Joe Petrosino

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Joe Petrosino, poliziotto antimafia

Categoria: Saggi biografici

Il famoso poliziotto Giuseppe Petrosino, poi americanizzato in Joe (il nome con cui divenne famoso), nacque in Italia nel comune di Padula (Salerno) il 30 agosto 1860 da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Prospero era un sarto ma grazie alla sua professione riuscì a far studiare i suoi quattro figli maschi (Giuseppe era il primo figlio).
Nel 1873 emigrò con la famiglia, composta dai genitori, due sorelle e tre fratelli, a New York: qui andò ad abitare in Mulberry Street, nel quartiere Little Italy. Qui Giuseppe lavorò vendendo giornali e lucidando scarpe, seguendo alla sera dei corsi per imparare la lingua inglese.
Nel 1877, Joe (come ormai si chiamava) prese la cittadinanza americana, facendosi assumere l’anno dopo come spazzino dall’amministrazione di New York (questo servizio era alle dipendenze della polizia). Venne assunto dal Dipartimento di polizia, da cui dipendevano i servizi di pulizia cittadina. In precedenza aveva già avuto contatti con la polizia, svolgendo l’attività di informatore. Il 19 ottobre del 1883 riuscì ad arruolarsi nella polizia cittadina, entrando a far parte del 23° Distretto e ricevendo la placca n. 285.
Fu il primo poliziotto di origine italiana, dato che generalmente i membri della polizia erano di origine irlandese o ebrea. Questo elemento divenne rilevante con l’affluire di emigrati italiani, tra cui vari malavitosi, essendo quasi l’unico a parlare italiano e a poter capire la mentalità dei nuovi immigrati.
Svolse inizialmente l’attività di poliziotto di pattuglia sulla Tredicesima Avenue. Riuscì a fare carriera e nel 1890 divenne detective (il primo proveniente dal meridione d’Italia), nel 1895 venne promosso sergente da Theodore Roosevelt (1858-1919), allora assessore alla polizia e suo estimatore, e infine ottenne il grado di tenente nel novembre del 1905.
Grazie alla promozione a detective poté lasciare il servizio di pattuglia e dedicarsi all’attività di investigazione contro la nuova criminalità che si stava diffondendo, chiamata Mano Nera (una antenata della mafia italo-americana), e gestita da immigrati italiani. Questa organizzazione si occupava del racket (pronuncia deformata della parola italiana ricatto) oltre a gestire l’espatrio degli italiani verso gli Stati Uniti e il loro “inserimento” nel nuovo contesto sociale.
Per svolgere le sue indagini ricorse ad azioni da infiltrato, travestendosi e frequentando quindi le zone malfamate. Si infiltrò ad esempio per tre mesi nell’organizzazione anarchica a Peterson, responsabile della morte del re d’Italia Umberto I (1844-1900), riuscendo a scoprire l’intenzione di assassinare il presidente americano William McKinley (1843-1901) durante una sua visita all’Esposizione Pan-Americana di Buffalo. McKinley, informato attraverso i servizi segreti, ignorò l’avvertimento e fu effettivamente ucciso in quella città il 6 settembre 1901 da Leon Czolgosz (1873-1901).
Da queste sue indagini giunse alla conclusione che tra i criminali e le loro vittime vi fossero spesso delle relazioni e che il suo nome fosse anche impiegato per coprire attività illecite ma scollegate dall’organizzazione criminale che comunque non riteneva strutturata in maniera rigida ed organica.
Nel 1900, quando l’anarchico italiano Gaetano Bresci uccise a Monza il re Umberto I, affermò che a Peterson, la città ove l’attentatore aveva vissuto e lavorato, centro di aggregazione di anarchici di origine italiana, era nato il complotto che aveva portato al regicidio, ma non portò prove a suffragio, infatti l’8 settembre l’Attorney General John W. Briggs comunicò all’ambasciatore italiano Fava che non era stato trovato “alcun indizio sufficiente per collegare persone viventi negli Stati Uniti col crimine, in modo tale da tenderle imputabili in virtù della legge.”
Oltre alle investigazioni, naturalmente, le sue azioni vennero indirizzate da segnalazioni che gli pervenivano come nel maggio del 1902 quando ricevette una lettera anonima secondo la quale Stella Frauto e il suo possibile marito, Salvatore “The Dude” Clemente, gestivano un impianto di contraffazione a Hackensack nel New Jersey, dopo di questo e una serie di appostamenti venne condotta una retata il 22 del mese che condusse all’arresto di vari esponenti di spicco della malavita tra cui Vito Cascio Ferro (1862-1943), mafioso di spicco della Sicilia.
Nel 1903 risolse il caso forse più importante della sua carriera, il “delitto del barile”, così chiamato per il fatto che il cadavere di Benedetto Madonia (un malavitoso membro di una banda di falsari di valuta) venne ritrovato dentro un barile fatto a pezzi il 14 aprile. Il delitto era da ricollegarsi al locale “Stella d’Italia” frequentato dai malavitosi agli ordini di Vito Cascio Ferro, un malavitoso siciliano.
Petrosino ottenne la collaborazione di Giuseppe Di Prima già carcerato a Sing Sing (una lettera anonima aveva fornito la strada da seguire), fu questi che identificò i resti come quelli di suo cognato, questo gli consentì, assieme ad altri indizi[1]Lo stesso tipo di sigari che fumava Morello erano stati ritrovati nel barile, sul pavimento del suo locale vi era segatura, bucce di cipolla e sigari, lo stesso contenuto del barile che apparteneva … Continue reading, di continuare nelle indagini fino a procedere personalmente all’arresto di Joe Morello (Giuseppe Pietro Morello detto “Piddu” 1867-1930), proprietario del locale e membro della banda formata da nove uomini di origine italiana.
In seguito a queste sue operazioni ricevette il plauso della stampa, che riteneva che con le condanne al processo la banda criminale fosse stata sgominata. Il boss Vito Cascio Ferro però, rilasciato su cauzione, lasciò il paese e tornò in Sicilia, ove giunge il 28 settembre 1904.
Nel 1905, divenuto tenente, ottenne il comando della neo costituita Italian Legion (formata formalmente il 20 gennaio), una squadra formata appositamente per combattere la criminalità organizzata di origine italiana e composta di cinque membri tra cui il successore di Petrosino, Michael Fiaschetti, 1886-1960), questo neo-costituito servizio, voluto da Bingham, venne finanziata da cittadini privati e organizzazioni tramite una sottoscrizione segreta, a causa della indisponibilità da parte del Consiglio cittadino.
Petrosino si occupò della Mano Nera anche in un’altra importante occasione, quando il tenore Enrico Caruso (1873-1921), durante una tournée a New York, fu ricattato dai gangster sotto minaccia di morte. Petrosino ottenne la collaborazione di Caruso per la cattura dei ricattatori.
Per lottare contro la Mano Nera in maniera veramente efficace comprese che si sarebbe dovuti andare alla fonte del problema, in Italia, sia per scoprire lì quali fossero i vertici dell’organizzazione e così colpirli, sia per trovare informazioni di prima mano mancando spesso la collaborazione delle autorità italiane nel fornire informazioni sugli emigranti. Per queste ragioni il capo della polizia newyorchese, Theodor (Teddy) Bingham (1858-1934), lo autorizzò a recarsi in missione a Palermo ed esaminare i casellari giudiziari alla ricerca di dati compromettenti sugli affiliati alla Mano Nera[2]Nel 1908 per la sua azione contro la malavita aveva ricevuto un orologio d’oro dal governo italiano..
La missione, che doveva essere segreta, venne però compromessa dallo stesso Bingham, che lo aveva confidato al “New York Herald” il 20 febbraio 1909 e anche al “Araldo italian”, un quotidiano di New York edito in lingua italiana per gli immigrati dal 1889 al 1921, che poco prima aveva scritto:

Il Petrosino si reca in Italia per studiarvi quei regolamenti di pubblica sicurezza. Si dice che a Bologna si fermerà per avere cognizioni sulla criminologia, sulla pena di morte e sulle belle mortadelle. A Firenze si tratterrà per osservare le carceri dell’antico Palazzo del Bargello e il fiasco paesano. A Napoli per la camorra, la malavita e i maccheroni alle vongole. A Palermo per la mafia e le squisite cassate alla siciliana. A Torino si fermerà per i barabba e i grissini. A Milano per la teppa e la busecca. A Venezia per i terribili Piombi e la zucca barucca. A Roma poi per il Colosseo e l’abbacchio.[3]Riva, 365 delitti uno al giorno, pag.117.

La morte

Il 9 febbraio 1909 si imbarcò, sotto il nome di Simone Velletri, sul piroscafo Duca di Genova, portando con se una lista di quindici malavitosi che avevano soggiornato negli Stati Uniti e poi erano tornati in Sicilia e una foto di Cascio Ferro.
Giunse in Italia il 21 giunse e sbarcò a Genova e di lì, con il treno proveniente da Parigi, si recò a Roma. Qui soggiornò nell’Hotel d’Inghilterra sotto un altro nome falso, Guglielmo Simone, e prese contatto, il 24, con il capo di gabinetto di Giolitti, Camillo Peano, e poi il capo della polizia Francesco Leonardi (1840-1911). Durante questo soggiorno incontrò due giornalisti di sua conoscenza, Camillo Cianfarra (inviato dell'”Herald” per il terremoto di Messina) e Guido Memmo, corrispondente da Roma.
In seguito, il 25, lasciò Roma e si reco a Padula, la città natale, ove incontrò il fratello Michele che vi era tornato a vivere, ed il cugino.
Infine giunse a Palermo il 28 febbraio alle sette del mattino, viaggiando su un postale proveniente da Napoli e preso il giorno prima. Giunto in città prese una stanza, la numero 16, nel lussuoso Hotel De France in Piazza Marina, sotto il falso nome di Simone Valenti di Giudea. Aprì un conto presso la Banca Commerciale e prese in affitto una macchina da scrivere Remington, forse per redigere le relazioni e le schede sulle persone indagate.
Il 6 marzo, in mattinata, prese contatto con le forze dell’ordine della città, incontrò il questore della città, commendatore Baldassare Ceola, e il commissario della polizia giudiziaria Luigi Poli, con il quale collaborò nell’identificazione di vari pregiudicati che si erano recati negli USA. Questo incontro si rivelò però infruttuoso e gli ottenne solo l’offerta, da lui declinata, di avere una scorta armata durante le sue indagini, come suggerito dal ministro Giovanni Giolitti (1842-1928). Questo fatto venne sottolineato, dopo la sua morte, da parte del questore che la definì una “imprudenza che riesce quasi inesplicabile in un detective così celebrato.”[4]Lupo, Quando la mafia trovò l’America, pag.25..
Dopo questo incontro si recò al palazzo Pecoraino in piazza Castelnuovo dove incontrò il console statunitense William A. Bishop. Nei giorni seguenti venne bloccato nel letto della sua stanza, in seguito a una grave influenza, che durò quasi cinque giorni.
Ripresosi, ricominciò la sua attività di indagine di cui informò solo il commissario Poli: perlustrò sia la città che i dintorni, identificando vari esponenti della malavita che gli erano già noti. Si recò poi anche a Caltanissetta per consultare gli archivi giudiziari, scoprendo così che le informazioni su molti malavitosi erano scomparse.
Durante la sua permanenza in Sicilia scrisse una lettera diretta alla moglie (nell’aprile del 1907 Petrosino si era sposato nella chiesa di San Patrizio con Adelina Saulino, una donna di origini italiane, con la quale ebbe una figlia Adelina Bianca Giuseppina, nata nel gennaio del 1909):

Carissima moglie, sono arrivato in Palermo, mi trovo tutto confuso e mi pare mille anni di ritornare. Non mi piace affatto tutta l’Italia che poi quando ne vengo ti spiego. Dio, Dio che miseria! Sono stato malato cinque giorni. C’era l’influenza e sono dovuto stare a Roma, ma adesso mi sento bene. Dunque tutte le comunicazioni mandale alla Banca Commerciale di Palermo che questa è la mia direzione. Saluta Angelina, Luigi. Bacia cugino Arturo come pure mio fratello Antonio con la sua famiglia. Compare Carlucci e la sua famiglia. Saluta tua sorella e suo marito. Alla mia cara Bambina e a te mille e mille abbracci.[5]Joe Petrosino, quello “sbirro” curioso massacrato da 4 colpi a piazza Marina, “Giornale di Sicilia”, Massimo Di Martino.

Venerdì 12 marzo 1909 si recò a Caltanissetta per ottenere dal cancelliere del tribunale per ottenere dei certificati penali di alcuni emigrati, poi tornato a Palermo rimase nella sua stanza dell’Hotel a causa della pioggia, verso sera dopo il miglioramento del tempo uscì per recarsi al Caffè Oreto dove cenò. Qui venne raggiunto da due persone che apparentemente conosceva e con le quali si diede appuntamento dopo cena.
Uscito dal ristorante si diresse verso la chiesa di S. Giuseppe dei Miracoli, verso via Lungarini: dopo un breve tratto di strada, alle ore 20.45, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo (una pallottola al collo, due alle spalle, e una alla testa) suscitano il panico tra le persone in attesa del tram al capolinea di piazza Marina – vicino alla statua di Garibaldi – e causano un generale e naturale fuggi fuggi.
Solamente un giovane marinaio di Ancona appena sceso dalla Regia Nave Calabria della Marina Militare, Alberto Cardella, si recò al luogo di origine degli spari, verso il giardino Garibaldi, dove nel centro della piazza trovò Petrosino morto e vide due persone fuggire.
Il console americano a Palermo, avuta la notizia, telegrafò subito al suo governo: Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Il questore Ceola, appena avuto notizia dell’accaduto, si recò a sua volta sul luogo del delitto, abbandonando l’opera che stava vedendo al teatro Biondo.
Il console americano Bishop (questi iniziò a collaborare con gli inquirenti ma ricevette minacce che lo portarono a rassegnare le dimissioni poco dopo e a lasciare la città) poi comunicò una ricostruzione più dettagliata dell’accaduto al Police Commissioner di New York:

Petrosino si è registrato sotto il nome di Guglielmo De Simoni all’Hotel de France in Palermo. Il 12 marzo 1909 era in piedi presso il piedistallo della statua di Garibaldi in piazza Marina, in attesa di un tram, quando due uomini gli spararono contro quattro colpi. Tre lo raggiunsero, e la morte fu istantanea. Fu colpito sul lato destro della schiena, attraverso entrambi i polmoni e alla tempia sinistra. Petrosino era disarmato. Una rivoltella Smith e Wesson fu rinvenuta nel suo bagaglio all’albergo. Nei pressi della scena del delitto fu rinvenuta una grossa rivoltella con un proiettile mancante nel tamburo.[6]Dickie, Cosa nostra, pag.204.

Sul corpo del defunto vennero trovati solo: un orologio d’oro attaccato a una catena d’oro, un biglietto con scritto a penna un numero, 6824; un libretto di assegni della Banca Commerciale; alcune banconote (una da 50 lire e quattro da 5 lire); la placca da detective della polizia; alcune buste indirizzate al sindaco della città Gennauro Bladier, al commissario Polio, al delegato di pubblica sicurezza e al capo dei vigili urbani; 30 biglietti da visita (con scritto “Giuseppe Petrosino, luogotenente di Polizia, città di New York, Usa”); la lettera di presentazione del capo della polizia; un’annotazione su Don Vito Cascio Ferro; una cartolina per la moglie con scritto “Un bacio a te e alla mia bambina che ha compiuto tre mesi lontana dal suo papà”.
La notizia pervenne tramite telex alla stampa americana (Associated Press) a Manhattan alle 4:15 del 13 marzo con il seguente testo:

Iersera nella centrale Piazza Marina di Palermo è stato assassinato a revolverate il luogotenente di polizia americano Giuseppe Petrosino, che trovavasi in quella città per compiere un’inchiesta sulla ramificazione in Sicilia della Mano Nera per conto del Commissariato di Polizia di New York.[7]Joe Petrosino, quello “sbirro” curioso massacrato da 4 colpi a piazza Marina, “Giornale di Sicilia”, Massimo Di Martino.

La notizia era stata anche annunciata, in via ufficiale, dal console americano con il seguente telegramma: “Palermo, Italy Petrosino shot. instantly killed in heart of city this evening. assassin unknown. dies a martyr. Bishop, Consul”.
Originariamente la notizia originariamente venne presa con diffidenza dai giornalisti statunitensi, ritenendola come un tentativo di aumentare le vendite facendo scalpore, e solo in seguito venne presa per vera ed ebbe conseguenze rilevanti a New York, ove il capo della polizia Bingham si dimise dall’incarico in luglio.
Il governo italiano mise a disposizione la somma di 10.000 lire per chi avesse fornito elementi utili a identificare i suoi assassini, ma senza alcun successo.
La salma, imbalsamata dal professor Giacinto Vetere il 18 marzo, partì per gli New York il 12, sul piroscafo Slavonia, e giunse a destinazione il 9 aprile. Il 12 aprile si svolsero i funerali ai quali circa 200.000 persone parteciparono, un numero fino ad allora mai raggiunto da alcun funerale in America.
Le indagini sull’omicidio vennero affidate al commissario Baldassare Ceola e vennero seguite da vicino a Roma, lo stesso Presidente del Consiglio se ne interesso personalmente a causa anche delle conseguenze negative che il fatto avrebbe avuto sulle relazioni con gli USA.
Giunsero innumerevoli lettere in cui venivano indicati vari possibili responsabili dell’omicidio e facevano varie ricostruzioni degli eventi che vi avevano portato, ma in generale venivano indicati come responsabili alcune persone, tra le quale Vito Cascio Ferro, Morello e Ignazio Lupo.
Molto probabilmente il responsabile, non materialmente ma almeno in qualità di mandante o complice, della sua uccisione è stato il boss di Bisacquino (Palermo) Vito Cascio Ferro, il cui nome era in cima ad una “lista di criminali” redatta da Petrosino e trovata nella sua stanza d’albergo il giorno della morte anche se lo stesso in quei giorni (6-14 marzo) era a Burgio a casa del deputato Domenico De Michele Ferrantelli. Si sospettò anche l’esistenza di un collegamento tra la morte di Petrosino e alcuni personaggi malavitosi appartenenti alla cosca newyorchese di Giuseppe “Piddu” Morello, noti per il loro presunto legame al caso del “corpo nel barile”. Due uomini di questa cosca erano infatti ritornati in Sicilia nello stesso periodo del viaggio di Petrosino, rimanendo in contatto con il boss di New York. Cascio Ferro venne anche arrestato a causa dei sospetti ma poi rilasciato, il 16 novembre.
Già il questore di Palermo, nella sua relazione del 28 aprile 1909, aveva sospettato che i mandanti fossero persone di particolare importanza e scrisse che “non è nel mondo che dovono ricercarsi gli assassini del Petrosino, ma nell’alta delinquenza, dove l’astuzia è pari alla ferocia, dove non mancano né gli uomini né i mezzi per condurre a termine con sicurezza di riuscita ogni più delittuosa ed audace impresa”.
Un’altra ipotesi è che Morello e Giuseppe Fontana (emigrato in America dopo l’assoluzione per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, 1834-1893, che aveva denunciato la corruzione del Banco di Sicilia, e lì aggregatosi alla banda di Giuseppe Morello) si siano rivolti a Vito Cascio Ferro affinché organizzasse l’omicidio del poliziotto. Quando Cascio Ferro venne arrestato, il 13 marzo, gli fu trovata addosso una fotografia di Petrosino.
Oltre a lui vennero arrestati i quindici soggetti indicati nella lista di Petrosino, oltre a Carlo Costantino e Antonio Passanante ma la magistratura, con la sentenza della Seconda Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo emessa il 22 luglio 1911 chiuse il caso assolvendo per insufficienza di prove gli imputati (questa notizia venne ignorata dalla stampa locale).
Il maggiore indiziato, Cascio Ferro, aveva un alibi fornitogli da un suo amico, il barone Domenico De Michele Ferrantelli deputato di Bivona (Agrigento), che sostenne di aver ospitato il sospettato dal 6 al 13 marzo.
Il boss venne arrestato solo durante il fascismo e condannato all’ergastolo per un omicidio il 27 giugno 1930 dalla Corte d’Assise di Agrigento anche se intervistato in prigione, il boss dichiarò di aver ucciso un solo uomo in tutta la sua vita e disse di averlo fatto in modo disinteressato. Un altro possibile indiziato venne identificato in questo stesso anno da Antonio Musolino, fratello del famoso bandito Giuseppe (1876-1956), questi rilasciò una confessione al procuratore del re Francesco Loiacono ove sosteneva che l’omicidio venne eseguito da suo cugino Francesco Filastò, un boss della ‘ndrangheta, che però le autorità americane avevano sottoposto ad inchiesta per l’omicidio Petrosino e poi prosciolto. Filastò comunque nel 1933 venne condannato in Italia a undici anni e dieci mesi di reclusione per associazione per delinquere e per aver tentato di uccidere nel 1924 il cugino che ora lo accusava.
Altri due soggetti probabilmente coinvolti nel caso, Morello e Ignazio Lupo, verso la fine del 1911 negli USA vennero condannati a trenta e venticinque anni di detenzione per falsificazione di banconote.
Un riferimento ai due si trova anche in un documento del 19 giugno 1916, con il quale la Corte di Appello di Palermo richiedeva informazioni su di loro al questore dopo che un detenuto nel carcere di Reggio Calabria, Gareri, aveva testimoniato nel maggio del 1915 di aver saputo da Lupo stesso, a New York, che lui era uno dei mandanti dell’omicidio deciso durante una riunione di malavitosi svoltasi a New York.
Un’altra testimonianza, ancora successiva, rinnovò la pista americana per l’indicazione dei mandanti dell’omicidio, il 15 aprile 1930, Antonio Musolini, fratello del bandito Giuseppe, testimoniò al procuratore di Reggio Calabria, di aver assistito da giovane ad una riunione, a Brooklyn, durante la quale venne estratto a sorte il soggetto incaricato di compiere l’omicidio.
Una tesi affine viene avanzata anche dalla Commissione che nella sua relazione del 1976 (Capitolo IV. Le ramificazioni territoriali della mafia) così ricostruì i fatti:

I capi della Mano Nera si videro in pericolo e a New Orleans, nella casa di Paolo Marchese (Paul Di Oristina), si riunirono James Balestrere, Giovanni Di Giovanni, Peter Di Giovanni (fratello di Joseph Di Giovanni, il noto Scarface), Anthony Carramusa, Frank De Maio e Angelo Ferrara. Peter Di Giovanni venne spedito a Palermo per concordare con i capi della mafia locale come impedire che Petrosino portasse a termine la sua missione. L’incontro fra l’emissario della Mano Nera e gli esponenti mafiosi avvenne nella casa di Vito Cascio Ferro, capo riconosciuto della mafia siciliana.
Petrosino, ignaro, giunse in Italia Al 20 febbraio 1909; si incontrò con il ministro dell’interno, onorevole Peano, che gli assicurò che non sarebbero stati più rilasciati passaporti di espatrio ai pregiudicati; si recò a Palermo dove indagò, fra l’altro, anche sui precedenti penali dei fratelli Matranga. La sera del 12 marzo, a Piazza Marina, veniva ucciso a colpi di pistola da un uomo sceso da una carrozza.
Due ore prima, Vito Cascio Ferro si era recato a cena da un autorevole parlamentare; si era allontanato per breve tempo con la carrozza; era ritornato sereno a consumare la cena. Al processo che ne seguì, i commensali gli fornirono un alibi inattaccabile e Cascio Ferro fu assolto.

Post mortem

Per il suo sacrificio Petrosino ricevette la medaglia d’oro al Merito Civile alla memoria, conferita il 9 aprile 2008 con la seguente motivazione:

Poliziotto coraggioso e determinato, impegnato in una difficile missione per scoprire i legami tra mafia siciliana e quella di New York, veniva trucidato con quattro colpi di pistola esplosigli alle spalle da un ignoto sicario in un vile agguato. Fulgido esempio di elette virtù civiche ed elevato spirito di servizio, spinti sino all’estremo sacrificio.[8]Quirinale – Onorificienze

Petrosino è stato il soggetto ispiratore di alcuni film, il più vecchio dei quali è The Adventures of Lieutenant Petrosino diretto da Sidney M. Goldin, risalente ben al 1912, a dimostrazione dell’importanza del personaggio per la collettività già all’epoca. Tale film fu preceduto solo dal corto documentaristico Gli imponenti funerali del poliziotto americano G. Petrosino risalente al 1909.
Al 1960 risale il film Pagare o morire (Pay or Die) diretto da Richard Wilson: qui il poliziotto era interpretato da Ernest Borgnine. Alla figura di Petrosino è stato dedicato anche uno sceneggiato televisivo in 5 puntate, in cui era il poliziotto era interpretato dall’attore Adolfo Celi, prodotto dalla RAI nel 1972 e intitolato Joe Petrosino (regista Daniele D’Anza).
Sempre la RAI nel 2006 ha trasmesso una miniserie di 2 puntate dal titolo Joe Petrosino – Un eroe italiano, interpretato dall’attore Giuseppe Fiorello, regista Alfredo Peyretti. Nello stesso anno la RAI ha co-prodotto un documentario dal titolo Joe Petrosino: A Shot in the Dark con la regia di Antonello Padovano.
A Petrosino è stata anche dedicata una puntata del programma La storia siamo noi, trasmessa il 15 febbraio 2008, visibile sul sito della trasmissione all’indirizzo web La storia siamo noi.
La sua memoria è tenuta viva da un’associazione internazionale a lui dedicata (Associazione Internazionale “Joe Petrosino”), che si occupa anche della sua casa natale a Padula, tramuta in casa-museo grazie all’interessamento del comune di Padula e della Regione Campania in seguito alla morte, avvenuta nel 1997, della nipote di Joe Petrosino, Gilda Petrosino, la quale l’aveva conservata con i vecchi arredi.
Il 12 marzo 2009, in occasione del centenario della morte, a Palermo è stata scoperta una statua a lui dedicata nei Giardini Garibaldi di Piazza Marina dove avvenne l’assassinio. Nel 2011 a Bisacquino (Palermo), paese del boss della mafia Vito Cascio Ferro, l’11 marzo è stata intitolata una strada alla memoria di Giuseppe Petrosino-detective, mentre il 12 marzo è stata inaugurata una statua di Joe Petrosino, eseguita dallo scultore Giacomo Rizzo, all’Hotel De France di Palermo.

Bibliografia

Corradini Anna Maria, L’omicidio di Joe Petrosino Misteri e rivelazioni, Catania, Bonanno Editore, 2013
Critchley David, The Origin of Organized Crime in AmericaThe New York City Mafia, 1891–1931, New York, Routledge, 2009
Dash Mike, The First Family: Terror, Extortion and the Birth of the American Mafia, London, Random House, 2009
Dickie John, Cosa nostra Storia della mafia siciliana, Roma-Bari, Laterza, 2005
Falzone Gaetano, Storia della mafia, Milano, Pan Editrice, 1975
Gratteri Nicola, Nicaso Antonio, Storia segreta della ‘ndrangheta, Milano, Mondadori, 2018
Lupo Salvatore, Quando la mafia trovò l’America Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Torino, Einaudi, 2008
Marino Giuseppe Carlo, I padrini: da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano, da Calogero Vizzini a Stefano Bontate, fatti, segreti e testimonianze di Cosa Nostra attraverso le sconcertanti biografie dei suoi protagonisti, Roma, Newton, 2006
Marino Giuseppe Carlo, Storia della mafia, Roma, Newton, 2006
Petacco Arrigo, Joe Petrosino, Milano, Arnoldo Mondadori, 1972
Petacco Arrigo, L’anarchico che venne dall’America: storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000
Riva Alessandro, 365 delitti uno al giorno, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 1998

Sitografia

Scheda del film: Joe Petrosino: A Shot in the Dark
Scheda del film: Joe Petrosino
Scheda del film: The Adventures of Lieutenant Petrosino
Scheda del film: Pagare o morire
Fotografie del film: Joe Petrosino – Un eroe italiano
Don Vito, da rivoluzionario a boss, “La Sicilia”, 27 febbraio 2005, pag. 33
Associazione Internazionale “Joe Petrosino”
Palermo; s’intitola strada a Joe Petrosino nella città del suo presunto assassino; presente anche la Provincia di Salerno
Joe Petrosino, quello “sbirro” curioso massacrato da 4 colpi a piazza Marina, Giornale di Sicilia, Massimo Di Martino
C’era una volta a piazza Marina libro e film raccontano il tenente
Relazione conclusiva della Commissione antimafia del 1976. Relatore: senatore Luigi Carraro

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References

References
1 Lo stesso tipo di sigari che fumava Morello erano stati ritrovati nel barile, sul pavimento del suo locale vi era segatura, bucce di cipolla e sigari, lo stesso contenuto del barile che apparteneva ad una raffineria di zucchero che aveva Morello come suo unico cliente siciliano.
2 Nel 1908 per la sua azione contro la malavita aveva ricevuto un orologio d’oro dal governo italiano.
3 Riva, 365 delitti uno al giorno, pag.117.
4 Lupo, Quando la mafia trovò l’America, pag.25.
5, 7 Joe Petrosino, quello “sbirro” curioso massacrato da 4 colpi a piazza Marina, “Giornale di Sicilia”, Massimo Di Martino.
6 Dickie, Cosa nostra, pag.204.
8 Quirinale – Onorificienze

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