Lettere tra Vittorio Emanuele e papa Pio IX del 1860

Corrispondenza tra il Papa Pio IX e il Re Vittorio Emanuele sulla questione delle Romagne.

Categoria: Risorgimento

Lettera di S. M. al Pontefice.

Beatissimo Padre, Con venerato autografo del 3 dicembre ora scorso, Vostra Santità m’impegna a sostenere innanzi al Congresso i diritti della Santa Sede.
Devo anzitutto ringraziare la Santità Vostra dei sentimenti, che la consigliarono a dirigersi a me in questa circostanza. Non avrei tardato finora a farlo, se il Congresso, come era stabilito, si fosse radunato. Aspettava che la riunione dei Plenipotenziari fosse definitivamente decisa per risponderle in modo più adequato, intorno al grave argomento di cui tratta la lettera che mi fece l’onore di dirigermi.
Vostra Santità nell’invocare la mia cooperazione per la ricuperazione delle Legazioni, pare voglia darmi carico di quanto è succeduto in quella parte d’Italia. Prima di confermare così severa censura supplico rispettosamente la Santità Vostra a Volere prendere ad esame i seguenti fatti e considerazioni.
Figlio devoto della Chiesa, discendente di stirpe religiosissima, come ben nota Vostra Santità, ho sempre nutrito Sensi di sincero attaccamento, di venerazione e di rispetto verso la Santa Chiesa e l’Augusto suo Capo. Non fu mai e non è mia intenzione di mancare ai miei doveri di Principe cattolico, e di menomare per quanto è in me quei diritti e quell’autorità che la Santa Sede esercita sulla terra per divino mandato del Cielo. Ma io pure ho sacri doveri da compiere innanzi a Dio e innanzi agli uomini, verso la mia patria e verso i popoli che la divina Provvidenza volle affidati al mio governo. Ho sempre cercato di conciliare questi doveri di principe cattolico e di Sovrano indipendente di libera e civile nazione, sia nell’interno reggi mento dei miei Stati, sia nel governo della politica estera.
L’Italia da più anni è travagliata da avvenimenti che tutti concorrono al mede simo scopo il ricupero della sua indipendenza. A questi ebbe già gran parte il magnanimo mio Genitore il quale, seguendo l’impulso venuto dal Vaticano, pigliato per divisa il detto memorabile di Giulio II, tentò di redimere la nostra patria dalla dominazione straniera. Egli mi legò morendo la santa impresa. Accettandola, credo di non allontanarmi dalla divina volontà, la quale certamente non può approvare che i popoli sieno divisi in oppressori ed oppressi. Principe italiano, volli liberare l’Italia, epperò reputai debito mio accettare per la guerra nazionale il concorso di tutti i popoli della penisola. Le Legazioni, per lunghi anni oppresse da soldati stranieri, si sollevarono, appena questi si ritirarono. Esse mi offersero ad un tempo il loro concorso alla guerra e la dittatura. Io che nulla aveva fatto per promuovere l’insurrezione, rifiutai la dittatura per rispetto alla Santa Sede, ma accettai il loro concorso alla guerra d’indipendenza, perché questo era sacro dovere d’ogni Italiano.
Cessata la guerra, cessò ogni ingerenza del mio governo nelle Legazioni. E quando la presenza di un audace generale poteva mettere in pericolo la sorte delle Provincie occupate dalle truppe di Vostra Santità, adoperai la mia influenza per allontanarlo da quelle contrade. Quei popoli, rimasti pienamente liberi, non sottoposti a veruna influenza estera, anzi in contraddizione coi consigli del più potente e generoso amico che l’Italia abbia avuto mai, richiesero con mirabile spontaneità ed unanimità la loro annessione al mio Regno.
Questi voti non furono esauditi. Eppure questi popoli, che prima davano sì manifesti segni di malcontento e cagionavano di continuo apprensioni alla Corte di Roma, da molti mesi si governano nel modo più lodevole. Si è provveduto alla cosa pubblica, alla sicurezza delle persone, al mantenimento della tranquillità, alla tutela della stessa religione. È cosa nota, e ch’io ebbi cura di verificare, essere ora nelle Legazioni i ministri del culto rispettati e protetti, i templi di Dio più frequentati che non lo fossero prima.
Comunque sia però, è convinzione generale che il governo di Vostra Santità non potrebbe ricuperare quelle provincie, se non colla forza delle armi, e delle armi altrui.
Ciò la Santità Vostra non lo può Volere. Il suo cuore generoso, l’evangelica sua carità rifuggiranno dallo spargere il sangue cristiano pel ricupero d’una provincia, che, qualunque fosse il risultato della guerra, rimarrebbe pur sempre perduta moralmente pel governo della Chiesa. L’interesse della Religione non lo richiede.
I tempi che corrono sono fortunosi. Non tocca a me, figlio devoto di Vostra Santità, ad indicarle la via più sicura per ridare la quiete alla nostra patria, e ristabilire su salde basi il prestigio e l’autorità della Santa Sede in Italia. Tuttavia mi credo in debito di manifestare e sottoporre a Vostra Santità un’idea, di cui sono pienamente convinto, ed è : che, ove Vostra Santità, prese in considerazione le necessità dei tempi, la crescente forza del principio delle nazionalità, l’irresistibile impulso che spinge i popoli d’Italia ad unirsi ed ordinarsi in conformità alle norme adottate da tutti i popoli civili, credesse richiedere il mio franco e leale concorso, vi sarebbe modo di stabilire non solo nelle Romagne, ma altresì nelle Marche e nel l’Umbria, tale uno stato di cose, che, serbato alla Chiesa l’alto suo dominio ed assi curando al Supremo Pontefice un posto glorioso a capo dell’italiana nazione, farebbe partecipare i popoli di quelle provincie dei benefici, che un Regno forte ed altamente nazionale assicura alla massima parte dell’Italia centrale.
Spero che la Santità Vostra vorrà prendere in benigna considerazione questi riflessi dettati da animo pienamente a Lei devoto e sincero, e che con la solita sua bontà vorrà accordarmi la Santa Sua benedizione.
Torino, 6 febbraio 1860, Vittorio EMANUELE.

Lettera del Papa al Re,

Maestà, L’idea che Vostra Maestà ha pensato di manifestarmi, è un’idea non savia e certa mente non degna di un Re cattolico e di un Re della Casa di Savoja. La mia risposta è già consegnata alle stampe nella enciclica all’Episcopato cattolico che facilmente ella potrà leggere.
Del resto, io sono afflittissimo non per me, ma per l’infelice stato dell’anima di V. M., trovandosi illaqueato dalle censure e da quelle che maggiormente la colpi ranno, dopo che sarà consumato l’atto sacrilego ch’ella coi suoi hanno intenzione di mettere in pratica, Prego di tutto cuore il Signore, affinché la illumini e le dia grazia di conoscere e piangere e gli scandali dati e i mali gravissimi da lei procurati colla sua cooperazione a questa povera Italia.
Dal Vaticano, li 14 febbraio 1860.
PIUS PP. IX.

Lettera di S. M. al Pontefice.

Beatissimo Padre, Gli avvenimenti che si sono compiuti nelle Romagne mi impongono il dovere di esporre a V. S. con rispettosa franchezza le ragioni della mia condotta.
Dieci anni continui di occupazione straniera nelle Romagne, mentre avevano portato grave offesa e danno alla indipendenza d’Italia, non avevano potuto dare né ordine alla società, né riposo ai popoli, né autorità al Governo.
Cessata l’occupazione straniera, cadde il Governo senza che nessuno si adoperasse per sorreggerlo o ristabilirlo. Rimasti in balia di sè medesimi, i popoli delle Romagne, ritenuti per ingovernabili, dimostrarono con una condotta che riscosse gli applausi dell’Europa, come si potessero introdurre fra essi gli ordini e le discipline ci vili e militari, colle quali si reggono i popoli più civili.
Ma le incertezze d’uno stato precario, già troppo prolungato, erano un pericolo per l’Italia e per l’Europa.
Dileguata la speranza d’un Congresso europeo, innanzi al quale si portassero le quistioni dell’Italia centrale, non era riconosciuta possibile altra soluzione fuorché quella di interrogare nuovamente le popolazioni sopra i loro futuri destini.
Riconfermata con tanta solennità di universale voto la deliberazione per l’annessione alla monarchia costituzionale del Piemonte, io doveva per la pace ed il bene d’Italia accettarla definitivamente. Ma, per lo stesso fine della pace, sono pur sempre disposto a rendere omaggio all’alta sovranità della Sede apostolica.
Principe cattolico, io sento di non recare offesa ai principi immutabili di quella Religione, che mi glorio di professare con filiale ed inalterabile ossequio.
Ma la mutazione che si è oggi compiuta risguarda gli interessi politici della Nazione, la sicurezza degli Stati, l’ordine morale e civile della società, risguarda l’indipendenza dell’Italia, per la quale mio Padre perdo la corona, e per la quale io sarei pronto a perdere la vita. Le difficoltà che oggi si incontrano, versano intorno ad un modo di dominio territoriale, che la forza degli eventi ha reso necessario. A queste necessità tutti i principati dovettero acconsentire, e la Santa Sede stessa l’ebbe riconosciuta negli antichi e nei moderni tempi.
In siffatte modificazioni della sovranità, la giustizia, e la civile ragione di Stato prescrivono che si adoperi ogni cura per conciliare gli antichi diritti coi nuovi ordini, ed è per ciò che, confidando nella carità e nel senno di Vostra Beatitudine, io La prego ad agevolare questo compito al mio Governo, il quale dal canto suo non permetterà né studio, né diligenza alcuna per raggiungere il desiderato intento, Ove pertanto la S. V. accogliesse con benignità la presente apertura di negoziali, il mio Governo, pronto a rendere omaggio all’alta sovranità della Sede apostolica, sarebbe pure disposto a sopperire in equa misura alla diminuzione delle rendite ei a concorrere alla sicurezza ed all’indipendenza del Seggio apostolico.
Tali sono le mie sincere intenzioni, e tali, credo, i voti dell’Europa. Ed ora che con leali parole ho aperto l’animo mio a V. S. aspetterò le sue deliberazioni colla speranza che, mediante il buon volere dei due governi, sia effettuabile un accordo che, riposando sul consentimento dei principi e sulla soddisfazione dei popoli, da stabile fondamento alle relazioni dei due Stati.
Dalla mansuetudine del Padre dei Fedeli io mi riprometto un benevole accogli mento, il quale dia fondata speranza di spegnere la civile discordia, di pacificare gli animi esasperati, risparmiando a tutti la grave responsabilità dei mali che potrebbero derivare da contrari consigli.
In questa fiduciosa aspettativa io chieggo con riverenza alla S. V. l’Apostolica benedizione.
Torino, 20 marzo 1860, VITTORIO EMANUELE.

Lettera del Papa al Re.

Maesta, Gli avvenimenti che si sono eccitati in alcune provincie dello Stato della Chiesa impongono il dovere a Vostra Maestà, com’ella mi scrive, di darmi conto della sua condotta in ordine a quelli. Potrei trattenermi a combattere certe asserzioni che nella sua lettera si contengono, e dirle, per esempio, che la occupazione straniera nelle Legazioni era da molto tempo circoscritta alla città di Bologna, la quali non fece mai parte della Romagna. Potrei dirle che il supposto suffragio universale fu imposto, non spontaneo: e qui mi astengo dal richiedere il parere di Vostra Maestà sopra il suffragio universale, come ancora dal manifestarle la mia sentenza. Potrei dirle che le truppe pontificie furono impedite dal ristabilire il Governo legittimo nelle provincie insorte per motivi noti anche a Vostra Maestà. Queste ed altre cose potrei dirle in proposito, ma ciò che maggiormente mi impone l’obbligo di non aderire ai pensieri di Vostra Maestà si è il vedere la immoralità sempre crescente in quelle provincie e gli insulti che si fanno alla religione e ai suoi ministri; per cui quando anche non fossi tenuto da giuramenti solenni di mantenere intatto il patrimonio della Chiesa, e che mi vietano di aprire qualunque trattativa per diminuirne la estensione, mi troverei obbligato a rifiutare ogni progetto, per non macchiate la mia coscienza con una adesione, che condurrebbe a sanzionare e partecipare indirettamente a quei disordini, e concorrerebbe niente meno che a giustificare uno spoglio ingiusto e violento. Del resto, io non solo non posso fare benevolo accoglimento ai progetti di Vostra Maestà, ma protesto invece contro la usurpazione che si consuma a danno dello Stato della Chiesa, e lascio sulla coscienza di Vostra Maestà e di qualunque altro cooperatore a tanto spoglio, le fatali conseguenze che ne derivano. Io sono persuaso che la Maestà Vostra, rileggendo con animo più tranquillo, meno prevenuto e meglio istruito dei fatti, la lettera che mi ha diretta, vi troverà molti motivi di pentimento.
Prego il Signore a darle quelle grazie, delle quali nelle presenti difficili sue circo stanze ella ha maggiormente bisogno.
Dal Vaticano, 2 aprile 1860.
PIUS. PIP. IX.

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