Discorso di Mussolini del 2 dicembre 1942

Discorso alla Camera di Mussolini del 2 dicembre 1942

Ultimo discorso alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni

Categoria: Fascismo

Vi è ben nota, o camerati, la mia riluttanza a parlare anche in tempi che comunemente si chiamano di pace o normali. Questo dipende da una mia convinzione, che cioè, su cento casi, ci si pente settantacinque per aver parlato, venticinque soltanto per aver taciuto. In secondo luogo è mia convinzione che in tempo di guerra, quando parla con la sua voce potente il cannone, meno si parla e meglio è. In ogni caso bisogna parlare per i consuntivi e raramente per i preventivi.
Questa mia convinzione si rafforza davanti a questa guerra, che ha ormai assunto proporzioni che si potrebbero dire cosmiche, tanto sono universali; guerra che scavalca continuamente le parole, guerra che essendosi dilatata enormemente nello spazio, si è naturalmente e proporzionalmente allungata nel tempo.
Io mi compiaccio che il popolo italiano non mi abbia sollecitato troppo di frequente alla tribuna, perché il popolo italiano, che è certo uno dei più intelligenti della terra, se non il più intelligente, non ha bisogno di troppe bande propagandistiche, specialmente di una propaganda che non sia straordinariamente intelligente. Tuttavia, dopo diciotto mesi di silenzio – siamo ormai entrati nel trentesimo mese di guerra – io ho la vaga impressione che buona parte del popolo italiano abbia il desiderio di riudire la mia voce.
Il mio di oggi non vuole essere quindi un discorso, ma piuttosto un rapporto politico-militare, più militare che politico. Sarà quindi un discorso di diti, di cifre, di fatti, sarà in altri termini il consuntivo dei pruni trenta mesi di guerra. Non è il discorso che mi riprometteva di pronunciare nella ricorrenza del ventennale. D’altra parte il ventennale è stato celebrato nel migliore dei modi, rievocando, per tutti, anche per gli immemori o smemorati, quello che il regime ha fatto durante venti anni di opera. Un’opera gigantesca, che è destinata a lasciare tracce indelebili per tutti i secoli nella storia italiana.
Abbiamo celebrato il ventennale con un’amnistia famosa, che ha spalancato le porte delle carceri a circa cinquantamila individui e che ha liberato dal confino anche i cosiddetti «politici», prova di forza del regime. Finalmente, il complesso delle provvidenze sociali, che in tempi diversi avrebbero sollevato un’andata di grande entusiasmo, perché effettivamente noi in questo settore siamo all’avanguardia di tutti gli Stati, nessuno escluso.
Gli eventi principali di questi diciotto mesi, che vanno dal 10 giugno 1941 ad oggi, sono i seguenti: la guerra contro la Russia, l’intervento in guerra del Giappone, lo sbarco degli angloamericani nell’Africa del Nord.
La potenza militare della Russia non è stata una sorpresa per me, se non limitatamente al punto di vista che vorrei dire qualitativo. Nel 1933 o 1934 lo Stato Maggiore italiano ricevette dallo Stato Maggiore russo l’invito di mandare una commissione per assistere alle manovre dell’Armata rossa, che si svolgevano nei dintorni di Mosca. Io colsi l’occasione per mandare una commissione, che era presieduta dal generale Francesco Saverio Grazioli, uomo di indiscussa preparazione professionale e dotato di un acuto spirito di osservazione. Quando egli ritornò, mi fece un rapporto molto elaborato, che io lessi con la più grande attenzione e che mi convinse che c’era qualche cosa di nuovo ad Oriente e che l’Esercito rosso era ormai cosa ben diversa da quelle truppe raccogliticce che sotto le mura di Varsavia, nel 1920 si fecero battere da truppe non meno raccogliticce di polacchi e francesi. Qualche anno dopo, una visione cinematografica, che io mi feci ripetere a ritmo rallentato per meglio esaminarla, di una parata bolscevica sulla piazza del Cremlino a Mosca, mi diede la convinzione che ad Oriente ormai si era formato un potente Stato, strettamente militarista, che aveva ormai rinunciato alla rivoluzione internazionale fatta attraverso le singole rivoluzioni nazionali, ma voleva estendere la rivoluzione nel continente e nel mondo attraverso la forza delle sue baionette.
Era quindi necessario, a mio avviso, che l’Asse si garantisse le spalle. Ed è mia convinzione profonda che l’epoca fu scelta con chiaro discernimento. Se si fosse tardato oltre, gli avvenimenti avrebbero potuto avere uno svolgimento ben diverso.
Noi siamo così obiettivi da riconoscere che il soldato russo si è battuto bene, ma si è battuto molto meglio il soldato tedesco, che ha battuto il soldato russo. Bisogna riconoscere che solo un Esercito come quello tedesco e solo il Corpo di spedizione italiano in Russia, diventato oggi Armata italiana in Russia, potevano superare la prova di un inverno che non aveva avuto l’eguale in centoquaranta anni.
Oggi la Russia ha perduto i suoi territori più fertili, più ricchi di materie prime, ha perduto da ottanta a novanta milioni di abitanti. Quei territori ci permettono di vedere il futuro dal punto di vista delle materie prime e dal punto di vista alimentare con maggiore fiducia.
Posso affermare che gli aiuti angloamericani, sino a questo momento, sono stati quanto mai esigui. E sintomatica cosa è questa: che i russi non hanno mai voluto che il loro suolo fosse calpestato da un soldato americano o inglese. Non credo che qui si debbano indagare i misteri della cosiddetta psicologia russa o slava o orientale che dir si voglia.
Non vi è il minimo dubbio, a mio avviso, che in questa gigantesca partita, che deve creare la nuova Europa e stabilire i confini fra Europa e Asia, la vittoria decisiva e definitiva non può che arridere alle armi dell’Asse.
Se vi è un uomo nel mondo che ha voluto diabolicamente la guerra, quest’uomo è il Presidente degli Stati Uniti d’America. Le provocazioni che egli ci ha inflitto, le misure che egli ha preso contro di noi, l’opera della sua propaganda, il tutto dimostra che quest’uomo, il quale pure aveva fatto una sacra promessa alle madri americane che i loro figli non sarebbero mai andati a morire oltre i confini degli Stati Uniti, quest’uomo ha voluto deliberatamente la guerra.
Naturalmente, il Giappone non poteva aspettare che fossero gli Stati Uniti i primi a sparare. Questa è una cavalleria dei vecchi tempi, dato che sia mai esistita. E quindi il Giappone ha fatto benissimo a non aspettare l’ultima ora ed ha inflitto ai tracotanti americani quella tremenda sconfitta, che oggi impone agli stessi americani una giornata di lutto e di silenzio.
Ora, l’intervento del Giappone nella guerra del Tripartito è una garanzia assoluta di vittoria, perché il Giappone è irraggiungibile ed imbattibile. Tutte le posizioni inglesi nell’Estremo Oriente sono crollate come castelli di carta. Si è dato questo caso singolare nella storia: che il Giappone, in pochi mesi, da paese povero come noi, è diventato se non il primo in ricchezza fra i paesi del mondo, certamente fra i primi. Ebbene, bisogna riconoscere che ciò è giusto, ciò è il premio alla sua virtù. Sono materie prime di cui si arricchisce il Giappone, sono materie prime di cui si impoveriscono i nostri nemici. E non passa giorno senza che l’orgoglio degli americani sia colpito, sia frantumato.
Dove sono oggi i profeti americani che pensavano di liquidare il Giappone in tre settimane o al più in tre mesi? Evidentemente non conoscevano nulla della forza militare del Giappone e soprattutto della sua intima struttura morale, per cui, in quel paese, l’imperatore ha non dico l’autorità ma la dignità di un dio, ed i soldati che muoiono in guerra sono deificati. È veramente difficile di battere un popolo che ha in sé risorse morali di questa natura.
Terzo avvenimento: lo sbarco degli angloamericani nell’Africa del Nord, ovverosia la tragicommedia dell’«attesa». Veramente nella vita non è sempre un privilegio quella di vedere al di là del colle: ma anche questo era facilmente prevedibile. Le informazioni non mancavano, la comunella tra ufficiali americani in borghese e ufficiali francesi in divisa era evidente. Tutti in Francia erano «attendisti», cioè stavano, e forse stanno ancora, e forse più di prima, alla finestra.
Lo sbarco non è stato niente di glorioso, perché è avvenuto con la complicità degli invasi. Né ho mai dato importanza alcuna alle parole d’onore, alle troppe parole di onore che si sono scambiate. Finalmente, quando le cose giunsero al loro epilogo, con lo sbarca dell’8 novembre, io feci sapere a Berlino che la misura da prendere, immediata, necessaria, indispensabile, era l’occupazione di tutta la Francia, Corsica compresa.
Il Fuhrer ed io volemmo, credere ancora una volta ad una ennesima parola d’onore: quella dell’ammiraglio che comandava la flotta a Tolone. Volemmo credere. Ad un certo momento erano così palesi le prove che si meditava la fuga della flotta ed il suo incontro con la flotta inglese, la quale per ben due volte si era affacciata tra le Baleari e la Sardegna, che anche in questo caso non c’era più di un minuto di tempo da perdere: bisognava occupare Tolone e sventare il pericolo. Il che è stato fatto.
La propaganda anglosassone infiora di particolari inesistenti l’episodio. Non c’è stato da parte francese nulla di eroico, perché i morti contati sono due e diciassette i feriti. Il disarmo dei reparti dell’Esercito e di quelli dell’Aviazione è avvenuto in perfetto ordine; tra quella che si potrebbe chiamare l’atonia morale di tutto il popolo francese.
In concomitanza con la ripresa offensiva sul fronte di El Alamein (questa è stata l’unica vittoria fin qui che la Gran Bretagna possa registrare), sono cominciati i bombardamenti contro le città italiane. A proposito di questi bombardamenti, darò ora delle cifre esatte. E ne rispondono il sottosegretario all’Interno per l’esattezza delle cifre dei caduti, il ministro dei Lavori pubblici per l’esattezza dei danni subiti. Dò queste cifre per dimostrare che talune notizie che hanno circolato erano esagerate, e per dimostrare che gli inglesi hanno soprattutto bombardato i quartieri civili delle nostre città.
A Milano, le case distrutte completamente sono trenta, le danneggiate gravemente quattrocentoundici, le danneggiate lievemente millenovecentotredici; totale delle colpite duemilaquattrocentoquattordici.
A Torino, le case distrutte completamente centosessantuno, gravemente danneggiate ottocentosettantaquattro, danneggiate lievemente duemilacentonovantacinque; totale delle case colpite tremiladuecentotrenta.
A Savona, case distrutte completamente sei, danneggiate lievemente novecentosettanta, danneggiate completamente quarantaquattro; totale delle case colpite milleventi.
A Genova, case distrutte completamente centottantasette nel centro e duecentotrè nell’intero comune, danneggiate gravemente nel centro millesei e nell’intero comune quattromilaottocentosessantanove; totale delle case colpite cinquemilasettecentossantadue nel centro e nell’intero comune seimilacentoventuno.
Abbiamo deciso che le case totalmente distrutte tali rimangono fino alla fine della guerra. Le altre, più o meno gravemente danneggiate, saranno ricostruite e rimesse in ordine.
Il numero totale dei morti e dei feriti fra la popolazione civile, a seguito di incursioni aeree e di bombardamenti navali del nemico, dal principio della guerra a tutto il 30 novembre 1942, XXI, sale a morti milleottocentottantasei e feriti tremilatrecentotrentadue, dei quali ottocentotrentotto morti e novecentonovantaquattro feriti dal 23 ottobre ad oggi. In questi ottocentotrentotto morti sono compresi quelli della galleria cosidetta delle Grazie, a Genova.
Questo vi dimostra ancora una volta che noi abbiamo il culto della verità. Noi lasciamo agli americani e agli inglesi il culto della menzogna. Siamo in diritto di esigere che nessun italiano ponga in dubbio menomamente che quanto dicono i nostri bollettini è assoluta verità. Siamo l’unico paese in guerra che pubblichi gli elenchi nominativi delle sue perdite e lo facciamo per un duplice motivo: per dimostrare che quelle sono le perdite, non uno di più, non uno di meno; e anche per sottrarre all’anonimo questi figli d’Italia che cadono combattendo.
I caduti di tutte le Forze Armate italiane nei primi trenta mesi di guerra sono quarantamiladuecentodiciannove; dei quali dell’Esercito trentaseimilaseicentodiciannove, della Marina duemilacentosessantotto, dell’Aria nullequattrocentoventidue.
I feriti sono ottantamilasettecentoquarantacinque dell’Esercito, tremilacinquecentonovantanove della Marina, milleseicentoventi dell’Aria.
I prigionieri sono duecentocinquantaduemilasettecentosettantotto, di cui duecentoquindicimilacinquecentododici dell’Esercito, dodicimiladuecentoquarantotto della Marina, cinquemilanoventottantadue dell’Aria.
I dispersi sono in totale trentasettemilasettecentotredici, di cui venti cinquemilanovecentoventitrè dell’Esercito, diecimilatrecentonovanta della Marina, duemiladuecento dell’Aria. Quando si parla di dispersi il nostro sentimento oscilla fra il timore e la speranza. Passato qualche tempo, bisogna riconoscere che questi dispersi devono essere considerati fra i caduti.
Durante questo periodo di tempo, secondo l’Ufficio statistica operativa del Supermarina, il naviglio affondato dai nostri mezzi della regia Marina sale a centosessantasette unità, per un tonnellaggio complessivo di un milionecluecentoquindicimilaottocentoventuno tonnellate.
Il naviglio da guerra nemico affondato dai mezzi della regia Marina sale a centoquaranta unità, per un complesso di trecentotrentatremilanoveceritosessantolto tonnellate.
Le navi da guerra nazionali affondate dal nemico sono centosessantadue, per un complesso di duecentoventisettemiiacentottantadue tonnellate. Noi abbiamo denunziato tutta ciò nei nostri bollettini. Ma agli affondamenti compiuti dalla regia Marina bisogna aggiungere quelli che sono stati effettuati dalla regia Aeronautica.
La regia Aeronautica ha affondato sessantadue navi da guerra di vario tipo, fra cui venti incrociatori e diciotto cacciatorpediniere, ed ha affondato centodiciassette navi mercantili, per un complessa di ottocentoottantaduemilatrecentotrenta tonnellate.
Quanto alle forze aeree nemiche, ecco i dati: gli apparecchi certamente abbattuti (noi siamo di una estrema prudenza: prima di dire che un apparecchio è abbattuto, molte volte io esigo la fotografia) sono milleottocento, probabili settecentotredici, distrutti al suolo certi trecentonovantatrè, probabili centonovanta.
I prigionieri di guerra che sono nelle nostre mani presentano questi dati: inglesi in Italia, ufficiali generali ventuno, ufficiali di vario grado duemilatrecentosettantasei, sottufficiali e truppa trenta duemilasettecentoquarantasette. Altri sono in viaggio, per cui il totale ascende a queste cifre: ufficiali generali ventuno, ufficiali di vario, grado duemilaquattrocentododici, sottufficiali e truppa trentanovemilaottantanove.
Questi sono i veri inglesi nati nel Regno Unito. Poi ci sono tutte le altre nazionalità, per cui si arriva a questi totali: ufficiali generali ventinove, ufficiali di vario grado quattromilatrè, sottufficiali e truppa sessantanovemilacentosessantasette.
Questi prigionieri sono trattati da noi secondo le regole della legge internazionale. Possiamo dire noi altrettanto dei nostri prigionieri in mano nemica?
Mi duole di dover creare qualche disillusione nelle famiglie di coloro che hanno figli prigionieri, ma la verità deve essere detta, e la verità è questa: che, salvo in talune zone, il trattamento che gli inglesi fanno ai prigionieri italiani è quasi ovunque inumano. Ecco una lettera recente:
«Oggi ho ricevuto una lettera da mio padre, il quale mi dice che vostro figlio è stato fatto prigioniero dagli inglesi. Il vostro caro figlio era gravemente ferito al piede e non poteva camminare. Un soldato inglese gli sparò un colpo alla nuca uccidendolo. La cosa è ben triste. Ho conosciuto vostro figlio, era un bravo ragazzo.
Siamo milleduecento in una località che è inutile di citare. Siamo senza scarpe, senza vestiti, senza medicinali. Trattare bene i prigionieri inglesi è il peggiore insulto che si possa fare ai combattenti italiani prigionieri. Hanno vigliaccamente sparato più volte da fuori dei reticolati. Ufficiali inglesi hanno bastonato più volte ufficiali italiani. Efferatezze incredibili sono state commesse su noi e persino sugli ammalati, feriti e mutilati.
Fame e stenti; buttati come merce vile nelle stive e carri bestiame. Ufficiali di ogni grado ed età costretti a portare il bagaglio della truppa inglese ed anche di quella di colore».
Ed ora devo leggere tutto:
«Gli inglesi sono maledetti, ma più maledetti sono gli italiani che li trattano bene».
E vengo ad uno degli scopi del mio discorso.
Il primo ministro inglese ha pronunciato domenica scorsa alla radio un discorso, in gran parte destinato all’Italia. Egli pensava che noi non lo avremmo fatto conoscere. Niente affatto. Lo leggo io oggi. Lo leggo nella parte che riguarda il popolo italiano ed anche in quella che riguarda me personalmente. Churchill ha detto:
«Il nuovo fronte aereo che gli americani e la R.A.F. stanno creando lungo le coste mediterranee deve dare abbondantemente nuove possibilità nel 1943. Le nostre operazioni nell’Africa Settentrionale Francese devono permetterci di portare il peso della guerra sull’Italia fascista in modo mai finora sognato dai capi colpevoli e ancor meno dal disgraziato popolo italiano, che Mussolini ha portato ad essere sfruttato e coperto di disgrazie.
Già centri dell’industria bellica dell’Italia settentrionale sono stati assoggettati ad un trattamento più duro di quello esperimentato da alcune delle nostre città nell’inverno del 1940. Ma se a tempo debito il nemico verrà espulso dalla punta tunisina, com’è nostro scopo, tutta l’Italia meridionale, tutte le sue basi navali, tutte le sue fabbriche belliche e tutti gli altri obiettivi militari, ovunque situati, saranno assoggetati ad attacchi aerei prolungati, scientifici ed annientatoci.
Spetta al popolo italiano, ai suoi quaranta milioni (bisogna aggiornare questo signore: siamo quarantasei milioni) dire se vuole o meno che una cosa tanto terribile accada al loro paese».
Questo discorso deve essere preso sul serio. Già da gran tempo io non ho più illusioni, e forse non le ho mai avute, sullo stato di civiltà del popolo inglese. Se voi strappate agli inglesi l’abito col quale prendono il tè alle cinque, voi troverete il vecchio primitivo barbaro britanno con la pelle dipinta a vari colori e che fu domata dalle legioni veramente quadrate di Cesare e di Claudio.
Cinquanta generazioni non bastano a cambiare profondamente la struttura interna di un popolo. Soltanto, nel frattempo, su questo sedimento primitivo è stata spalmata la vernice, ipocrita nelle loro mani, della Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento.
Ora non si deve più parlare di un fronte interno o esterno. C’è un fronte solo che ha diversi settori, e, secondo la buona regola militare, anche il settore del fronte interno deve effettuare il suo scaglionamento in profondità.
Nel 1938, cinque anni or sono, io dissi: non aspettate le ore dodici; cominciate a disperdervi per le nostre belle campagne. Ma si direbbe che accade a me qualche volta come a quei poeti che sono più citati che letti, più ascoltati che seguiti. Bisogna sfollare le città, soprattutto dalle donne e dai bambini; bisogna organizzare lo sfollamento definitivo o semidefinitivo.
Tutti coloro che possono sistemarsi lontano dai centri urbani e industriali hanno il dovere di farlo. Poi bisogna organizzare gli esodi serali, in modo che nella città, di notte, restino soltanto i combattenti, cioè coloro che hanno l’obbligo civico e morale di rimanere. Sarà allora più facile fare in misura sufficiente dei ricoveri più resistenti di quello che già non siano gli attuali, per i quali abbiamo speso centinaia e centinaia di milioni, e che, se colpiti in pieno, non possono resistere alle bombe dei massimi calibri.
Questa è la parte che dirò negativa della difesa centro le incursioni. Poi, c’è la parte positiva. Non sarà mai abbastanza perfezionata. Sono lieto di poter comunicare che la Germania ci darà un potente contributo di artiglierie, per cui le nostre, insieme con quelle tedesche, faranno agli aeroplani nemici l’accoglienza che meritano.
Ma lo scopo di questo discorso di Churchill è quello di impressionare il popolo italiano. La tesi è questa: noi siamo una razza dura e forte, ma questi italiani, così vibratili, così sensibili, avranno essi la capacità di resistenza necessaria? Ora io rispondo: sì.
Fino a prova contraria io mi rifiuto nella maniera più assoluta di credere che il popolo italiano sia di una tempra inferiore a quella del popolo inglese o del popolo russo; e se questo fosse, noi dovremmo definitivamente rinunciare alle nostre speranze di diventare un grande popolo.
Roma è stata vittoriosa dopo Zama, ma è stata grande dopo Canne. Non dico che nelle nostre vene corra tutto il sangue che correva nelle vene degli antichi romani; ma è certo che non siamo il popolo nelle vene del quale scorre la maggior parte del sangue che scorreva nelle vene degli antichi romani. E lo dimostreremo.
Quindi terremo duro. Questo ci viene imposto dal dovere, dall’onore e dalla dignità.
Ora vi leggo la parte che mi riguarda:
«Un uomo, e un uomo soltanto, ha portato il popolo italiano a questo punto».
Veramente io dovrei oggi essere alquanto fiero di venire riconosciuto un antagonista dell’impero britannico e di avere portato con me in questo antagonismo il popolo italiano.
«Esso – prosegue il discorso di Churchill – non aveva necessità di entrare in guerra, ché nessuno si accingeva ad attaccarlo».
Allora. Ma lo vorrei sapere se il primo ministro inglese ha mai interpellato il popolo inglese per sapere se voleva o no la guerra e se avrebbe il coraggio di interpellare oggi il popolo inglese per sapere se vuole che la guerra sia prolungata all’infinito.
Perché questa è la democrazia: manca al suo scopo nei momenti supremi. Allora non si interpella più il popolo sovrano, allora non si parla più di elezioni e di «referendum». Il popolo viene inquadrato nei ranghi e deve obbedire.
«Tentammo del nostro meglio per indurlo a restare neutrale e godersi la pace e la prosperità, doni eccezionali in un mondo in tempesta».
Se fossimo rimasti neutrali, a parte il disonore, saremmo ora nella più spaventosa delle miserie, perché è evidente che nessuna delle due parti si sarebbe preoccupata di aiutarci.
«Ma Mussolini non poté resistere alla tentazione di pugnalare alla schiena la Francia prostrata e quella che egli credette una Inghilterra senza speranza».
Ora bisognerà parlare, una volta tanto, di questa famosa pugnalata. Era prevista l’entrata dell’Italia in guerra al 5 giugno. Era la mia data, quella che io avevo stabilito, e fu il Quartiere generale germanico che ci pregò, per motivi di carattere tecnico sui quali oggi è inutile insistere, di protrarre l’intervento al 10 giugno. Nessuno pensava che la conclusione della guerra in Francia fosse così rapida, meno di tutti forse lo stesso Churchill, che pochi mesi prima aveva ammirato a Parigi la sfilata dell’Esercito francese per il 14 luglio e lo aveva proclamato l’Esercito più potente e brillante del mondo. Ma il collasso fu plebiscitario. E d’altra parte, quando noi attaccammo, l’Armata delle Alpi era intatta, quasi intatta l’Aviazione e soprattutto intatta la Marina, il che è molto importante in una guerra che si deve svolgere nel Mediterraneo.
E poi: ammettiamo un momento, per amore di polemica, che noi abbiamo inferto questa pugnalata alla Francia. Essa sarebbe una sola di fronte alle cento pugnalate che la Francia ha inferto alle spalle dell’Italia in tanti secoli di storia, da quando i Galli furono a Talamone fino a Mentana.
Churchill continua:
«II suo (di Mussolini) sogno pazzesco di gloria imperiale, la sua brama di conquiste e di bottino, l’arroganza senza confronti della sua tirannide, lo condussero a quel gesto vergognoso e fatale. Invano lo ammonii. Non volle discutere, senza eco rimase in quel cuore di sasso il saggio appello del Presidente americano».
Ora dice «cuore di sasso», ma se io avessi accolto l’appello del Presidente americano, avrebbe detto nel suo interno: che «cuore di stucco».
«La sua natura di iena superò ogni limite di decenza e di buon senso».
Si dice che questo signore sia discendente di una famiglia ducale e che abbia molto sangue azzurro nelle vene. Nelle mie vene scorre invece il sangue puro e sano di un fabbro. E in questo momento io mi sento infinitamente più signore di quest’uomo, dalla cui bocca fetida di alcool e di tabacco escono così miserabili bassezze.
«Oggi il suo impero è andato».
Non è detta ancora l’ultima parola. Io so che non v’è un solo italiano che non voglia rivivere la primavera del 1936.
«L’agonia attanaglia l’infelice terra italiana. Che cosa possono gli italiani contrapporre a ciò? Una breve passeggiata, col permesso dei tedeschi, lungo la riviera; una visita fugace alla Corsica; una lotta sanguinosa contro i patrioti eroici della Iugoslavia; fasti di imperitura vergogna in Grecia; rovine a Genova, Torino e Milano».
Ora, non deve essere permesso a nessuno, e quindi meno che a tutti al primo ministro britannico, di mettere minimamente in dubbio il valore e l’eroismo dei soldati italiani. I camerati germanici sono i primi ad attestarlo. Quando il soldato italiana, di terra, di mare e di cielo, è bene guidato ed è bene armato, per il suo coraggio, per la sua resistenza ai disagi, per la sua intelligenza, non teme confronti coi migliori soldati del mondo.
«Un uomo e il regime che egli ha creato hanno portato queste incommensurabili calamità al popola italiana, laborioso, geniale ed un tempo felice».
Il popolo italiano non è mai stato felice. Il popolo italiano è il grande popolo sconosciuto. Nessuno lo conosce. Ne hanno afferrato i tratti superficiali, estemporanei, ma la sua intima, profonda essenza di popolo che ha vissuto la più grande tragedia, è ignota a questo pubblico di gente che viene col «vademecum» e che afferra della nostra vita soltanto gli aspetti più appariscenti. È un popolo che non ha mai avuto pane a sufficenza. E tutte le volte che noi abbiamo cercato di farci un po’ di posto nel mondo, abbiamo sempre trovato le vie sbarrate: non solo le vie sbarrate all’Italia fascista, ma all’Italia pura e semplice, fosse anche l’Italia di Di Rudini, di Giovanni Giolitti o di Orlando. Non si vuole l’esistenza di una Italia che nutra sogni di grandezza: si vuole un popolo italiano che sia piacevole, divertente, servizievole. Questo è il sogno che cova nell’animo degli anglosassoni.
Alla fine, questo signore dice che fino al giorno dell’avvento di Mussolini «il mondo di lingua inglese ebbe tanta simpatia per il popolo italiano».
È una menzogna, una turpe menzogna. Chi è stato il primo ad introdurre nella legislazione le discriminazioni razziali? Fu l’arcidemocratica Repubblica stellata. Furono gli Stati Uniti a creare per primi la discriminazione fra europei e italiani, e, come se ciò non bastasse, fra italiani e italiani, tanto che dovevano essere esclusi dall’immigrazione perfino i liguri, questa razza che mille anni prima di Cristo aveva dato la civiltà a tutto il sud-occidente europeo. Ragione per cui se oggi Colombo sbarcasse in America, sarebbe respinto, sarebbe posto in quarantena.
E Churchill conclude:
«Fino a quando durerà tutto ciò?».
Rispondo nella maniera più solenne e categorica: durerà fino alla vittoria ed oltre.
Scrive Carlyle, lo storico inglese:
«Sta di fatto che tutto quello che il nostro Governo e noi facciamo e di cui parliamo non è che un tessuto di menzogne, di ipocrisia e di formalità consunte. Nessuna razza umana, da Adamo in poi, è stata vestita di cenci così sporchi di menzogne come la nostra. Ma noi li portiamo in giro orgogliosi e superbi come una veste sacerdotale o un manto regale. Un inglese non deve mai dire la verità. Ecco l’opinione generale. Da duecentoventi anni l’Inghilterra vive di menzogne di ogni genere, dalla testa ai piedi è avvolta da una ipocrisia tradizionale conce le onde dell’oceano».
Ed il poeta Byron, il 16 aprile 1820, prima di morire a Missolungi, mi pare di malaria, scriveva da Venezia al sua amico Morrey:
«Gli inglesi sono la razza più miserabile che ci sia sotto la cappa del ciclo. Hobbouse è partito per Napoli ed anche io vi sarei andato per una settimana, se non avessi saputo del gran numero di inglesi che vi soggiornano. Preferisco vederli con una certa distanza e soltanto una eruzione straordinaria del Vesuvio potrebbe rendermi tollerabile la loro presenza. All’infuori dell’inferno non conosco altre dimore dove potrei restare insieme con loro. Spero che a nessuno verrà l’idea di costringermi un giorno a tornare in Inghilterra. Sono persuaso che le mie ossa non avrebbero pace nel suolo inglese. Le mie ceneri non potrebbero mescolarsi con la terra di quel paese. Anche se agissero così bassamente da far portare il mio cadavere in quel suolo, i suoi vermi non avranno il mio corpo, se potrò evitarlo».
Così gli inglesi, quando sono fuori del loro paese, giudicano se stessi. E in verità basta aprire e sfogliare i volumi della storia britannica di questi ultimi tre secoli per trovare una abbondantissima collezione di iene in sembianza umana. Se vi è un paese che meriti simili appellativi, se vi è un paese che ha sguinzagliato iene su tutti gli angoli della terra, per bere il sangue di intere generazioni, per lucrare tutte le ricchezze prime, per rubare tutto l’oro, questo paese è l’Inghilterra.
Gli italiani hanno forse dimenticato l’abbiezione dell’ammiraglio Orazio Nelson, che impiccò sull’albero di trinchetto della «Minerva» l’ammiraglio napoletano Caracciolo dopo averlo tradito? Hanno dimenticato che i fratelli Bandiera furono fucilati perché il Governo inglese, il quale censurava le lettere di Mazzini, comunicò al Governo borbonico che questi prodi patrioti erano sbarcati in territorio calabro? Hanno dimenticato che nel 1859 l’Inghilterra, a proposito dei suoi aiuti durante il Risorgimento italiano, minacciò di bombardare Genova se il Piemonte insieme alla Francia avesse dichiarato guerra all’Austria?
Signori!
Non si fa la guerra senza odiare il nemico. Non si fa la guerra senza odiare il nemico dalla mattina alla sera, in tutte le ore del giorno e della notte, senza propagare quest’odio e senza farne l’intima essenza di se stessi. Bisogna spogliarsi una volta per tutte dai falsi sentimentalismi. Noi abbiamo di fronte dei bruti, dei barbari. Roma, che pure era clemente dopo la vittoria, era spietata quando si trattava dell’esistenza del popolo romano.
Bisogna quindi reagire con la massima energia a tutte le tendenze che vorrebbero illanguidire il nostro spirito, fornendo la falsa immagine di un popolo italiano capace soltanto delle cose leggiadre. Se c’è un popolo che è stato durissimo durante i secoli dell’alto medioevo (purtroppo eravamo durissimi fra di noi), questo è il popolo italiano. E solo dopo la caduta della Repubblica fiorentina, della gloriosa Repubblica fiorentina (ma ci fu anche allora una quinta colonna, capitanata da Malatesta Baglioni), incomincia il pericolo della imbellicosità degli italiani, escluso il Piemonte. Da allora, fra Arcadia, balletti e canti, si è diffuso nel mondo il luogo comune di un’Italia che deve occuparsi soltanto di pennelli, scalpelli e strumenti musicali. Io vi dirò una cosa che vi stupirà, un paradosso, forse una eresia. Ebbene, io preferirei di avere in Italia meno statue, meno quadri nei musei, e più bandiere strappate al nemico.
II popolo italiano d’oggi è ammirevole in tutti i suoi ceti, da quello della aristocrazia a quello della gente più minuta. Non si può chiedere di più al popolo italiano. Non si possono chiedere manifestazioni di entusiasmo in misura continuativa. Io vorrei, veramente, conoscere quel popolo che, durante questa guerra, dia manifestazioni continuative di entusiasmo. L’entusiasmo è un momento lirico nella vita d’un individuo ed è un momento lirico necessariamente raro nella vita di una nazione. Se conoscessi un individuo che fosse entusiasta dalla mattina alla sera e in tutte le sue funzioni, io comincerei a dubitare della sua salute mentale.
Il popolo italiano lavora, è disciplinato, non ha mai compiuto un atto alcuno di sabotaggio. Non c’è stato mai nessun accenno di dimostrazione contro la guerra. Solo una donna, non ne faccio il nome, perché non ne vale la pena: forse le si farebbe troppo onore (è vero che c’è chi distrusse il tempio di Diana in Efeso per essere tramandato alla storia) solo una donna a Genova, dico, ha gridato che voleva la pace. Io trovo che questo suo desiderio non aveva nulla di disumano. Si è poi constatato che essa era munita alle dita di abbondanti anelli, per cui si può pensare che appartenesse a quel ceto che ai tempi dei Ciompi di Firenze veniva chiamato il popolo grasso. Ma tutte le donne italiane sono meravigliose, lo si può ben dire, di disciplina e di virtù civica. Sono veramente la grande, la inesauribile riserva vitale e morale della nazione.
La disciplina di questo popolo non può certamente essere intaccata da quelli che noi chiamiamo «i portatori di bacilli». In una nazione che ha quarantasei milioni di abitanti, ci sono diversi temperamenti, c’è tutta una sfumatura di possibilità morali. Ci sono anche quelli che hanno il sistema nervoso delicato, complesso, malato; e naturalmente appartengono alla categoria di chi vede sempre nero, che si fascia la testa non prima di averla rotta, ma prima che ci sia la lontana minaccia che qualcuno gliela rompa. Questa gente in fondo è innocua, crede in tutto e dimentica tutto.
Io ho un fascicolo intitolato «Documentario della stupidità umana», ed ivi sono raccolte tutte le voci che giungono a voi ed a me. Non ricordate, ad esempio, prima del raccolto, la «settimana degli eroi»? Per una settimana intera il popolo italiano non avrebbe dovuto mangiare pane e avrebbe dovuto fare questo sacrificio in omaggio all’eroismo dei nostri soldati. Ad un certo momento venne invece fuori la voce che bisognava ospitare chi diceva duecento, chi seicento, un milione, due milioni di tedeschi evacuati dalle città bombardate. (Si direbbe quasi che i termini sono capovolti….). Infine la sera in cui decisi lo sbarco in Corsica presi una misura d’ordinaria amministrazione: bloccai i telefoni. Allora si sparse immediatamente una voce: quel signore, che in questo momento ha l’onore di parlare dinanzi a voi, era defunto sotto il coltello di un maldestro operatore (il quale poi certamente avrebbe detto che l’operazione era perfettamente riuscita, anche se il malato fosse stato di parere diverso), non aveva resistito.
Dappertutto il popolo italiano, al quale non dobbiamo chiedere quello che già esso dà spontaneamente, cioè la sua disciplina, la sua comprensione, il suo spirito di sacrificio, il popolo italiano è pienamente consapevole della necessità di questa guerra.
Questa non è soltanto una guerra necessaria, è una guerra che io proclamo sacrosanta e dalla duale non potevamo, in nessun modo, esimerci.
La nostra posizione ci impone sempre di scegliere: o si va con gli uni quando si vuole risolvere il problema delle nostre frontiere continentali, o si va con gli altri quando si vuol risolvere il problema delle nostre frontiere marittime. Un grande popolo come l’italiano non può rimanere in bilico. Ed è un orgoglio per noi partecipare a questa lotta di giganti, destinata a trasformare geograficamente, politicamente, spiritualmente il mondo.
Anticipazioni sul futuro non amo farne. In genere parlare di obiettivi di pace è un fuor d’opera. Lasciamo queste esercitazioni ai nostri nemici. Si può soltanto osservare che essi fanno delle economie circa i «punti»: da quattordici li hanno ridotti a quattro. È qualcosa. Ma l’esperienza della volta scorsa ci deve insegnare. Credo che siano pochi quelli fra noi che non andarono a vedere Wilson quando venne in Europa. Sembrava un messia. Lo proclamammo persino cittadino di Roma. Poi quest’uomo se ne andò in America. Non volle più aderire a quella Società delle nazioni che egli aveva costituito. Non volle più officiare nel tempio che aveva edificato, e questo fu forse il tratto più intelligente della sua vita. Finché un giorno si seppe che era stato ricoverato in una clinica di riposo per malattie nervose, termine puritano per non dire, come diremmo noi, gente volgare, manicomio.
Anche gli obiettivi, in questo dilatarsi della guerra, gli obiettivi di carattere territoriale e politico hanno perduto alquanto della loro importanza. Oggi sono in gioco i valori eterni. È in gioco l’essere o il non essere. Oggi è veramente in atto la formidabile lotta fra due mondi. Mai la storia dell’umanità ha visto spettacolo simile, spettacolo del quale noi siamo fra i grandi protagonisti.
Il compito dell’ora è unico e solo: combattere. Combattere insieme coi nostri alleati, combattere fianco a fianco con la Germania. Il cameratismo tra noi e i tedeschi diventa ogni giorno più profondo, diventa un modo di vita comune. Siamo abbastanza affini e abbastanza dissimili per comprenderci, per reciprocamente stimarci, per fondere insieme tutte le nostre energie, dato che la causa è unica.
Non si possono più fare distinzioni: non le fanno i nostri nemici. Essi vogliono distruggere il fascismo e sotto questo nome comprendono tutto il movimento della gioventù europea, comprendono il nazionalsocialismo, comprendono il fascismo nostro, comprendono il falangismo, comprendono gli Stati e i popoli che si sono liberati dalle ideologie degli immortali principi.
Nessuno si fa illusioni su quella che sarebbe la «pax britannica». La «pax britannica» sarebbe una Versaglia moltiplicata per cento. I britanni fanno questa guerra ad uno scopo solo: vogliono ridurre il globo nello stato in cui oggi è l’India. Vogliono che l’umanità intera lavori per dare un secolo di tranquillità ai britanni. Vogliono un mondo di schiavi per garantire al popolo inglese le sue cinque quotidiane digestioni.
Ora, camerati, bisogna combattere per i vivi, combattere per il futuro, ma anche per i morti. Bisogna combattere perché il sacrificio dei nostri morti non sia vano; non sia vano il sacrificio di quelli che caddero durante la guerra etiopica, durante la guerra di Spagna, durante la guerra attuale. Trentaquattromila fascisti, tra cui millecinquecento gerarchi.
Essi, i morti, ci comandano con voce imperiosa di combattere sino alla vittoria. Noi obbediamo.

/ 5
Grazie per aver votato!

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *