Discorso di D’Annunzio a Milano del 1916

Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani – Discorso di D’Annunzio a Milano del 1916

Che l’Italia sia nostra, e non di altri!
2 febbraio 1916

Cittadini, Milanesi, anzi “uomini milanesi”, come direbbe un capitano dei tempi di ferro, è la prima volta che io riparlo dalla ringhiera, dopo la gesta di Ronchi.
La folla rompe in una grande acclamazione.
Uomini milanesi, è la prima volta che io mi ripresento nell’arengo del popolo dopo l’ansia, dopo l’angoscia, dopo la disperazione, dopo l’onta, dopo la gloria di Fiume, dopo quel lungo e crudo sacrifizio che a noi valse il confine giulio.
Una nuova acclamazione sale verso il Comandante.
Non è questa la ringhiera del greve palazzo ungarico, su l’altura che guarda il Carnaro dantesco tagliato in due perché nell’acquisto del vincitore abbia la sua parte il ladrone insolente. Questa è la nobile ringhiera latina, sospesa nel cuore della città animosa e laboriosa, alzata nel cuore di quella Milano che diede il nerbo alla guerra e inarcò tutta la sua potenza alla salvazione della Patria.
Immenso scroscio di applausi.
A questa ringhiera, che per troppo tempo fu muta del Tricolore, muta di quel divino colloquio che il segno d’Italia fa col cielo d’Italia, io stasera vorrei spiegare la vasta bandiera del Timavo, quella che fu chiamata il Làbaro del Fante e il Sudario del Sacrifizio, quella che ripiegata sostenne il capo dell’eroe moribondo, quella che ne avviluppò la salma e ne ammantò il feretro, quella che dopo il battesimo del sangue eroico ricevette il battesimo dell’acqua capitolina, quella che guidò la marcia di Ronchi e la spedizione di Zara, quella che nei giorni della speranza portò il carico dei fiori donati e dei lauri offerti, quella che nei giorni del dolore fu coltre ai miei primi lutti e coltre ai miei ultimi lutti.
Non è presente; e non importa. È un tessuto spirituale; è un tessuto di quel telaio mistico che fece la veste inconsùtile. Gli occhi della fede la vedono. I vostri occhi la vedono.
Eccola. Si spiega al soffio della giustizia, si allarga al vento della libertà, si illumina nella promessa del futuro. Consacrala, anche tu, popolo di Milano. Io te lo chiedo. Essa te lo domanda.
Un grido unanime risponde.
Questa è la sesta delle consacrazioni. E la settima sarà data dall’Italia finalmente consapevole del suo destino, alzata nell’orgoglio delle sue origini e delle sue sorti, armata non tanto delle sue armi quanto delle sue opere, con nella palma della mano la sua Vittoria intera, simile alla guerriera dallo sguardo chiaro nata nel fuoco dell’Intelligenza.
Uomini milanesi, uomini italiani, in ogni grande ora appare un grande segno che la suggella.
Guardate là, in mezzo all’arengo, la figura di Leonardo. Non sembra ingrandita? Non sembra inspirata dal fiato del popolo onde nacque?
È il Vinci, è il nostro Vinci, è l’esemplare della razza perfetta, è il compiuto Sapiente, è il compiuto Artefice, è l’uomo “modello del mondo”.
Ha la fronte nel mistero delle costellazioni, ha le calcagna ben piantate nella terra giusta.
Guardatelo. Sostiene un grappolo di popolo. Un bel grappolo umano s’inserisce nella sua potenza di semidio.
È un’imagine, è un emblema, è un mito. È un ammonimento, è un comandamento.
Eccoci rivolti alla forza della stirpe, alla bontà della stirpe, al cómpito della stirpe.
Ecco che in mezzo al popolo creatore si leva un culmine dell’energia creatrice. Ecco che il popolo sente, in realtà attuale e profonda, come il suo destino sia di là da ciò che si consuma si dissolve e muore. La mèta del suo destino è “ciò che non muore”.
L’acclamazione interrompe il discorso
per qualche minuto.
C’è oggi una Italia che vuol vivere dal ventre, che vuol disconoscere la vittoria, che vuol rinnegare i suoi morti, che vuol corrompere la giovinezza, che vuole imbestiarsi, che vuol pascersi nel chiuso? Ma c’è anche un’Italia che guarda in alto, che mira lontano, che riapprende l’arte romana di assodare le vie e di moltiplicarle e di prolungarle verso tutti gli orizzonti remoti e verso tutte le mète ideali. C’è anche un’Italia che ricorda, che riconosce, che afferma, che lavora, che opera, che aspetta, che patisce e del suo patimento fa il suo coraggio, che ardisce e del suo ardimento fa il suo dovere.
C’è questa Italia?
La folla unanime grida: – Sì! Sì! –
È in voi, è nel vostro cuore, è nella vostra coscienza questa Italia?
La folla grida: – Sì! Sì! –
Oggi non v’è salute fuori della nazione, non v’è salute contro la nazione.
Il lavoro è sterile se non concorra alla potenza della nazione.
Ogni volere, ogni sforzo, ogni tentativo è sterile se non sia subordinato alla legge della nazione.
Non noi respiriamo, ma la nazione in noi respira.
Non noi viviamo, ma la Patria in noi vive.
Tanto noi siamo forti, e tanto la Patria è forte.
Tanto la Patria è grande, e tanto noi siamo grandi.
Sul San Michele i nostri fanti ignoti erano soli col baleno delle loro baionette e con lo sguardo fisso della Patria. Ma lo sguardo fisso della Patria è sul braccio che guida l’aratro, sul braccio che vibra il martello, sul braccio che salpa l’àncora.
Ogni semenza reale, ogni semenza ideale è seguìta dallo sguardo della Patria, è riconosciuta dallo sguardo della Patria, è santificata dallo sguardo della Patria.
Questo oggi per noi è il dogma, più solenne che in ogni altro tempo, mentre intorno a noi, di là dai confini non tutti recuperati, l’inimicizia ci guata e l’ingiustizia ci offende, mentre la vecchia Europa ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e si disonora in ostinati soprusi e in ostinate servitù.
Sono io interprete della vostra fede, Italiani?
Il popolo risponde con un grido ancor più alto.
Il cuore mi trema. Mi sembra di rinnovare stanotte uno di quei grandi colloquii che solevo tenere sotto le stelle del Carnaro col popolo angosciato.
Nel cuore amaro del popolo cercavo la mia verità, nel giusto cuore del popolo trovavo la mia verità.
E allora le stelle impallidivano.
Ma stanotte voi siete sgombri d’angoscia. Dai vostri mille e mille e mille volti veggo raggiare una gioia virile, una maschia allegrezza, che è come l’annunzio luminoso di un proposito severo. Tutte le fronti sono alte. E là, da quel piedestallo, colui che tra gli uomini ebbe la più alta fronte sembra sorridere, egli che non sorrideva se non nelle sue donne e nelle sue madonne, egli che non sorrideva se non per l’anima e per le labbra del suo Precursore.
O fratelli, siete l’unanimità dal fervore innumerevole; siete la concordia dal consenso innumerevole.
Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione.
Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?
Un giorno, laggiù, nel mio eremo di pace senza pace, uno dei miei familiari mi disse d’avere udito un lavoratore della terra nell’osteria torbida vociare contro la nostra santa guerra e contro me malvagio istigatore che non avevo temuto di cacciare nel buio tante vite floride.
Andai a cercare il contadino nel campo, mentre vangava. Mi avvicinai a lui con quella pacata fermezza che disarma l’avversario, e allontana la paura o il sospetto.
Gli dissi: – So quel che hai mormorato contro di me; so quel che hai mormorato contro un sacrifizio che varrà ai tuoi figli, e ai figli dei tuoi figli e a tutta la nostra gente in eterno. La terra, che tu ferisci col tuo ferro, ti rende tanto più bene quanto più profondamente la rompi. Tu m’hai offeso; e io non posso darti se non una parola d’uomo a uomo, una parola di fratello a fratello. Ma credimi: l’acqua d’aprile non giova al tuo campo come il sangue puro dei devoti giova alla Patria. E la tua acqua d’aprile è passeggera, mentre il sangue degli eroi è inesausto. I figli dei tuoi figli se ne ricorderanno, i figli dei tuoi figli lo benediranno. Là, nel piccolo cimitero dove forse hai qualcuno che ti fu caro, c’è una pietra che porta incisa una sola parola: “Resurgo”. È una parola latina, del nostro più alto linguaggio materno. Significa: “Risorgo”. Non c’è monumento funebre, non c’è mausoleo, non c’è obelisco, non c’è piramide che valga quella lapide rozza con quell’unica parola. È l’unica parola che doveva essere incisa sul sepolcro del soldato ignoto: “Risorgo”: perché i nostri morti, i nostri sacrificati, i nostri martiri risorgono ogni giorno, risorgono in ogni ora, risorgono in ogni attimo. Non soltanto vivono, ma vivono e si manifestano nel perpetuo splendore della risurrezione. Comprendi? – Egli forse non comprendeva, ma sentiva. Pareva che il sentimento non gli fosse infuso dalla mia voce ma gli salisse dalla terra fenduta, dalla zolla smossa. Però egli era ancóra troppo opaco perché io potessi vedere in lui rilucere la mia verità.
Ero in quello stato di grazia che mette nelle comunioni umane tanta misteriosa dolcezza, come se veramente ci avvenisse di svolgere per miracolo quel filo della fraternità rimasto attorcigliato alle braccia della Croce. Parlai, parlai; e in un punto mi parve che la parola gli toccasse la cima del cuore.
Allora m’interruppi. E poi soggiunsi: – Non pretendo che tu mi risponda sùbito. Siediti all’ombra di quell’ulivo; e ripòsati; e ripensa a quel che t’ho detto. Intanto io lavorerò per te.
Non volle. Il suo viso era tuttora chiuso come per serrare nelle sue rughe un cruccio che gli sfuggisse. Si rimise a vangare, in silenzio. Allora io presi una zappa che era lì presso; e, poiché son valido e sono paziente, mi misi a lavorare con lui, poco da lui discosto, in silenzio.
Ma sentivo che il suo cuore si gonfiava, come avrei sentito scaturire dal sasso la polla. Cercatore di sorgenti, avevo esplorato la sorgente, trovato la sorgente umana.
Egli cessò di stringere le labbra; e ruppe in un pianto subitaneo, lasciando cadere l’arnese e volgendo verso di me un viso trasfigurato, che parve mi s’imprimesse nel mezzo del petto.
Sul petto mi s’inchinò, sul petto mi pianse, su questo petto fedele, che sempre restò fedele alla sua fede, che rimarrà sempre fedele alla Patria del mio sogno e della mia passione, alla Patria della mia fatica e della mia ansia, alla Patria della mia umiltà e del mio sacrifizio: fedele all’Italia bella, sino alla morte, oltre la morte.
La commozione della folla si esprime in un grido confuso e prolungato. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano.
Se io avessi il dono dell’onnipresenza, vorrei parlare a ogni contadino d’Italia, a ogni operaio d’Italia, a ogni marinaio d’Italia, come parlai a quel povero fratello traviato. Ma ciascuno di voi, il più umile di voi come il più potente, il più semplice di voi come il più sagace, può parlare, deve parlare così.
Non sono undici i portatori della Parola, i facitori della Parola. Sono legioni, sono miriadi.
La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande.
Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa.
La folla erompe in acclamazioni senza fine.
Uditemi. Ascoltatemi, Italiani.
Ascoltatemi, o giovani, amore d’Italia, “primavera di bellezza”.
I nostri padri, quando erano per intraprendere un viaggio avventuroso, solevano recare un’ampolla d’olio del Santo Sepolcro, considerato dai divoti e dai convertiti come tutela contro ogni periglio e come rimedio contro ogni male.
La nazione era al bivio.
La nazione ha interrogato il suo fato e ha scelto la sua via.
La nazione ha intrapreso il suo nuovo cammino.
La grande nazione italiana è in marcia.
Ciascuno di noi, ciascun uomo di buona volontà, porti seco in essenza ideale un’ampolla di sangue dei nostri martiri, che ci illumini nel buio e nel dubbio, che ci sani da ogni pensiero impuro, che ci rinnovi in ogni ora il coraggio, che c’inspiri in ogni ora il sacrifizio, che ci prepari in ogni ora a ben morire, che in ogni alba ci infonda una nuova speranza, che ogni sera evochi su la nostra passione su la nostra miseria su la nostra stanchezza di figli fragili il soffio divino dell’Italia eterna.

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