Discorso di Pavia di Mussolini, 23 novembre 1918

Discorso di Pavia di Benito Mussolini del 23 novembre 1918

Nessun nemico interno od esterno può diminuire la vittoria d’Italia, perché luminosa e decisiva, perché già suggellata coi caratteri propri di storia mondiale.
Ma mi permetterete di intessere qui innanzi a voi l’elogio del popolo italiano, non perché io cerchi i vostri applausi, ma perché io penso che sia venuto il momento di dire anche dure verità…
Noi siamo arrivati al culmine della nostra storia di popolo italiano. Noi interventisti della prima ora, noi che nel maggio del 1915 scendemmo in piazza e prendemmo questa Italia che pareva intorpidita nella lusinga del «parecchio» giolittiano, noi prendemmo questa Italia pei capelli e le imponemmo questo grande dovere…
Oggi il popolo italiano è più grande. Se Wilson ci diede l’attributo di «grande popolo italiano» gli è perché ce lo siamo conquistato durante 4 anni di guerra. Il popolo italiano si diceva non avrebbe resistito a 3 mesi di guerra, invece in 4 anni ha dato prova di tenacia e valore ammirabili.
Oggi che la vittoria nostra è decisiva, si sente qualcuno che va mormorando che non è dovuta al sacrificio dei nostri soldati, ma bensì all’Austria stessa. Ciò è falso. Il 24 ottobre avevamo davanti un esercito formidabile, e ben precisò Diaz nel suo ultimo bollettino di guerra, la proporzione delle forze. La nostra vittoria ci è costata del sangue e noi non dobbiamo limitarla al 24 ottobre soltanto, ma ai 4 anni di guerra. Noi al momento buono abbiamo potuto dare il colpo decisivo: non permettiamo a nessuno di menomare la vittoria italiana o di diffamarla.
Siamo ora in un momento delicatissimo della nostra vita nazionale. La nostra guerra aveva obbiettivi sacri. Noi li abbiamo raggiunti: le nostre bandiere sono a Trento, Trieste, Fiume, Zara, e ci rimarranno. Là ci sono italiani che hanno spasimato di amore per noi, ci sono italiani che sono per noi saliti sulla forca. Nazario Sauro è istriano. Dove consacrazione più solenne del diritto italico in questi paesi? L’Adriatico è necessario all’Italia, ora la missione degli italiani è nel Mediterraneo.
Gli obbiettivi nazionali sono adunque raggiunti. Ma noi che volemmo la guerra abbiamo altre ragioni da far valere. Coloro che hanno avute le carni straziate parlano di guerra con venerazione. Se noi scendiamo nel sacrario della nostra coscienza possiamo dire che il nostro sacrificio non fu vano. Sono crollati gli imperi; l’Austria non esiste più, non si sa nemmeno più ove sia Carlo I. La macchina del militarismo tedesco è spezzata. Il Kaiser è in Olanda, ma gli inglesi non gli permettono di darsi alla pazza gioia. I neutrali ci hanno già resi pessimi servigi e ce ne darebbero altri più grandi se tenessero il Kaiser sotto la loro protezione. Intanto negli imperi centrali scoppiano troppo facilmente le repubbliche. Non dobbiamo troppo illuderci sulle trasformazioni politiche che avvengono in Germania. Non vorrei che gli italiani versassero lagrime per gli assassini, perché essi sono ancora quelli del Lusitania, del Belgio, ecc., e non si può facilmente dimenticare ciò che essi hanno fatto anche negli ultimi momenti. Un fatto solo è accertato: dove esisteva la macchina più grande del militarismo umano, si parla ora di repubblica.
Io credo che questo periodo di passaggio tra la guerra e la pace non verrà contrastato da disordini. È necessario essere soprattutto disciplinati e avere il senso della responsabilità. La nostra situazione dal punto di vista politico è buona come una grande Italia lo richiede. Ma si è aperto il Parlamento e il popolo italiano è ancora deluso. Tutte le volte che si apre, un senso di disgusto si spande per tutta l’Italia perché i deputati sono semplicemente preoccupati del loro collegio elettorale.
Le classi lavoratrici hanno contribuito alla vittoria e hanno diritto nella vittoria. L’enorme massa dei soldati è costituita da lavoratori dei campi. Quelli che sono stati in guerra, che hanno vissuto la guerra, che sono andati all’assalto, rappresentano i migliori cittadini, gli eletti, e sono quelli che hanno tutti i diritti di governare l’Italia. Se qualche vile è rimasto e si è arricchito, il soldato che torna dalla guerra lo deve disprezzare e odiare.
Le classi lavoratrici italiane hanno il merito della vittoria, e allora se ne deducano nuovi doveri e nuovi diritti da prendere in considerazione. Non c’è il proletariato, anzi questa parola va sostituita con quella di «produttori». Un conto è combattere un partito e un conto è proletariato sano che lavora. Ci sono produttori borghesi e proletari, come ci sono eroismi collettivi ed individuali.
Tutte le volte che la massa operaia reclama il suo diritto alla vita, ha ragione. Il lavoro sino ad oggi è stato impregnato da questi attributi: fatica e miseria. Chi lavora dieci ore al giorno deve per forza abbrutirsi. Cominciando a diminuire la giornata di lavoro è, secondo alcuni, dare mezzo e occasione per l’operaio di ubriacarsi. Ma se gli darete in mano dei libri, allora non si assisterà al fenomeno dell’abbrutimento. Dove vi sono orari eterni si delinea il fenomeno dell’abbrutimento fisico e morale.
Tutti sono interessati a produrre. Sarebbe pazzesco voler pretendere di raccogliere senza seminare. Il proletariato non deve recidere la pianta per toglierle il frutto. La fama turpissima di fannulloni ormai non esiste più per noi. Quando i nostri meravigliosi italiani sono andati all’estero e hanno fatto cose prodigiose lo hanno dimostrato. Quando avremo prodotto sarà possibile dire alla borghesia di far parte del proletariato. Anche le masse lavoratrici devono partecipare al congresso della pace. Non si tratta soltanto di sistemare e tutelare, si tratta soprattutto di costruire un edificio che non abbia più a crollare e come ho detto, non devono essere esclusi dal congresso i rappresentanti del lavoro. Il lavoro deve essere rappresentato perché quelli che erano in trincea erano lavoratori. Là si discuterà di molte cose, e perché devono essere assenti quelli che hanno dato il più vasto contributo di sangue?
Quattro sono i postulati che la classe operaia deve declamare. La Patria non è una frase poetica: l’Italia è una realtà, è qualche cosa che canta in noi. Non possiamo e non dobbiamo essere antipatrioti. Bisogna amare la Patria, amarla come si ama la madre. Se vi potessi leggere il testamento dei nostri morti, che sono morti gridando: «Viva l’Italia!», essi vi insegnerebbero questo amore. Il nostro popolo non conosce questa grandezza romana. Bisogna elevare la cultura delle masse lavoratrici.
Dell’Italia non si tratta di grandezza morale. I problemi fondamentali della nostra vita nazionale sono dieci o dodici. Bisogna eliminare sopra tutto due nemici: l’alcool e la tubercolosi. Vi deve essere pure un rinnovamento interno. I tre o quattro milioni di uomini che tornano dalle trincee devono vedere l’Italia col suo Parlamento intero. Bisogna loro presentare l’Italia nuova, e tutti quanti hanno sabotato la guerra, devono essere spazzati via come un castello di carte. Bisogna fare in modo che questa trasformazione debba essere fatta con ordine e che l’Italia possa realizzare i frutti della sua vittoria.


Il vostro giornale reca questa frase: «La Patria non si nega, ma si conquista». La Patria è nella lingua, nei costumi, e la Patria bisogna conquistarla col lavoro e colla sobrietà. L’Italia di domani deve essere grande soprattutto pel lavoro. Solo così sarà ricca, forte, in pace col mondo civile.

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