Conferenza tenuta al Teatro Filodrammatico di Piacenza il 13 aprile 1890 da Angiolo Cabrini
Categoria: Socialisti
Prima d’entrare in argomento, sento il bisogno di fare una dichiarazione per togliere a me delle preoccupazioni che potrebbero sviarmi dallo svolgimento del tema, ed a voi delle inutili illusioni.
Come di tante altre cose, vi sono due specie di conferenze. La prima tende ad accrescere il merito del conferenziere, il quale si sbraccia a distendere al sole tutta la mercanzia che ha ammucchiata in testa; e riveste il pensiero di frasi altisonanti, che percuotono la fantasia dell’uditorio, il quale anche quando non capisce un’acca, si lascia trascinare all’applauso.
La seconda specie di conferenza è tutto l’opposto della prima; il pubblico non ha più davanti un oratore, ma un semplice galantuomo, il quale si prefigge di dimostrare la verità e la bontà di una cosa a un certo numero di persone alle quali non chiede che dell’attenzione e della serenità. Sono – più che conferenze – discorsi in famiglia, alla buona, in linguaggio facile e piano, e quindi accessibili a tutte le intelligenze.
Naturalmente io appartengo alla seconda specie di conferenzieri; ed invitato a discorrervi della Borsa del lavoro dal Comitato della locale Sezione Tipografica, accettai premettendo che io avrei parlato agli operai.
Qui l’uditorio è diviso; e noto parecchie persone a me infinitamente superiori e per età e per cultura. Ma siccome sarebbe stoltezza il pretendere che la classe operaia – tenuta da tanti anni nella miseria e nella ignoranza – si alzi al livello di chi ebbe la fortuna di istruirsi ed educarsi, così nelle questioni implicanti gli interessi dei lavoratori – è logico che coloro i quali pur non essendo operai hanno sinceramente a cuore gli interessi degli operai – si adattino all’ambiente e discendano al livello dei più.
Dice il proverbio che la storia è maestra dei popoli. Quelli invece che ai proverbi non credono, affermano che, viceversa, la storia insegna un bel niente, perché gli avvenimenti che si succedono sono diversi l’uno dall’altro; e perché quand’anche fra alcuno di loro v’ha qualche somiglianza, la varietà degli ambienti e delle epoche non permette che prima di agitarsi e di muoversi l’uomo debba leggersi un capitolo di storia.
Io dunque rinuncio allo sfoggio di una troppo comoda e facile coltura, ed ometto la parte storica delle Borse del lavoro.
Accennerò soltanto alle diverse date che segnano le fasi attraversate da questa istituzione schiettamente operaia, la quale, come tutte le istituzioni nuove, incontrò ostilità e suscitò diffidenze, e nell’apatia deplorevole delle classi lavoratrici, e nella stessa natura umana che stenta ad accogliere subitamente le innovazioni reclamate dal progressivo svolgersi degli avvenimenti.
Il primo tentativo d’istituire una Borsa di lavoro lo troviamo nel 1846.
Fu il direttore del Giornale degli economisti di Parigi, il sig. Molinari che si domandò: «Ora che gli ostacoli naturali e artificiali che opponevansi una volta a ciò che si potrebbe chiamare la mobilizzazione del lavoro, sono rimossi, non è forse il caso di sviluppare e di perfezionare il collocamento dei lavoratori?»
L’idea era molto modesta, ciò nonostante il tentativo fatto dal Molinari fallì.
Poco dopo si ritenta la prova nel Belgio. Eguale risultato.
Nel ’48 il Governo provvisorio della Repubblica francese, fa propria l’idea del sig. Molinari, inizia nei Circondari di Parigi degli uffici di informazione per le offerte e le domande di lavoro ma di nuovo il tentativo fallisce.
Pareva che nessuno – dopo gli scoraggianti risultati – dovesse ritentare la prova; quando nel 1851, nientemeno che il Prefetto di Parigi elabora un nuovo progetto di una Borsa del lavoro, proponendo l’unione di tutti gli uffici di collocamento e la pubblicazione di un bollettino sui diversi elementi del lavoro, vale a dire, prezzi delle materie prime etc.
Questa Borsa doveva dipendere dallo Stato.
L’Assemblea nazionale esamina il progetto, lo approva in massima e giudicandolo di competenza del Comune lo rimanda al Consiglio comunale di Parigi, il quale mette a dormire il progetto negli scaffali municipali.
Finalmente saltano fuori coloro che sono veramente interessati alle Borse del lavoro; saltano fuori gli operai, organizzati in corporazioni a chiedere l’istituzione della Borsa.
E nel 1852 il giornale di quella confederazione scrive: «Mentre da una parte il numero dei lavoratori d’una professione è troppo grande pel lavoro domandato, d’altra parte gli strumenti del lavoro rimangono inoperosi per mancanza di operai. Fondiamo una vera Borsa del lavoro, apriamo una inchiesta permanente sullo stato reale del consumo e della produzione e che gli operai disoccupati di ciascuna professione possano sapere dove il loro lavoro fa bisogno».
Ecco dunque immensamente ingrandita l’idea del sig. Molinari.
Dal semplice ufficio di collocamento, il progetto assurge all’altezza di una guida generale del lavoratore, per additargli dove è più necessario il lavoro delle sue braccia, e per fargli esattamente conoscere lo stato reale del consumo e della produzione.
E l’idea, rimasta rachitica nelle teste degli economisti, dei ministri e dei prefetti, si dilata al soffio della vita operaia.
Dalla Francia l’idea passa in Austria; nel 72 nel Colosseo di Vienna un Comizio di lavoratori dirige un memoriale al Ministero chiedendo l’istituzione delle Camere Operaie, le quali avrebbero dovuto far conoscere alle Autorità i bisogni e le domande della classe operaia; dare il loro parere su tutte le istituzioni tendenti a migliorare la condizione degli operai, e di eleggersi dei proprii rappresentanti al Parlamento.
Il Governo naturalmente non ne fece nulla; e soltanto 14 anni dopo (nel 1886) la sinistra del Parlamento Austriaco si rammentò del memorabile memoriale … ma senza alcun costrutto.
Intanto in Francia e in ispecie a Parigi l’idea della Borsa era stata risollevata; il municipio le fece buon viso, e nell’82 furono gettate le basi di quella splendida Borsa di Parigi, che oggi vive e prospera ammirevolmente.
A Washington, a S. Gilles, a Bruxelles, a Liegi, a S. Etienne, a Nimes, a Nantes etc. sorsero dietro l’esempio del cervello del mondo altre Borse del lavoro.
In Italia della Borsa del lavoro non se ne parlò mai. In trent’anni di vita nazionale le nostre classi lavoratrici fecero soltanto qualche passo oltre le povere Società di Mutuo Soccorso arrivando qua e là, ora alla Società di Resistenza, ora alla Società Cooperativa.
Soltanto nel Dicembre 1888 al Comizio dei disoccupati che si teneva nell’Arena di Milano, un membro del Partito operaio – Giuseppe Croce – buttò fuori il progetto di istituire una Borsa del lavoro anche nella capitale lombarda.
Più tardi le squadre di operai Milanesi mandate all’esposizione di Parigi ebbero campo di vedere davvicino la Borsa del lavoro e il Sociologo Osvaldo Gnocchi-Viani ne fu talmente ammirato, che di ritorno a Milano, convocò parecchi operai.
Finalmente il Comitato Centrale della Società generale tra i Tipografi italiani si pose alla testa del movimento, e Milano, Spezia, Voghera. Alessandria, stanno per avere la loro Borsa del lavoro.
Riassunta così la travagliata esistenza di questa istituzione, vediamo di comprendere gli scopi che essa si prefigge di raggiungere, e quali vantaggi – lontani e immediati – possano derivare dal suo funzionamento, non solo alla classe lavoratrice, ma a tutte le classi che dividono ed agitano la società.
La domanda fattasi dal giornalista Molinari e cioè se non sia il caso di sviluppare e di perfezionare il collocamento del lavoratore è tuttora la base, il nocciolo della Borsa del lavoro.
Il concetto primo venne modificato, passato al vaglio della pratica attuazione, ma in sostanza, la questione è sempre questa:
I. Abbiamo delle arti e dei mestieri in cui la mano d’opera è deficiente; viceversa abbiamo delle arti e degli altri mestieri in cui la mano d’opera è esuberante.
Donde un danno al capitale ed un danno al lavoro.
II. Abbiamo degli uffici di collocamento che sono in mano di strozzini e di bricconi; in essi il padrone che cerca l’operaio è ingannato; in essi l’operaio che cerca il padrone è pelato e dissanguato.
Si domanda una cosa semplicissima ai Comuni: che i riguardi usati alle bestie vengano usati anche agli operai.
Non è vergognoso il vedere gruppi di disoccupati star lì sotto i portici del Gotico e intorno ai paracarri di Piazza Cavalli, aspettando un padrone che venga ad offrir loro del lavoro, mentre fuori di Porta S. Raimondo si vedono i quadrupedi sotto un’ampia tettoia?
Dunque la Borsa del lavoro vuole che questi disoccupati si radunino non sulla piazza ma in uno o più locali, e là, al riparo delle intemperie, aspettino il padrone, e contrattino con esso in base agli accordi presi con tutti i compagni disoccupati.
In una parola, la Borsa del lavoro è destinata a divenire il luogo di concentramento di tutti i lavoratori.
La Borsa del lavoro sarà il Mercato del lavoro; ed è suo dovere – come ben dice una circolare della Borsa di Parigi – di: «Regolare, avviare, facilitare la circolazione del lavoro; estendere a ciascuna corporazione e in generale alla massa della popolazione la conoscenza esatta dello stato del lavoro, dei salari, delle ore di lavoro, della condizione generale dell’industria e delle condizioni speciali dei diversi centri industriali; in breve, costituire progressivamente la Statistica comparata del lavoro sotto tutti gli aspetti».
Insomma: la Borsa del lavoro è per gli operai quello che sono la Borsa e le Camere di commercio per i padroni.
Osserva finalmente, Enrico Aimel, nel giornale la Vittoria della democrazia di Bordeaux: «Se c’è una cosa che deve sorprendere è che l’idea così semplice, così logica, così razionale di creare per gli operai ciò che già esiste per i padroni non sia entrata prima nel campo della pratica».
Ho rammentato le Camere di Commercio; ma non vorrei che alcuno credesse – come credette un balordo giornaletto di Milano, l’Esercente – che queste Borse del lavoro siano un contro altare delle Camere di Commercio.
L’organizzazione del lavoro deve essere fatta contro l’organizzazione del capitale; ma gli operai non possono certo organizzarsi contro i commercianti che tra il produttore e il consumatore rappresentano la parte intermedia!
Né si chiamino irrisorie le funzioni della Borsa del lavoro, perché irrisorie sono le funzioni della Camera di Commercio. Non è la natura dell’istituzione che rende inefficace l’opera delle Camere di Commercio; ma è il modo con cui funzionano. Si infonda in esse del nuovo sangue, e anche le Camere di Commercio funzioneranno bene e proficuamente.
Questi sono i vantaggi forse lontani, e che non possono farsi sentire fortemente dall’oggi al domani. E siccome sarebbe assurdo – dato lo stato di miseria in cui è costretto a vivere il lavoratore – pretendere dall’operaio un interessamento straordinario per ciò che non lo interessa lì, pel momento, credo opportuno accennare anche a quanto le associazioni operaie possono ricevere dalla Borsa del lavoro, all’indomani della sua costituzione.
Lasciamo stare i grandi centri dell’industria e del commercio; e restringiamoci alle piccole e modeste città della provincia.
Quali sono le due più grandi difficoltà che si oppongono alla formazione e allo sviluppo delle società operaie, quand’esse – e ciò avviene 99 volte su 100 – non hanno il becco di un quattrino come fondo cassa?
La contabilità e il locale.
Si sa che gli operai, costretti per guadagnarsi la vita, a ficcarsi in un’officina o in una bottega a dieci o dodici anni, non hanno più il tempo di studiare, e ben presto dimenticano anche quel poco – molto poco! – che hanno potuto imparare a scuola.
Quindi quasi nessuno d’essi sa tenere in ordine un libro, e fare una operazione d’aritmetica. D’altronde, anche nei pochi casi in cui l’operaio sa tenere in mano una penna; è una barbarie pretendere che dopo dieci o dodici ore di lavoro duro e faticoso egli abbia a passare tutta la sera sui registri della società.
È quindi necessario pagare un individuo che sappia ben sbrigare le cose.
Ma, e i soldi dove si va a prenderli? E poi, si trova sempre un uomo che possa occuparsi due ore in una società, un’ora in un’altra, tre ore in una terza?
L’altra difficoltà è l’affitto. Una società naturalmente ha bisogno di un locale alquanto vasto, per tenervi le sue riunioni, ed i locali vasti costano quattrini. Senza contare le obbiezioni che fanno i padroni di casa, perché le società fanno del fracasso, e non ricevono sempre delle benedizioni dai vicini che hanno voglia di dormire e di star tranquilli.
Ebbene – la Borsa del lavoro risolve tutto. Essa dà ad ogni associazione il proprio locale; dippiù, ha un solo salone per le assemblee straordinarie.
Al mantenimento di uno o più contabili per l’amministrazione delle diverse società provvedono – con lievissima spesa – tutte quante le associazioni riunite.
Ma io ho detto una parola che può spaventar molti: Associazioni riunite.
Intendiamoci: la riunione in un solo ambiente di tutte queste associazioni, non implica menomamente alcuna abdicazione alle singole autonomie.
Tutte le società restano come prima, coi loro programmi, coi loro statuti, coi loro regolamenti, col loro ufficio, e colla loro amministrazione e – quello che importa! – colla loro cassa distinta, a sé.
Nella Borsa del lavoro, il concetto dell’associazione scompare, per lasciar posto a quello dell’arte o mestiere.
Mi spiego. Qui in Piacenza abbiamo due società di Cuochi e Camerieri; abbiamo inoltre dei soci della Sezione Tipografica e dei soci della Cooperativa Braccianti che appartengono anche alla Federazione Operaia tra i Figli del lavoro.
Ebbene: tutte queste società avranno – lo ripeto – un ufficio a sé. L’ufficio della Borsa del lavoro avrà delle liste divise per Arti e Mestieri sulle quali scriverà il nome di tutti i soci, senza distinzione di società. Le due società
Cuochi e Camerieri hanno – riunite – duecento Cuochi e Camerieri? Ebbene: la borsa avrà in nota 200 Cuochi e Camerieri. Che importa che nei Figli del lavoro ci siano p. es. venti braccianti? Che importa che nei Figli del lavoro ci siano dieci tipografi?
O fanno parte questi della Cooperativa e della Sezione tipografica, e la Borsa del lavoro li ha già in nota; o non fanno parte che dei Figli del lavoro, e la Borsa del lavoro li nota per proprio conto.
Ecco ciò che bisogna che tutti comprendano e facciano comprendere: tutte le società aderenti alla Borsa del lavoro, restano libere ed autonome.
La Borsa del lavoro è amministrata unicamente dagli operai; si vuole – come disse felicemente la commissione della Borsa Parigina – organizzare gli operai, senza l’intrusione del calabrone capitalista nell’alveare del lavoro.
Per la Francia la questione è risolta fin dal principio. Là le associazioni operaie sono composte esclusivamente da operai, tant’è vero che la legislazione francese ha disposizioni speciali pei sindacati operai e pei sindacati patronali.
Da noi invece le società di padroni e di operai insieme sono ancor molte: e per non escludere degli operai dal Beneficio della Borsa del lavoro si è pensato che tutte le società operaie, abbiano o non abbiano nel proprio seno dei padroni, possano far parte della Borsa senza che intralcino menomamente il passo al suo funzionamento.
Avvertii che il concetto dell’associazione nella Borsa del lavoro scompare e sottentrano le corporazioni d’arti e mestieri.
Ora che importa, se tre associazioni, p. es., su dieci, hanno nel proprio seno dei padroni?
Questi naturalmente non possono essere né occupati né organizzati nella classe operaia; quindi nella lista che terrà la Commissione della Borsa del lavoro il loro nome non figurerà, figurerà solo il nome degli operai.
In Italia avranno le Borse del lavoro, esito felice?
Sì – E non è vana tale affermazione, perché deriva dalla fiducia che si deve avere in tutte quelle istituzioni reclamate dai bisogni urgenti e dalle aspirazioni sante del proletariato, degli operai, i quali dopo tutto, costituiscono la gran maggioranza degli uomini che lavorano, ed alle cui spalle vive una minoranza che non fa un bel niente.
D’altronde il mondo procede per evoluzione e dànno della testa nel muro tanto gli idioti che pretendono arrestarne il fatale andare con delle leggi di repressione, con dell’opposizione tacita o palese, quanto coloro che – squilibrati di mente – credono di risolvere la questione sociale con le barricate.
Davanti al continuo trasformarsi delle istituzioni, è dovere non di un partito politico, ma di tutti gli uomini di cuore e di mente, di adoperarsi, ciascuno nella propria cerchia e nel proprio ambiente, a preparare il terreno alle trasformazioni stesse.
Affermare che l’organamento della odierna società è perfetto sarebbe una stoltezza; perché i cozzi violenti tra gli interessi e le tendenze delle diverse classi son la più bella prova che uno squilibrio profondo esiste.
È dunque onesto, è dunque morale – di fronte a tutte queste convulse indeterminate agitazioni – restarcene colle mani alla cintola?
No; non è né onesto né morale.
Ma lasciamo pure da parte la morale e l’onestà, due cose astratte, e veniamo al concreto: è conveniente per quella classe che non può davvero lamentarsi del presente stato di cose, per la classe dei padroni, dei capitalisti, dei gaudenti, è conveniente il guardare dalla finestra l’agitarsi delle masse operaie, accontentandosi di lanciar loro contro delle squadre di poliziotti e di carabinieri?
Ancora, crediamo di no.
Perché siccome lo status-quo non può durare; siccome l’accentrarsi continuo del capitale nelle mani dei pochi, e la conseguente rovina del piccolo commercio e della piccola industria assorbiti dalla grande industria e dal grande commercio, producono la moltiplicazione del proletariato; sicché noi vediamo una quantità di modesti negozianti e piccoli commercianti che falliscono per far luogo ai pesci grossi e poi si riducono a far l’operaio – è chiaro, è evidente, che urge occuparsi di questo proletariato – nel seno del quale i disoccupati aumentano sempre, ed avviarlo a uno stato migliore, organizzato e istruito, anziché lasciarlo agli istinti brutali della rivolta insensata.
Ora questi miglioramenti gli operai debbono acquistarseli coll’associazione; ed è l’associazione infatti quella che va donando una coscienza alle classi lavoratrici.
Ma anche l’associazione ha le sue forme corrispondenti ai bisogni ed alle esigenze dei tempi. Ed ecco perché dopo le società di M. S. vennero le Società di Resistenza; e dopo la Resistenza, la Cooperativa; ed ultima come federazione di tutte queste forme è venuta la Borsa del lavoro.
Non solo gli operai dunque devono salutare lietamente la comparsa delle Borse del lavoro, ma i padroni stessi debbono essere lieti, perché se hanno un po’ di intelligenza devono capire ch’è assai meglio trattare con della gente organizzata che con della gente sbandata e disorganizzata.
Adesso poi che il nuovo codice Zanardelli permette – oh degnazione! – lo sciopero non sorride a tutti l’idea di veder risolte tranquillamente la vertenza tra capitale e lavoro, arbitre le Borse del lavoro, che devono intervenire in tutte le questioni, e portare la parola della giustizia e delle serenità?
Si persuadano anche i più ritrosi, anche coloro che temono che gatta ci covi, perché vedono noi socialisti alla testa di quest’agitazione. Nulla di sovversivo hanno le Borse del lavoro; tant’è vero che la moderatissima Giunta di Milano molto probabilmente farà sua la proposta di impiantare la Borsa a Milano, sottoponendo al Consiglio quel progetto che le società operaie hanno formato.
Nulla di sovversivo e nulla di partigiano. Le questioncelle e il partito politico e religioso sono bandite da quest’istituzione schiettamente operaia.
Sulla bandiera della Borsa del lavoro deve essere scritto: Emancipazione del lavoratore, opera del lavoratore stesso.
E davanti ad essa scompaiono i rancori politici. Rimangono le coscienze oneste e le menti illuminate.
Auguriamoci che a Piacenza possa sorgere presto una Borsa del lavoro, efficacemente aiutata dal comune; perché sarebbe vergognoso che mentre si sprecano migliaia di lire per far divertire i signori al Teatro Municipale, non si trovasse il denaro per migliorare le condizioni dei lavoratori sfruttati.