Dispaccio alle legazioni sull’occupazione di Marche e Umbria

Dispaccio del Presidente del Consiglio Cavour alle Legazioni presso le corti europee sulla occupazione delle Marche e dell’Umbria del 12 Settembre 1860

La pace di Villafranca, assicurando agli Italiani il diritto di disporre delle loro sorti, ha posto le popolazioni di parecchie provincie del nord e del centro della penisola in grado di sostituire a governi soggetti all’influenza straniera, il governo nazionale del Re Vittorio Emmanuele.
Questa grande trasformazione si opero con un ordine ammi.
rabile, e senza che alcuno dei principii sui quali riposa l’ordine sociale fosse posto in pericolo. Gli avvenimenti che si compierono nell’Emilia e nella Toscana hanno provato all’Europa che gli Italiani, lunge dall’essere sconvolti da passioni anarchi che, altro non chiedevano se non d’essere retti da istiluzioni libere e nazionali. Se questa trasformazione avesse potuto estendersi a tutta la penisola, la quistione italiana sarebbe a quest’ora pienamente sciolta. Lunge dall’essere per l’Europa una causa di timori e di pericoli, l’Italia sarebbe oggimai un elemento di pace e di conservazione. Sfortunatamente la pace di Villafranca non potè abbracciare se non una porzione dell’Italia. Essa lascio la Venezia sotto la dominazione dell’Austria, e non produsse alcun mutamento nell’Italia meridionale e nelle provincie rimaste sotto la dominazione temporale della Santa Sede.
Noi non abbiamo intenzione di trattare in questo luogo la quistione della Venezia. Ci basterà il rammentare che fintantochè quella quistione non sarà risolta, l’Europa non potrà godere di una pace solida e sincera. Rimarrà sempre in Italia una causa potente di agitazioni e di rivoluzione, che malgrado gli sforzi dei governi minaccierà senza posa di fare scoppiare nel centro del continente l’insurrezione e la guerra. Ma quella soluzione bisogna sapere attenderla dal tempo. Per quanta sia la simpatia che a buon dritto inspira la sorte ogni giorno più triste dei Veneti, l’Europa è tanto preoccupata delle incalcolabili conseguenze di una guerra, essa ha un desiderio tanto vivo, un bisogno tanto irresistibile di pace, che sarebbe cosa poco saggia il non rispettare la sua volontà. Non è cosi delle quistioni relative al centro ed al mezzogiorno della penisola.
Fedele ad un sistema tradizionale di politica che non fu meno fatale alla sua famiglia di quanto lo sia stato al suo popolo, il giovane Re di Napoli, fino dal suo avvenimento al trono, si pose in opposizione flagrante coi sentimenti nazionali degli Italiani, non meno che coi principii che reggono i paesi civili. Sordo ai consigli della Francia e dell’Inghilterra, rifiutando perfino di seguire i consigli che gli venivano dati da un Governo, del quale egli non poteva mettere in dubbio nè l’amicizia costante e sincera, nè l’attaccamento al principio dell’autorità, egli respinse per un anno intero tutti gli sforzi fatti dal Re di Sardegna per convertirlo ad un sistema di politica più conforme ai sentimenti che dominano nel popolo italiano.
Ciò che la giustizia e la ragione non poterono ottenere, una rivoluzione lo ha falto. Rivoluzione prodigiosa, che fece stupire l’Europa per il modo quasi provvidenziale con che essa si è fatta, e la fece ammirata per l’illustre Guerriero, le gesta gloriose del quale ricordano ciò che di più sorprendente narrano la poesia e la storia.
La trasformazione fattasi nel regno di Napoli, per ciò che si è operata con mezzi meno pacifici e regolari di quella dell’Italia centrale, non è meno di essa legittima; le sue conseguenze non ne sono meno favorevoli a’ veri interessi dell’ordine ed alla consolidazione dell’equilibrio europeo.
Una volta che la Sicilia e Napoli facciano parte integrante della grande famiglia italiana, i nemici dei troni non avranno più un potente argomento a far valere contro i principii monarchici; le passioni rivoluzionarie non troveranno più un teatro, sul quale le più insensate intraprese avevano probabilità di riuscire od almeno di eccitare le simpatie di tutti gli uomini generosi.
Si potrebbe quindi a buon diritto pensare che l’Italia può finalmente rientrare in una fase pacifica, tale da dissipare le preoccupazioni dell’Europa, se le due grandi regioni del Nord e del mezzogiorno della penisola non fossero separate da provincie che si trovano in uno stato deplorabile.
Il Governo Romano, avendo rifiutato di associarsi in checchessia al gran movimento nazionale, avendo all’opposto continpato a combatterlo col più deplorabile accanimento, si è posto da lungo tempo in lotta aperta colle popolazioni, alle quali non è riuscito di sottrarsi dalla sua dominazione.
Per contenerle, per impedir loro di manifestare i sentimenti nazionali dai quali esse erano comprese, esso fece impiego del potere spirituale, che la Provvidenza gli ha affidato per un’oggetto ben più grande di quello assegnato al governo politico.
Presentando alle popolazioni cattoliche sotto colori oscuri e falsi la situazione dell’Italia, facendo un appello appassionato al sentimento, o per meglio dire, al fanatismo che esercita ancora si grande impero su certe classi poco illuminate della società, gli venne fatto di raccogliere danaro ed uomini da tutte le parti dell’Europa, e di formare un esercito composto quasi esclusivamente da uomini estranei non soltanto agli Stati Romani, ma a tutta l’Italia.
Era riservato agli Stati Romani di presentare nel nostro secolo lo strano e doloroso spettacolo di un Governo ridotto a mantenere l’autorità sua sui sudditi col mezzo di mercenari stranieri acciecati dal fanatismo, od animati da lasinga di promesse, che non potrebbero essere tenute se non piombando nella miseria intere popolazioni.
Fatti di tal genere provocano al più alto grado l’indignazione degli Italiani che hanno conquistato la libertà e l’indipendenza. Pieni di simpatia per i loro fratelli delle Marche e dell’Umbria, essi manifestano dappertutto il desiderio di concorrere onde far cessare uno stato di cose, che è un oltraggio ai principii di giustizia e di umanità, che offende vivamente il sentimento nazionale.
Benché esso pure partecipasse a questa dolorosa emozione, il Governo del Re credette tino a questi giorni dovere impedire e prevenire ogni tentativo disordinato fatto per liberare i popoli delle Marche e dell’Umbria dal giogo che li opprime. Ma esso non potrebbe dissimularsi che l’irritazione sempre crescente delle popolazioni non potrebbe essere trattenuta più a lungo, senza ricorrere alla forza ed ai mezzi violenti. D’altronde avendo la rivoluzione trionfato a Napoli, potrebbesi arrestarla alle frortiere degli Stati Romani, ove la chiamano abusi non meno gravi di quelli che hanno attirato irresistibilmente in Sicilia i volontari dell’Alta Italia?
Al grido degli insorti delle Marche e dell’Umbria l’Italia tutta si commosse. Nessuna forza potrebbe impedire che dal mezzo.
giorno e dal nord della penisola migliaia d’Italiani accorressero in aiuto ai loro fratelli, minacciati di disastri simili a quelli di Perugia. Se esso rimanesse impassibile in mezzo a questo commovimento universale, il Governo del Re si metterebbe in opposizione diretta colla Nazione. L’effervescenza generosa, che I fatti di Napoli e di Sicilia hanno prodotto nelle moltitudini, degenererebbe tosto nell’anarchia e nel disordine.
Sarebbe allora possibile, anzi probabile, che il movimento regolare che si è fatto fino a questo punto prendesse subitamente l’indole della violenza e della passione. Per quanto sia grande negli Ilaliani la potenza dell’idea dell’ordine, vi sono tali provocazioni alle quali i popoli più civili non saprebbero resistere. Certamente essi sarebbero più da compassionare che da biasimare, se per la prima volta si lasciassero trascinare a reazioni violente, che produrrebbero le più funeste conseguenze.
La storia ci insegna, che popoli i quali sono oggi alla testa della civiltà hanno commesso i più deplorabili eccessi, sotto l’impero di cause meno gravi.
Ove egli esponesse la penisola a tanti pericoli, il Governo del Re sarebbe colpevole verso l’Italia; ma egli lo sarebbe altresi verso l’Europa.
Egli mancherebbe ai suoi doveri verso gli Italiani, i quali hanno sempre ascoltato i consigli di moderazione che loro ha dati, e che gli confidarono l’alta missione di dirigere il movimento nazionale.
Egli mancherebbe ai suoi doveri verso l’Europa, giacché egli contrasse verso di essa lo impegno morale di non la sciare che il movimento italiano si perda nell’anarchia e nel disordine.
È per adempiere a questo duplice dovere che il Governo del Re, dal momento in cui le popolazioni insorte dell’Umbria e delle Marche gli inviarono deputazioni per invocare la sua protezione, si affrettò di accordarla.
Contemporaneamente egli inviò a Roma un agente diplomatico per chiedere al Governo Pontificio l’allontamento delle le gioni straniere, delle quali esso non potrebbe servirsi per comprimere le manifestazioni delle provincie che sono prossime alla nostra frontiera, senza obbligarsi ad intervenire in loro favore.
Dietro il rifiuto della Corte di Roma di aderire a questa domanda, il Re diede ordine alle sue truppe di entrare nell’Umbria e nelle Marche, colla missione di ristabilirvi l’ordine e di lasciare alle popolazioni libero campo di manifestare i loro sentimenti.
Le truppe regie devono rispettare scrupolosamente Roma ed il territorio circostante. Esse concorrerebbero, se mai ne fosse d’uopo, a preservare la residenza del Santo Padre da qualunque altacco, e da qualsiasi minaccia; giacchè il Governo del Re sapra sempre conciliare i grandi interessi dell’Italia col rispetto al Capo augusto della religione, alla quale il paese è sinceramente affezionato.
Così facendo, egli ha il convincimento di non offendere i sentimenti de’caltolici illuminati, i quali non confondono il potere temporale, di cui la Corte di Roma fu investita durante un periodo della sua storia, col potere spirituale che è la base eterna ed incrollabile della sua autorità religiosa.
Ma le nostre speranze vanno ancora più in là. Noi abbiamo fiducia che lo speltacolo dell’unanimità dei sentimenti patriotici, che si manifestano oggi in tutta l’Italia, ricorderà al Sommo Pontefice che egli fu, alcuni anni sono, il sublime ispiratore di questo grande movimento nazionale. La benda, che consiglieri animati da interessi mondani gli aveano posta sugli occhi, cadrà; ed allora, riconoscendo che la rigenerazione d’Italia sta nei decreti della Provvidenza, egli tornerà ad essere il padre degli Italiani, come non ha mai cessato di essere il padre augusto e venerabile di tutti i fedeli.
Torino, 12 Settembre 1860.
Firmato: C. CAVOUR.

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