Discorso di Benito Mussolini di Modena del 29 settembre 1921 ai funerali dei fascisti uccisi
Non mai come in questa giornata di pianto e di gloria io ho sentito, con mortificazione, le deficenze del mio spirito.
Oggi vorrei assommare e armonizzare in me le divine facoltà dei poeti, per salutare con un epicedio queste superbe giovinezze stroncate da un’oscura e premeditata tragedia.
Il fato, nella sua tristezza, supera le mie possibilità oratorie. Vi parlerò da soldato, poiché questi che caddero appartenevano alla milizia migliore del nostro esercito; e da uomo pensoso non della sua, ma dell’altrui umanità.
Quale onda di commozione mi ha sopraffatto stamani quando ho visitato le salme raccolte nel sonno che non ha risveglio e quando i feriti, con elevatissimo morale di guerrieri e di martiri confessori di una fede, mi hanno accolto con un «alalà!» che mi ha scosso l’animo sino nelle più intime fibre.
E c’erano fra di loro i giovinetti imberbi, dai lineamenti gentili, le primavere sacre del nostro sangue latino, i virgulti schietti della nostra razza immortale; e c’era anche un uomo nella piena maturità degli anni, che ha visto cadere mortalmente ferito il figlio ed era magnifico di coraggio e di serenità.
Non un lamento, non un rimpianto è uscito dalle labbra dei nostri feriti. C’è in loro l’orgoglio del buon volontario che è lieto di consacrare col sangue la purezza della sua fede.
L’eccidio dell’altra sera è ricco di gravi insegnamenti. I nostri avversari sanno ora che quando c’è un pericolo da correre, un rischio da affrontare, una responsabilità da assumere, i capi dal fascismo sono al loro posto.
Se il malcostume degli avversari fosse anche il nostro, nessuno dei dirigenti il fascismo modenese sarebbe rimasto colpito.
Oggi tutta l’Italia guarda a Modena e non credo di commettere peccato se aggiungo che si attende con ansia ciò che io dirò.
Mi pare di sentire un coro anonimo di mille e mille voci levarsi dalle città, dai borghi, dai casolari e invocare ulna parola di pace. Noi che non siamo dei barbari, ascoltiamo questo grido di pace. La terra, dal 1914 ad oggi, ha bevuto tante lacrime e tanto sangue, che nessun uomo degno di questo nome può pensare senza raccapriccio che questo orrore continui.
Ma se pace; la pace vera, si vuole, che cosa significa questo rinnovato, diabolico accanimento antifascista cui assistiamo?
Non pace sincera vi può essere sino a quando i fascisti saranno chiamati sicari, assassini, assoldati, compagnie di ventura; sino a quando saranno additati come l’oggetto dell’odio e della vendetta popolare.
Oh, la tragedia non è locale, ma è nazionale. I protagonisti sono più numerosi, la scena è vasta quanto il territorio della nazione.
Io affermo qui, io che non ho risparmiato le critiche più acerbe a talune manifestazioni del movimento fascista, che il fascismo è nel suo insieme uno dei movimenti più disinteressati, più spiritualistici, più idealistici, più religiosi che conosca la storia italiana ed europea.
Erano dunque sicari di qualcuno, difensori di qualche cosa – di un uomo o di un interesse, di una casta o di un privilegio – questi giovani che prima di sigillare le labbra per sempre hanno mormorato, negli spasimi dell’agonia, il grido di «Viva l’Italia!»?
No. Per questi giovani che sono caduti, per gli altri che rimangono, l’Italia non è la borghesia o il proletariato, la proprietà privata o la proprietà collettiva. L’Italia non è nemmeno quella che governa o sgoverna la nazione e non ne intende quasi mai l’anima. L’Italia è una razza, una storia, un orgoglio, una passione; una grandezza del passato, una grandezza più radiosa dell’avvenire.
Con questa fede, per questa fede, voi siete morti; per questo voi siete andati alla morte, come alle «braccia di arridente sposa».
E noi siamo venuti qui, da ogni parte d’Italia, a rendervi onore. I tremori dei nostri avversari sono vani. Nessun tumulto, nessuna violenza deve turbare né turberà la manifestazione odierna, l’estremo onore. I nostri inni echeggiano dalle nostre fanfare. I nostri «alalà!» si levano solenni in questo dolce cielo di settembre. Li sentite voi? Forse. Certo.
L’ondata formidabile dei nostri spiriti deve incontrare, scaldare i vostri che non sono morti.
Squillano le note di Giovinezza, l’inno della vita; ma voi, tra poco, scenderete nella terra negra. Per voi, o cari morti, stasera le stelle non avranno più brividi d’infinito; il sole di domani non avrà più splendori; nelle vostre famiglie si sentirà stasera il vuoto terribile che dà l’estrema dipartita e le lacrime amare cadranno nel silenzio.
Salve, oh morti dilettissimi. Noi non vi dimenticheremo. I vostri nomi rimarranno scolpiti nel nostro cuore profondo. Finché un solo fascista ci sarà in Italia, egli trarrà da voi l’esempio e l’auspicio.
Verrà giorno in cui il nostro esercito invitto e invincibile strapperà la definitiva vittoria. Allora, o fratelli di Modena, o fratelli caduti di altre città, un fremito improvviso farà sussultare i vostri resti mortali. Converremo allora alle vostre tombe di precursori e di avanguardie a sciogliere il voto della riconoscenza e della fede.
In nome dei cinquecentomila fascisti d’Italia, vi porgo l’estremo addio.