1942 la sua salma fu collocata Chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo (Scandicci), ai piedi del campanile romanico e dopo le distruzioni avvenute durante della seconda guerra mondiale, fu risistemata sotto il pavimento della ricostruita navata. Nel 1946 venne posta anche una lapide nella navata della chiesa con il suo nome e l’indicazione “Poeta”[11]Foto della tomba e della lapide commemorativa., infine il 20 agosto 1954 nel suo comune natale gli venne intestata una via[12]Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, pag.30..
Dopo la sua morte, nel 1942 E. Falqui curò la pubblicazione di una raccolta di Inediti, edita a Firenze da Vallecchi, in seguito sempre Falqui, nel 1973, curò una raccolta dell’opera del poeta, edita da Vallecchi, con il titolo di Opere e contributi, da cui però erano escluse il Fascicolo Marradese Inedito, pubblicato l’anno prima a cura di F. Ravagli dalla Vallecchi e Il più lungo giorno.
Alla sua figura e alla sua vita sono stati dedicati anche alcuni film italiani, come primo rilevante omaggio si può citare il film del 1985 che il regista Luigi Faccini ha dedicato a Campana ed intitolato Inganni (di cui assieme a Sergio Vecchio è autore sia del soggetto che della sceneggiatura), pellicola che ha vinto due Nastri d’argento l’anno successivo[13]Inganni 1985. Oltre a questo sono stati realizzati nel 1997 Il più lungo giorno, diretto da Roberto Riviello, sceneggiatore assieme a Nino Marino, ed infine, nel 2002, Un viaggio chiamato amore diretto da Michele Placido, sceneggiatore assieme a Diego Ribon e Heidrun Schleef, incentrato sulla sua relazione con Sibilla Aleramo.

Canti Orfici

Nel giugno 1914 Campana a Marradi, grazie a quarantaquattro sottoscrittori ed ai suoi amici, in particolare Luigi Bandini (1892-1952) che effettuò un versamento di 110 lire[14]Fondazione Primo Conti, si accordò con il locale tipografo Bruno Ravagli per la stampa dei Canti Orfici.
Quest’opera, i cui versi e prose liriche vennero composti a partire dalla fine del 1912, ebbe una certa circolazione nel mondo culturale toscano e venne recensita molto positivamente dal suo amico e pittore Costetti sul giornale pistoiese “La Tempra” nel 1915, qui scrisse:

Il volume di Dino Campana Canti Orfici, di cui sto parlando, non mi sta fra mano. Io l’ho letto da circa un mese. È dunque diventato per me ‘un ricordo’ ma appunto perché tale, perché ricordo vivo, suggestivo, io sento di occuparmene. Io lo vedo sotto un’atmosfera unica, ma complessa, nella sua unità spirituale, lo vedo nostalgico e vibrante. La sua luce è come quella delle albe fosche bianchicce e soavi. Le forme sono fantastiche come le fa l’alba, e i rumori lontani come nel sogno. La musica invade il poema che è pieno di colori – la musica è nelle parole commosse, nelle immagini nuove – nei magnificati profondi – la pittura è tutto.

Il Campana riproduce sempre il ricordo delle cose, cioè le cose nel loro velo di pensosità. Essa è viva e moderna, e la si vede, attraverso le parole sincere e le immagini sintetiche, varia sonora come i bronzi vibranti musicalmente. L’A. ha l’occhio di un impressionista, ma tende contrariamente all’impressione che disfà i corpi per il trionfo della luce, a invigorire i corpi pure mettendo un velo nostalgico nell’atmosfera. Egli adopera molto i viola e i bleu i bianchi. Vene la notte viola il sonno bleu, evita nelle ombre i neri le terre e crea così una sensibilità trasparente e fresca, e davanti alle sue visioni noi sentiamo che il suo mondo pure essendo il vecchio ha la sensibilità nuova che ce lo ringiovanisce e ce lo trasfigura.[15]Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.584-585.

Questo nome dell’opera di Campana riprende nel termine “Canti” la tradizione leopardiana, questo si spiega con il desiderio dell’autore di puntare “sull’elemento nuovo, immaginifico, appunto cantabile, della poesia”; il termine “Orfici” invece si riferisce al “contesto di poesia e di mistero, di canto profano e di canto religioso, che aveva contraddistinto il culto di un personaggio mistico come Orfeo”[16]Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.194.. Il concetto di Orfico era stato rilanciato da poco nel mondo artistico-culturale, nel 1912 durante una conferenza svoltasi a Parigi ad opera di Apollinari, su Le règne d’Orphée commence, questi aveva lanciato il nuovo movimento artistico chiamato “cubismo orfico” (orfico fa riferimento anche al concetto di mistico, magico, segreto).
Campana, nella prima pagina della prima edizione aveva deciso di inserire nel frontespizio il sottotitolo in tedesco “Die Tragödie des letzten Germanen in Italien”, con la dedica “A Guglielmo II imperatore dei germani l’autore dedica”[17]Per Campana “il «Germano» è l’elemento volontaristico e virile che si oppone a quello materno e sessuale, «mediterraneo».”, I poeti del Novecento..
Campana vendette lui stesso la prima edizione nei caffè letterari “Paskosvki” e le “Giubbe Rosse” a Firenze, e “San Pietro” a Bologna.
La scelta del sottotitolo, oltre a testimoniare il suo essere un poliglotta (conosceva le lingue francese, inglese, tedesco e spagnolo in maniera sistematica), verrà spiegata in una sua successiva lettera inviata il 13 marzo a Cecchi in cui scrisse:

Ora io dissi: Die tragödie des lezten germanen in Italien, mostrando di aver nel libro conservato la purezza del germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)”. Così invocavo giustizia contro la brutalità secolare clericale …[18]Comi, Pontzen (a cura di), Italien in Deutschland – Deutschland in Italien, pag.306.

Questa però è solo una delle spiegazioni, un’altra che fornì Campana a posteriori, ben più prosaica, è che lui desiderava vendicarsi di quegli “idioti di Marradi […] il farmacista, il prete, l’ufficiale postale”[19]Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.196. che si lamentavano per la guerra tedesca e le sue barbarie.
Asor Rosa interpreta invece questa dedica attribuendole una valenza molto più autobiografica, ovvero come un segno di stima per il filosofo che Campana non vedeva come il filosofo del superuomo, della volontà di potenza, ma:

dell'”eterno ritorno”, del “dover essere quel che si è”, [Campana] volutamente e provocatoriamente, aveva voluto essere “non italiano”: barbaro in patria […] nemico di tutti quei delinquenti che gli avevano fatto sparire il manoscritto, l’unico suo bene.[20]Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.196.

L’opera Canti orfici, raccolta di componimenti poetici e di prose liriche – “prosa e versi sono sullo stesso piano come nelle Illuminations”[21]Contini, La letteratura italiana: Otto-Novecento, pag.189. di Rimbaud -, viene portata a termine nell’autunno del 1913 in una prima stesura dal titolo Il più lungo giorno, comprende ventidue componimenti, parte in prosa (le “novelle poetiche”), parte in poesia, cui vanno aggiunti altri sei componimenti, inseriti dal Binazzi nell’edizione del ’28 e definitivamente portati a dieci dal Falqui nella sezione della raccolta da lui intitolata Versi sparsi, in cui confluiscono i suoi componimenti che cercano, secondo Ferroni, di “scatenare nella poesia […] una volontà anarchica e distruttiva: mira a sconvolgere gli equilibri della comunicazione borghese e a creare folgorazioni, lampi improvvisi, immersioni nel fondo più oscuro e rovinoso di una realtà ‘notturna'”[22]Ferroni, Storia della letteratura italiana 4: Il Novecento, pag.245..
In quest’opera si colgono “molteplici influssi, da quelli derivanti dai poeti maledetti francesi (in particolare da Rimbaud) ad altri di matrice futurista, mentre non mancano tracce di un’eccentrica conoscenza dei classici, da Dante a Goethe, sino alla triade Carducci, Pascoli, d’Annunzio”[23]Battistini, Letteratura italiana, pag.390., in generale la sua poetica la si può ricondurre al “simbolismo magico, spesso associato con quel culto del primitivo, che ha Campana veniva da Nietzsche e da D’Annunzio, con il recupera del mito come realtà più vera di quella che sperimentiamo nella vita quotidiana.”[24]Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.345-346..
La storia del manoscritto dei Canti si concluse nel 1971 quando Valeria Soffici, figlia di Ardengo Soffici, ritrovò il manoscritto affidato da Campana a Papini e Soffici e ritenuto perduto da quest’ultimo. La notizia del ritrovamento venne data da Mario Luzi il 17 giugno 1971 sul “Corriere della Sera” in un articolo intitolato: Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana[25]Il testo integrale dell’articolo è consultabile al seguente indirizzo: Mario Luzi: Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana. Il documento era stato trovato mentre venivano riordinate le carte di Soffici, morto nel 1964, nella sua casa di Poggio a Caiano. La versione originale, scritta su un quadernetto del Settecento in carta antica filigranata, era ancora intitolata Il più lungo giorno. L’opera venne poi venduta all’asta presso Christies: il valore stimato era tra i 180.000 e i 200.000 euro ma alla fine l’opera è stata venduta per €213,425[26]http://www.christies.com .
Nel 1973 questo libretto fu anche pubblicato in edizione anastatica in due volumi, con il titolo Il più lungo giorno, dall’editore Vallecchi a cura di D. De Robertis e con una introduzione di E. Falqui.

Opere consultabili on-line

Canti Orfici
Contro le «industrie del cadavere». Dino Campana nel carteggio inedito Falqui-Vallecchi (Laura Piazza)

Bibliografia

AA.VV, Letteratura italiana: Dizionario bio-bibliografico e Indici, Torino Einaudi, 1990
Asor Rosa Alberto (a cura di), Letteratura italiana del Novecento: bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000
Asor Rosa Alberto, Storia europea della letteratura italiana III. La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009
Asor Rosa Alberto (Diretto da), Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992
Battistini Andrea (a cura di), Letteratura italiana Dal Settecento ai giorni nostri Volume 2, Bologna, il Mulino, 2014
Carlino Marcello, Muzzioli Francesco, La letteratura italiana del primo Novecento: 1900-1915, Roma, NIS, 1986
Comi Anna, Pontzen Alexandra (a cura di), Italien in Deutschland – Deutschland in Italien, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 1999
Contini Gianfranco, La letteratura italiana: Otto-Novecento, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1992
Cudini Piero, Breve storia della letteratura italiana Il ‘900, Milano, Bompiani, 1999
Fortini, Franco, Poeti del Novecento, Roma, Donzelli, 2017
Jacobbi Ruggero, Invito alla lettura di Campana, Milano, Mursia, 1976
Santarone Donatello (a cura di), I poeti del Novecento, Firenze, Donzelli, 2021
Turchetta Gianni, Dino Campana: biografia di un poeta, Feltrinelli, Milano, 2003

Sitografia

Scheda del film: Un viaggio chiamato amore
Scheda del film: Il più lungo giorno
Scheda del film: Inganni

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References

References
1 Versioni digitalizzate dei documenti e delle foto della vita di Dino Campana sono disponibili su: Immagini della sua vita
2 Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.25.
3 www.dinocampana.it
4 Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.46.
5 Turchetta, Dino Campana: biografia di un poeta, pag.41.
6, 9 Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.193.
7 Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.580.
8 www.christies.com
10 Carlino Marcello, Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, pag.234.
11 Foto della tomba e della lapide commemorativa.
12 Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, pag.30.
13 Inganni 1985
14 Fondazione Primo Conti
15 Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.584-585.
16 Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.194.
17 Per Campana “il «Germano» è l’elemento volontaristico e virile che si oppone a quello materno e sessuale, «mediterraneo».”, I poeti del Novecento.
18 Comi, Pontzen (a cura di), Italien in Deutschland – Deutschland in Italien, pag.306.
19, 20 Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, pag.196.
21 Contini, La letteratura italiana: Otto-Novecento, pag.189.
22 Ferroni, Storia della letteratura italiana 4: Il Novecento, pag.245.
23 Battistini, Letteratura italiana, pag.390.
24 Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento, pag.345-346.
25 Il testo integrale dell’articolo è consultabile al seguente indirizzo: Mario Luzi: Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana
26 http://www.christies.com

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