Educare attraverso i film in Africa

Educare attraverso i film in Africa

Titolo originale: Educando a través del cine en África Autore: Beatriz Leal Riesco

Categoria: Saggi tradotti di Cinema

Indice

Educare attraverso i film in Africa

Ma politicizzare significa aprire la mente, risvegliare la mente, portare la mente nel mondo. È, come diceva Césaire, “inventare anime”. Politicizzare le masse non è, non può essere, fare politica.
Si tratta di cercare di far comprendere alle masse che tutto dipende da loro, che se ristagniamo è colpa loro e che se progrediamo non c’è un demiurgo, che non c’è un uomo illustre responsabile di ogni cosa, ma che il demiurgo è il popolo e che le mani magiche sono solo le mani del popolo.
(…) “Tutto può essere spiegato alla gente a condizione che tuttavia sia disposta, che vogliamo davvero che capiscano”. Queste due citazioni dal saggio Les damnés de la terre, pubblicato nel 1961 solo pochi mesi prima che lo scrittore e rivoluzionario martinicano Frantz Fanon morisse di leucemia, introducono alcuni dei temi guida di questo studio sul ruolo del cinema e del cineasta africano nei processi di liberazione coloniale, nella successiva ricostruzione nazionale e nel futuro ancora da venire.
Fanon lavorava come psichiatra in Algeria e durante la resistenza fu attivo nella lotta tra le file con del FLN.
Les damnés de la terre si erge a punto di riferimento nella giustificazione dell’uso della violenza da parte dei popoli colonizzati nel perseguimento della loro indipendenza, ed è anche decisivo per comprendere il rapporto tra l’intellettuale e il popolo in questo processo.
Questa relazione “organica” dell’intellettuale alla sua classe sociale, come direbbe Gramsci, e le peculiarità africane nella lotta di liberazione, sono centrali nell’analisi anticoloniale di Fanon. La domanda di “come comunicare” con le masse è particolarmente pertinente in questo caso, in quanto la volontà dell’intellettuale di essere coinvolto nella lotta e la conseguente scelta di un linguaggio appropriato che indirizzi ed educhi la società civile in quello che è il suo obiettivo finale: trasformare la società.
Attraverso uno studio storico e teorico contrapposto, intendo dimostrare che come le idee rivoluzionarie fortemente legate all’educazione delle masse, che hanno caratterizzato informato i primi anni di vita dell’Africa sono ancora applicabili oggi, anche se compresi e sfumati all’interno del nostro contesto storico, culturale, politico e sociale.
L’aspirazione all’emancipazione “delle menti e delle mentalità”, basata sui desideri utopici di liberazione e trasformazione sociale, deve continuare a essere l’obiettivo dell’essere umano, pur lasciando dietro di sé sogni innocenti di progresso sociale che la storia ha ripetutamente smentito. Nel 2011 abbiamo vissuto l’esplosione delle rivolte popolari in Nord Africa, battezzate con il nome di “guerra”.
La “primavera araba” e la diffusione del movimento degli indignati in vari Paesi del mondo.
La letteratura critica nei confronti del sistema globale che poco prima era stato liquidato per il suo presunto scollamento con la realtà e il suo tremendismo, è stato recuperato e sollevato dal popolo nelle strade e nelle piazze, dando ragione a Fanon quando affermava che i popoli insoddisfatti e la loro capacità organizzativa rovesciano i governi e i sistemi ingiusti e reazionari.
In questo maremoto di eventi internazionali, alcuni artisti e intellettuali, attraverso il loro singolare rapporto con il linguaggio e la loro posizione all’interno della società civile, si sono fatti portavoce dei loro concittadini, articolando le contraddizioni del presente.
Abbiamo dimenticato in fretta la natura perentoria delle rivolte arabe o delle prime manifestazioni anti-crisi in Spagna, nessuno ci assicura che, con la rapidità con cui gli eventi si susseguono, non sia già in atto un’altra rivolta sociale.
In un presente instabile che ogni giorno dimostra la profonda incoerenza del sistema capitalistico portata all’estremo, le proposte per il futuro provengono dai margini della società, da quei centri (“altri”) in cui la vitalità creativa e l’acuta riflessione dei loro abitanti lasciano disarmati i leader dell’Occidente.
Se, adattandosi alle esigenze contemporanee, i registi continuano a sventolare la bandiera dell’impegno e della ricerca formale come hanno fatto nelle fasi precedenti, giocheranno un ruolo centrale nell’evoluzione della cultura e della politica non solo all’interno del Paese, ma anche all’esterno.

Il cinema in Africa: appunti

Fin dai suoi inizi, registi, politici e intellettuali africani, le tribune accademiche e le nicchie della critica africanista erano pieni di argomenti che rivendicavano l’uso del neonato cinema africano come una delle più potenti armi di cambiamento politico-sociale e di costruzione nazionale
Erano gli anni ’60 e uno dei momenti più convulsi della storia recente dell’Africa: le lotte di liberazione dalle potenze coloniali “legalmente” insediate sul territorio dalla fine del XIX secolo. In poco più di un decennio, la maggior parte dei Paesi che oggi compongono il continente sarebbe emersa come nazioni indipendenti. I processi di liberazione nazionale si sono ispirati ai postulati che hanno acceso le rivoluzioni sociali sorelle in America Latina, dove è apparso il Terzo Cinema come risposta ai limiti e ai vizi del Primo e del Secondo Cinema e come agente di trasformazione sociale.
Il primo cinema (con Hollywood come campione) era di stampo classico e il suo motivo principale era l’intrattenimento e il profitto commerciale; il secondo cinema, invece, era più attento agli aspetti artistici, alla creatività e sperimentazione formale in opposizione alla rigidità della narrazione classica erigendo l’autore e il suo stile personale a figure principali della tradizione romantica.
Il terzo cinema promulgato dagli argentini Fernando Solanas e Octavio Getino nel loro manifesto “Verso un terzo cinema: appunti ed esperienze per un cinema di liberazione nel terzo mondo” (1969) si differenziava da entrambi i cinema per essere un’arma di liberazione, apertamente anticoloniale e antimercantile, e frutto di un autore inserito e impegnato nella collettività.
Il suo stile e le sue tecniche erano rivoluzionarie e sperimentali, così come l’uso delle istanze di produzione, distribuzione ed esposizione. Non a caso il manifesto iniziava con la seguente citazione di Fanon: … dobbiamo scoprire, dobbiamo inventare…”.
In questo enorme compito di “invenzione delle anime”, come ha detto Césaire citando Fanon l’artista e l’intellettuale sono stati chiamati a svolgere un ruolo decisivo in questo enorme compito. L’alto tasso di analfabetismo della popolazione africana ha portato, fin da subito, alla creazione di un’associazione di volontariato.
All’inizio, alcuni scrittori decisero di passare al cinema per far sì che le loro creazioni potessero raggiungere un pubblico più vasto e, nel farlo, hanno cercato di mettere in pratica le lezioni apprese da professionisti e istituzioni occidentali.[1]Poiché le scuole di cinematografia della Francia e dell’URSS sono le maggiori destinatarie degli studenti provenienti dall’Africa, questo spiega la forte influenza della pratica … Continue reading Questo è uno degli apparenti paradossi che i registi africani hanno dovuto affrontare: non avendo centri specializzati nel continente[2]Allo stato attuale, la situazione sta cambiando, guidata dalle politiche statali per promuovere il cinema dal Marocco e dal Sud Africa, che ha portato all’apertura di scuole pubbliche di … Continue reading hanno dovuto formarsi all’estero, il che li esponeva alla formazione cinematografica della tradizione occidentale.
Senza riferimenti e insegnanti indigeni, come i regimi coloniali avevano negato agli africani l’uso del nuovo mezzo cinematografico, loro hanno cercato di trovarli in registi internazionali, il che ha prodotto due risposte critiche, entrambe derivanti dal dogma dell'”autenticità culturale” di matrice eurocentrica e razzista: o le opere africane vengono criticate per aver presentato le pretese del pubblico occidentale, oppure le opere africane vengono lodate fino all’assurdo per le caratteristiche “autentiche” della cultura africana. Il cinema, nato con l’industrializzazione, è un linguaggio universale nella sua tecnica, ma è un linguaggio la cui poetica, tuttavia, si nutre della propria e di altre tradizioni culturali.
La scelta è dovuta a decisioni pratiche motivate da vincoli economico-industriali, alla censura, ed è, come ogni altro linguaggio artistico, il frutto del lavoro di un gruppo di persone.
Nelle loro prime opere, pionieri come Sembene Ousmane, Med Hondo, Souleymane Cissé, Oumarou Ganda, Safi Faye e Sarah Maldoror, hanno creato un corpus di opere critiche di stampo socio-realista, sull’esempio del neorealismo italiano degli anni ’50 e al realismo sovietico di inizio secolo. Il suo modo di lavorare con attori non professionisti, i loro limiti tecnici, il loro impegno in un momento di ricostruzione nazionale e il loro spirito critico ha posizionato i loro autori, attraverso il mezzo cinematografico, come araldi dei loro popoli, culture.
Un caso paradigmatico è quello del senegalese Ousmane Sembene, considerato “il padre del cinema africano” e un’istituzione nel suo Paese, scrittore, pensatore, agitatore e comunista convinto fino alla sua morte nel 2007.
Il suo stile, caratterizzato dall’uso dell’umorismo e del distacco per vivacizzare e provocare la riflessione dello spettatore in modo brechtiano, è stato molto apprezzato per decenni come didattico e persino pamphletistico, opponendosi allo sperimentalismo d’avanguardia del suo connazionale Djibril Diop Mambety.
Questi riduzionismi ingiustificati non riescono a collocare nel loro giusto posto un’opera immensa, ma piuttosto ci parla delle scorciatoie teoriche basate su ideologie borghesi che sostengono un'”arte per l’arte” distaccata dalla società.
La realtà è che molti di questi autori, sia nelle loro dichiarazioni sia nella loro personale prassi filmica, hanno cercato di mantenere una coerenza etica che per guidarli nella loro missione emancipatrice, educativa e critica.
Sebbene esuli dallo scopo di questo documento monitorare le politiche statali (generalmente fallimentari) in Africa, va notato che le traiettorie individuali dei primi sono state accompagnate e sostenute da determinati programmi governativi e organizzazioni di portata panafricana.
Mi riferisco al Senegal e al Burkina Faso, due Paesi che hanno promosso il cinema fin dalla sua nascita, e le iniziative della FEPACI (Federation Panafricanisme FEPACI (Federazione panafricana dei cineasti, 1969) e il festival internazionale inaugurale del cinema.
Le Giornate Internazionali del Cinema di Caracas (create nel 1966 sotto gli auspici del tago Film Days (creato nel 1966 sotto la guida del regista tunisino Tahar Cheriaa) e FESPACO: il Festival Panafricano de Cine y Televisión de Ouagadougou (1969).
Tenute alternativamente ogni due anni, sono ancora oggi due piattaforme di riferimento per la diffusione intercontinentale di un cinema panafricano dal carattere marcatamente progressista.
A questa legittimazione di un cinema che ha sostenuto e promosso la (ri)costruzione nazionale, hanno voluto contribuire con le loro penne teoriche e accademiche. Da loro le cattedre internazionali hanno formato un corpus teorico-critico militante, con un’analisi più interessata al contenuto che alla forma e alla valutazione di opere dalle radici neorealistiche, determinate a “dare voce” a un continente a lungo messo a tacere e distorto. Questi teorici del cinema si iscrivono, seguendo il pensatore camerunese Achille Mbembe, in varie forme del nazionalismo anticolonialista, in una riletture del marxismo e/o in un panafricanismo basato su due tipi di solidarietà: razziale e transnazionale e internazionalista e anti-imperialista.[3]Per approfondire le correnti di pensiero africane, rimandiamo al mio articolo «El papel del artista africano actual en la construcción del discurso utópico”. In Hernández Huerta J. L., L. … Continue reading. Dopo decenni di letteratura teorico-critica che hanno privilegiato la qualità dell’impegno e dell’emancipazione la qualità dell’impegno e l’urgenza emancipatoria di cinematografie, autori e opere[4]Illustrativi sono i titoli secondari di due volumi di riferimento in Accademia: African Cinemas. Decolonizing the Gaze (Barlet: 2000), Africa Shoots Back. Alternative Perspecives in Sub-Saharan … Continue reading, alcune voci hanno iniziato a mettere in discussione questa tendenza. Essendo diventati potenti lobby di pressione, queste teorie responsabili di una analisi dal marcato tono postcoloniale dipendente dall’occidentale devono essere riviste per adattarsi ai nostri tempi.
Indubbiamente, il fatto che molti di questi studiosi non avessero una formazione specifica nel cinema spiega perché questa teoria embrionale sia stata mantenuta come sussidiaria agli studi culturali, così di moda negli Stati Uniti, luogo di residenza di Manthia Diawara o di Nwachukwu Frank Ukadike, due dei primi studiosi di cinema nati negli Stati Uniti.
Negli ultimi anni, il taglio politico progressista e di opposizione della teoria sul cinema africano è stata messa in discussione e sostituita da quella di chi ha come missione quella di porre la creazione artistica africana su un piano di parità, senza ricorrere a specificità, nel panorama artistico e teorico globale. Nonostante le buone intenzioni e la sua volontà di partire dalla forma come oggetto iniziale di analisi, sta ricadendo negli stessi essenzialismi di un tempo, incapaci come sono di dissociarsi dai tre paradigmi teorici che invadono il mondo accademico anglosassone: psicologia lacaniana, studi postcoloniali e postmodernità. Alla critica di una teoria precedente marcatamente politicizzata se ne aggiunge ora una depoliticizzata, e aperta nell’eccesso, il che ci porta a concludere che, con notevoli eccezioni come il professore camerunese che lavora in Canada Alexei Tcheuyap (2011), la maggior parte degli studi recenti non è in grado di offrire un’alternativa teorica che possa spiegare autori e opere nel loro giusto contesto.
Facendo leva su un’analisi testuale a-storica, la corrente attuale più diffusa cade sempre nelle maglie del “anything goes” postmoderno con la sua ossessione per le identità diffuse e transitorie, l’ibridazione culturale e la fine della storia. Ricercatori come Kenneth Harrow (2004, 2007) o Manthia Diawara (2010) sconfessano l’umanesimo e la modernità, offrendo invece una lettura semplificata e postmoderna. Credendo invano che stanno distruggendo i loro postulati deterministici e lineari, si sottomettono ancora una volta alla dicotomica essenzialista, questa volta derivante dall’impasse a cui ci ha condotto il post-strutturalismo occidentale.
Il post-strutturalismo occidentale ci ha condotto a dimenticare il vero significato della modernità propugnata da Brecht e Benjamin e derivato da un umanesimo rivisto e criticato in base al suo specifico contesto storico e basato sulla capacità liberatoria dell’arte.
È in questo momento che il lucido Achille Mbembe prende la parola e osa promulgare una linea di pensiero e un’idea puramente africani: l'”afropolitismo”.
Si tratta di “uno stile, un’estetica e una certa poetica del mondo”[5]Achille Mbembe, «Afropolitanism», in Africultures, n. 66, 1° semestre 2006, pubblicato precedentemente online nel dicembre 2005. http://www.africultures.com/php/
index.php?nav=article&no=4248
. Le sue componenti teoriche e pratiche mettono ancora una volta al centro l’artista e l’arte, ma ora liberato dal fardello concettuale dogmatico ed eurocentrico che aveva impedito per decenni l’emergere di alternative africane autonome.
La realtà africana contemporanea è urbana e “si alimenta sulla base di molteplici patrimoni razziali, etnici e culturali” di un’economia vivace, di una democrazia liberale e di una cultura del consumo che partecipa direttamente ai flussi della globalizzazione.
Qui siamo nel processo di creazione di un’etica della tolleranza che può far rivivere la creatività estetica e culturale africana”[6]Ibid.. Rimaniamo per il momento con questa (ri)unione di etica ed estetica, di presente e futuro, di città, democrazia, consumo e globalizzazione.
Pensiamo ancora a Brecht e Benjamin e concentrarsi sul concetto di processo…

Storie e autori africani

Sebbene il cinema sia arrivato in Africa alla fine del XIX secolo, nello stesso periodo del resto del mondo, uomini e donne africani non sono stati in grado di accedere ai mezzi di produzione e di creazione fino a quando gli anni ’60 non hanno portato all’Africa l’indipendenza e la libertà al continente e alla sua gente.
Per più di mezzo secolo, la popolazione locale è stata espulsa dalla rappresentazione sottomessa e a-culturata per la gloria dell’Occidente, e sono state negate le loro capacità produttive e creative.
Questa posizione subalterna dell’africano, insieme alla nascita peculiare di questa cinematografia negli anni Sessanta, ha fatto del cinema un attore privilegiato nel compito di emancipazione e denuncia grazie alla capacità di rappresentazione del mezzo e alle sue qualità critiche.
Per questi motivi, il regista africano concentra in sé tutti i problemi fondamentali del primo e del secondo cinema.
Come ha detto una volta l’arcivescovo Desmond Tutu: “una persona è una persona solo grazie alle altre persone” (Pines e Willemen 1989: 100).
Questa affermazione contraddice la visione agiografica e individualista dell’autore romantico (seguito dal Secondo Cinema) e l’inclusione acritica del regista nel mondo industriale del cinema classico o del Primo Cinema, nel quale il lavoro del regista è sottoposto alla logica del profitto e controllato da fattori abitualmente non correlati al valore artistico. Molti registi africani, a causa dell’arrivo tardivo dell’Africa nel mondo della cinematografica internazionale e il suo assoggettamento alle potenze neocoloniali, hanno costretto a riunire nella propria persona le caratteristiche di produttore, sceneggiatore, musicista, fotografo, produttore, ecc.
L’effetto positivo è che, sebbene lo sforzo sia epico e vada a discapito del numero di opere (avere 4 o 5 film all’attivo è un traguardo), il regista ha una maggiore autonomia e indipendenza in ogni film, che gli permetta di essere al centro dell’attenzione.
Questo gli permette di porsi al centro del discorso artistico. In questo modo, può diventare il protagonista di un’agenda di trasformazione umana che offre alternative per il futuro attraverso il linguaggio del cinema. Come vedremo nel dettaglio, utilizzando la rivisitazione della figura del griot dell’Africa occidentale, il regista è in Africa depositario e attore di valori morali che si manifestano nella sua prassi e deve essere guidato dalla solidarietà, dal rispetto e dalla dedizione verso gli altri esseri umani; quella società civile in trasformazione.
Essenzialmente un educatore, con tutto il significato che il termine comporta, il regista è il nucleo di quell'”educatore”.
Il cineasta è al centro di quell'”ultimo cinema” di cui parla Clyde Taylor (Givanni e Bakari 2001: 7) per le sue qualità redentive e umanistiche di fronte al progetto fallito dell’umanesimo occidentale.
Come abbiamo visto, il Terzo Cinema latino-americano con cui i primi intellettuali, teorici e cineasti africani, hanno sostenuto la necessità di andare di pari passo (e qui sta la sua novità) con un cambiamento del linguaggio cinematografico e delle strutture di produzione. Questa chiara opposizione alla divisione gerarchica e di sfruttamento dell’organizzazione capitalistica del lavoro era sconosciuta, integrando per la prima volta nella storia teoria e pratica. A motivato in gran parte dalla mancanza di supporto istituzionale e dalla precarietà dei lavoratori e dei tecnici in Africa, il regista è stato obbligato ad assumere la maggior parte delle funzioni e delle attività che portano al completamento di un film.
Questi imperativi politico-industriali-economici[7]Il caso della Francia con i suoi programmi neocoloniali attraverso la politica della Francofonia. hanno prodotto un particolare movimento inverso dal lavoro collettivo a quello individuale, rendendo questi cineasti dei veri e propri autori che usano la macchina da presa e il linguaggio cinematografico (come diceva Alexandre Astruc) come una “penna stilografica”. Potremmo dire che il caméra-stylo auspicato dai cineasti-critici dei Cahiers sta finalmente diventando un’opera d’arte, è passata da una politica di autopromozione nazionale francese negli anni ’60 e ’70 a una realtà obbligata e redditizia per i poliedrici registi africani.
L’originalità, rispetto a tentativi simili nell’America Latina dell’epoca o degli esperimenti attuali, risiedono nella dedizione alla narrativa piuttosto che al ricorso di tecniche documentarie[8]So che alcuni studiosi non condividono questa affermazione, sottolineandone l’aspetto Documentario sulle creazioni africane. Fin dalle primissime date, l’ibridazione e il gioco con … Continue reading, provocata da una tradizione del racconto orale e la presenza della musica e dell’umorismo in ogni ambito della vita africana.
Nonostante la posizione, se non subalterna almeno di confine, degli autori e delle opere africane nel discorso cinematografico globale, alcuni di loro, a prescindere dalle loro affiliazioni o origini, sono al centro del dibattito sui percorsi da seguire per un cinema critico e artisticamente indipendente. L’assioma di Getino e Solanas sulla necessità di un cambiamento nella forma e nel contenuto, oltre che nei modi di produzione e di ricezione, affinché il cinema possa aiutare la trasformazione e l’emancipazione sociale e culturale si è pienamente realizzata in questi registi africani, che hanno riunito nelle loro persone qualità, privilegi e obblighi che non hanno i registi nel resto del mondo.
Soprattutto a partire dagli anni ’90, alcuni registi che si trovano a cavallo tra il primo e il secondo cinema, tra Occidente e Africa, tra un progetto di modernità occidentale (presumibilmente) esaurito e le tradizioni indigene, hanno avuto una posizione privilegiata per creare opere che sfuggono a facili analisi grazie al loro spirito critico e alla loro poetica d’avanguardia.
Dal mezzo stesso e utilizzando strategie estetiche consapevoli che nascono da una prassi etica quotidiana, i registi di spicco come Abderrahmane Sissako o Maha-mat-Saleh Haroun mettono in discussione la realtà culturale, politica e sociale, provocano lo spettatore e fare luce sul compito di emancipare uomini e donne.
Come ci ricorda Lewis C.A. Rayapen, una filosofia africana dell’educazione: “L’educazione, quindi, implica la liberazione e l’emancipazione della mente, una consapevolezza, una trasformazione interna dell’essere umano. Suppone la crescita della personalità così come l’acquisizione di nuove abilità per l’autocontrollo e il miglioramento di se stessi e della società”(Eke, Harrow e Yewah 2000, 100).
Il cinema africano, quindi, deve promuovere lo spirito critico, utilizzare artisticamente il suo linguaggio per mettere in discussione il suo linguaggio e il sistema globale odierno, per stimolare la riflessione e la partecipazione attiva dello spettatore, evitano di cadere nei luoghi comuni e nel vuoto concettuale dell’universale, evitando la facile identificazione emotiva con lo spettatore per offrire una nuova sintesi tra le capacità emotive e intellettuali dello spettatore (Benjamin e/o Brecht), ricercando generi e formati, raccontando l’umorismo e la musica per opporsi alla centralità dell’immagine e alla sua ossessione per la mimesi, per sfuggire alle semplici dicotomie e per instaurare un dialogo fecondo con la storia e i suoi protagonisti, per far sentire più voci e per lavorare sul concetto di memoria… il suo programma è ampio e complicato, ma chi ha detto che l’arte deve essere per forza semplice?

Il griot-filmmaker-educatore

Dalla letteratura al cinema, la figura del griot è usata dagli artisti come simbolo malleabile per tutti i gusti (Valérie Thiers-Thiam. 2004: quarta di copertina).

Fin dall’inizio, i teorici e i critici del cinema africano si sono messi alla ricerca dell’autenticità culturale che legittimasse i loro discorsi, ritrovando nel concetto di griot uno dei loro più fedeli alleati. Secondo Valérie Thiers-Thiam, una delle qualità più notevoli del griot africano è la sua “malleabilità”.
La sua adattabilità a quasi tutti gli approcci teorico-critici lo ha reso un nucleo centrale degli studi letterari e critici, e da lì a fare il salto agli studi cinematografici, il passo era minimo. Questi bardi dell’Africa Occidentale, gli storici, i musicisti, i genealogisti, i messaggeri e i consulenti dei leader, i cantanti, i coreografi e gli uomini d’affari che sono i griot, sono stati caratterizzati da tre qualità: preservare la tradizione, onorare il presente e guardare al futuro.
Per gli studiosi, il concetto era particolarmente attraente per due qualità: la sua apertura e il suo lignaggio unicamente africano, motivo per cui è rimasto incontrastato per anni.
Utilizzato precocemente come similitudine per lo scrittore africano in quanto depositario di un’esperienza orale e suscitatore della coscienza del suo popolo, l’analogia fu presto tracciata con il regista cinematografico; un’immagine romantica che i cineasti hanno rapidamente confermato. La sua posizione unica nella società tra passato, presente e futuro, così come l’uso del linguaggio cinematografico come mezzo di comunicazione con la gente, è stato particolarmente efficace come simbolo nei primi anni dell’indipendenza e della costruzione della nazione, come confermano le parole di Sembene Ousmane nel 1978 quando, in un’intervista con il suo amico e biografo Samba Gadjigo, si identificò con il griot del suo popolo:

“Il cineasta africano è come il griot che è simile al menestrello europeo: un uomo di cultura e di buon senso che è lo storico, il narratore, la memoria vivente e la coscienza del suo popolo. Il regista deve vivere all’interno della propria società e dire ciò che va male nella sua società” (Gadjigo 1993: 15).

Il suo connazionale Djibril Diop Mambety ha fatto lo stesso:

“Griot è il nome che si adatta a quello che faccio e ai ruoli in cui interpreta il regista la società. Più che un narratore, il griot è un messaggero del suo tempo, un visionario e un creatore di futuro”[9]“Entrevista de Christine Sitchet con Jean-Marie Teno, a propósito de Lieux Saints. On risque d’avoir une génération de jeunes qui vont grandir sans avoir vu de Films Africains”. … Continue reading.

Il documentarista camerunense Jean-Marie Teno ha alluso a entrambi in date recenti, collegandosi così nella sua poetica e prassi ai grandi maestri.
Situato nel contesto dei primi anni del cinema africano e nell’ambito dei programmi di educazione di massa e di ricostruzione nazionale, le parole di Mambety e di Sembene sono del tutto giustificate, soprattutto se si considera la politica culturale perseguita dal presidente e poeta Leopold Sédar Senghor in Senegal.
Con il passare del tempo, dobbiamo guardare più da vicino e chiederci se queste affermazioni erano più un desiderio che una realtà per i registi africani.
Seguendo Murphy e Williams (2007: 7): “ci sono una serie di potenziali difficoltà nell’identificare il regista con il griot”. Geograficamente, il concetto non può essere esteso a tutta l’Africa, poiché proviene solo dall’Africa occidentale.
Allo stesso modo, anche il paragone con l’autore cinematografico, la sua libertà espressiva e l’innovazione formale devono essere messe in discussione, dal momento che il griot è morto per non aver raccontato la verità, per non essere stato fedele al discorso della storia.
Un altro aspetto problematico di questa figura risiede nella sua sottomissione alle classi potenti, poiché sono loro a sostenere finanziariamente i griot, il che si traduce nella loro eccessiva lode. La critica del loro servilismo e della loro falsità era già stata evidenziata da Sembene in una celebre sequenza di quello che è considerato il primo film realizzato da un africano in Africa, e con tematiche africane: Borrom Sarret (1962). Utilizzando l’espressività della macchina da presa, Sembene caratterizza il griot come un imbroglione acritico e fa capire allo spettatore la necessità di mettere in discussione sul proprio ruolo nella società. Tuttavia, tutti questi punti possono essere superati se rivediamo (ancora una volta) la figura del griot alla luce di un concetto contrastato di autore cinematografico.
È per questo motivo che prenderò in prestito il suggestivo termine ibrido “griauteur” da Williams e Murphy per la sua utilità nell’analisi della pratica cinematografica africana contemporanea collocata in una corretta prospettiva storica.
Abbiamo visto nella sezione precedente come i vincoli industriali ed espressivi a cui erano sottoposti i cineasti africani hanno portato a una situazione particolare per i registi africani all’interno della scena cinematografica africana.
Le pretese di riforma sociale del Terzo Cinema di Solanas e Getino vengono integrate, arricchite da un nuovo e più complesso approccio, dall’idea del “griauteur”, basata sulle tesi della storia splendidamente esposta da Walter Benjamin nella sua riflessione sul dipinto di Paul Klee Angelus Novus.
“Il suo volto è rivolto al passato. Laddove noi percepiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad ammassare rottami su rottami e li scaglia davanti a questi piedi. L’angelo vorrebbe rimanere, risvegliare i morti e rendere integro ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta violenza sta soffiando dal Paradiso: si è impigliata nelle sue ali con un tale forza che non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro a cui è rivolta la schiena, mentre il cumulo di detriti davanti a lui cresce verso il cielo.
Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso” (Benjamin 1999: 249).
Queste parole, collocate nella giusta prospettiva storica, ci danno la chiave per capire il ruolo del regista africano nel nostro tempo.
Benjamin scrisse questo paragrafo nel 1939, quando stava per scoppiare la Seconda Guerra Mondiale.
Per questo motivo, il suo pessimismo e la sua paura sono pienamente comprensibili, non diminuiscono di una virgola la rilevanza della sua analisi dell'”angelo della storia”.
La filosofia della storia di Benjamin critica i postulati modernisti basati sul progresso inarrestabile, e si oppone all’ingenua affermazione dell’inevitabilità della continua crescita del sistema capitalistico e della (presunta) liberazione dell’essere umano come suo effetto. Senza l’esercizio costante della memoria critica, gli uomini e le donne della classe operaia “dimenticano le ingiustizie e i tradimenti del passato”. (Wayne 2001:110). Ancora Benjamin:

“La socialdemocrazia ha pensato di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future, tagliando in questo modo i nervi dei suoi maggiori punti di forza. La classe operaia ha dimenticato sia il suo odio che il suo spirito di sacrificio, perché entrambi sono nutriti dall’immagine degli antenati schiavizzati piuttosto che da quella dei nipoti liberati” (Benjamin 1999: 252).

In questa situazione di stallo in cui continuiamo a trovarci noi, classi lavoratrici di tutto il pianeta, il cineasta africano sostiene di mantenere un ruolo di primo piano come “coscienza del suo popolo” nel processo di trasformazione della società. Sempre con il viso rivolto al passato, come l’angelo di Benjamin, il suo esercizio della memoria deve essere costante, perché non invano si è proclamato griot e, così facendo, è eretto a custode della memoria storica del continente, stabilendo relazioni tra Africa precoloniale, colonialismo e neocolonialismo, neocolonialismo e progetti nazionali più recenti. Sottolineando le loro contraddizioni interne, valorizzando le sue scoperte ed evitando il vittimismo e la generalizzazione, il regista sarà in grado di continuare a fare il film e a far riflettere la società civile a cui appartiene (educare).
Alla luce di questa associazione dell’autore cinematografico con quella del griot (il nostro “griauteur”) la mia affermazione sulla libertà e l’autonomia del regista africano assume una nuova lettura. Stavamo dicendo che il regista, rispetto ai suoi colleghi di altre latitudini, è uscito vittorioso dalle sfide che ha dovuto affrontare grazie alla strategia di combinare diversi ruoli nel suo lavoro.
Ancorati a un contesto critico, tale ipotesi offre spiegazioni di autori e opere che vanno al di là delle parziali letture postmoderne, postcoloniali o lacaniane a cui alcuni ci hanno abituato.
Facciamo un passo alla volta: il regista africano, come abbiamo detto, è sia musicista, scrittore, pubblicista, contabile, produttore, sceneggiatore, cameraman… Va da sé che non tutti i registi in Africa possiedono tutte queste competenze, ma il numero di volte in cui ciò accade è talmente alto da renderlo una caratteristica del regista africano (almeno fino a questa la data). Molti di loro provengono dalla casta dei griot, e la loro formazione in vari linguaggi artistici è visibile nelle produzioni molto diverse tra loro come quelle del senegalese Moussa Sené Absa, dell’etiope Moussa Sené Absa, l’etiope Haile Gerima, il mauritano Abderrahmane Sissako e il ciadiano Mahatma Gandhi, il mauritano malese Abderrahmane Sissako e il ciadiano Mahamat-Saleh Haroun. Questi sono alcuni dei più importanti registi di oggi, che hanno seguito le orme dei pionieri senegalesi Sembene Ousmane e Djbril Diop Mambety, del malese Souleymane Cissé, dal mauritano Med Hondo o Burkinabé Gaston Kaboré, che ha dovuto mettere insieme molte di queste qualità per vedere finiti i loro film.
Questo monopolio di funzioni, ho osato affermare, ha comportato nel caso africano una maggiore autonomia nella creazione.
Naturalmente occorre fare alcune precisazioni, dato che il cinema africano è stato fortemente dipendente dalle sovvenzioni francesi e dalla coproduzione francese, il che implicava una censura non trascurabile dei film in ogni fase della loro vita. Nei momenti di censura pre-sceneggiatura, nella fase di ripresa con l’imposizione dell’utilizzo di tecnici francesi e, nelle fasi successive della distribuzione e dell’esercizio, il controllo occidentale dei film è stato notevole. Impossibile creare industrie cinematografiche autonome, i Paesi africani sono rimasti subordinati alle loro ex-metropoli.
La Francia, in particolare, era decisa, contro ogni previsione, a mantenere la sua politica internazionale attraverso il linguaggio e una cinica alleanza neocoloniale, soprannominata dai suoi critici “la Francafrique”, ha promosso l’aiuto ai nuovi cinema africani attraverso borse di studio per professionisti, coproduzioni e sovvenzioni.
La realtà è che la dipendenza è stata accentuata da più parti. La Francia si è appropriata dei diritti di distribuzione, ha imposto l’utilizzo dei suoi laboratori di post-produzione e dei suoi tecnici durante le riprese, oltre a selezionare i copioni da filmare. È paradigmatico di questo stato di precarietà e sottomissione del cinema africano il concetto sembeniano di “mégotage” (Hennebelle, 1978: 125), inteso come realizzazione di un film attraverso il doloroso processo di assemblaggio di pezzi e frammenti lasciati inutilizzati dai produttori occidentali. (rotoli di celluloide, denaro…).
Tracciando un parallelo sonoro tra “mégot” in francese e “collage”, il mégotage è ancora il modo in cui i registi africani vedono realizzati i loro film.
I registi, tuttavia, si sono confrontati con un nuovo modo di fare cinema, diventando abili negoziatori. Sviluppando strategie per sfuggire ai vincoli dei pregiudizi della Francafrique, hanno unito una dedizione ossessiva al lavoro e una notevole qualità artistica, che ha fatto sì che un numero notevole di opere e autori sia stato acclamato dalla critica e dal pubblico dei festival[10]La critica al cinema africano come “cinema da festival” adatto ai gusti della cinefilia deve essere rivalutato oggi che i festival internazionali sono quasi l’unico posto dove … Continue reading.
In quello che, secondo Sylvia Winter, sarà “il Rinascimento africano del XXI secolo” (Givanni e Bakari 2001: 8), i registi africani rimarranno centrali.
Negoziando tra i paradossi del Primo, del Secondo e del Terzo cinema, vincolati come sono dalle esigenze industriali di un linguaggio artistico estremamente redditizio, in ogni opera e nel loro lavoro quotidiano, i cineasti africani continueranno a confrontarsi con il tema della “coscienza del loro popolo” che Sembene ha definito “un messaggero del suo tempo, un visionario e un creatore del futuro”, come credeva Mambety.
Queste posizioni, come abbiamo visto, non sono contraddittorie, ma piuttosto pienamente integrate in questi registi, persone in carne e ossa che lottano, giorno dopo giorno, per vedere il loro lavoro (ri)conosciuto, in un processo di costante negoziazione e messa in discussione.
Nel nostro mondo globalizzato e guidato dal capitale, in cui le nazioni stanno perdendo i loro loro contorni di fronte a popolazioni che migrano incessantemente, sono questi “griauteurs” che devono proporre questa “etica della tolleranza”, che può rilanciare la creatività, e far rivivere la creatività estetica e culturale africana”, come chiede Achille Mbembe.


Bibliografia

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References

References
1 Poiché le scuole di cinematografia della Francia e dell’URSS sono le maggiori destinatarie degli studenti provenienti dall’Africa, questo spiega la forte influenza della pratica cinematografica sovietica e francese sul cinema del continente.
2 Allo stato attuale, la situazione sta cambiando, guidata dalle politiche statali per promuovere il cinema dal Marocco e dal Sud Africa, che ha portato all’apertura di scuole pubbliche di cinema, si sono unite nel resto dell’Africa iniziative personali promosse in genere da registi che hanno aperto scuole di cinema nei loro paesi di origine.
3 Per approfondire le correnti di pensiero africane, rimandiamo al mio articolo «El papel del artista africano actual en la construcción del discurso utópico”. In Hernández Huerta J. L., L. Sánchez Blanco e altri (a cura di). Historia y Utopía. Estudios y reflexiones. Salamanca, AJHIS: 2011. pp. 83-102
4 Illustrativi sono i titoli secondari di due volumi di riferimento in Accademia: African Cinemas. Decolonizing the Gaze (Barlet: 2000), Africa Shoots Back. Alternative Perspecives in Sub-Saharan Francophone African Film (Thackway: 2003).
5 Achille Mbembe, «Afropolitanism», in Africultures, n. 66, 1° semestre 2006, pubblicato precedentemente online nel dicembre 2005. http://www.africultures.com/php/
index.php?nav=article&no=4248
6 Ibid.
7 Il caso della Francia con i suoi programmi neocoloniali attraverso la politica della Francofonia.
8 So che alcuni studiosi non condividono questa affermazione, sottolineandone l’aspetto Documentario sulle creazioni africane. Fin dalle primissime date, l’ibridazione e il gioco con generi, forme e stili erano caratteristici delle opere africane. La mia tesi è che la tendenza alla finzione prevale sul documentario in questo compito di revisione di forme e formati degli artisti africani.
9 “Entrevista de Christine Sitchet con Jean-Marie Teno, a propósito de Lieux Saints. On risque d’avoir une génération de jeunes qui vont grandir sans avoir vu de Films Africains”. Africacultures, New York: 2009. http://www.africultures.com/php/index.php?nav=article&no=8968
10 La critica al cinema africano come “cinema da festival” adatto ai gusti della cinefilia deve essere rivalutato oggi che i festival internazionali sono quasi l’unico posto dove vedere film artistici di qualità, indipendentemente dalla loro origine.

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