Liberalismo Socialista Primo saggio contro il Marxismo

Liberalismo Socialista Primo saggio contro il Marxismo

Articolo di Carlo Rosselli pubblicato su “Critica Sociale” nel 1923

Per molti sa ormai di vecchio e di stantio l’afferma zione essere il socialismo il logico sviluppo del liberalismo, i socialisti gli eredi legittimi e necessari di quella funzione liberale che spettò nel
secolo passato ai patrioti del Risorgimento. Nelle discussioni che da alcuni mesi a questa parte si svolgono nella stampa con una serietà ed una profondità veramente notevoli, si è in genere negata cotesta identità o cotesto rapporto di successione; anzi, più volte si è raffigurato il liberale come il concreto e nobile rappresentante della cavourriana teoria del juste milieu, posto al centro tra le due forze antagonistiche (la fascista e la socialista), che peccherebbero ambedue per spirito unilaterale, fazioso, dogmatico, e quindi illiberale. Si è detto replicatamente che tanto i socialisti quanto i fascisti non sono che l’espressione di due tendenze estreme, due faccie opposte di uno stesso prisma, lontane nel fine ma accomunate nei mezzi; entrambe porterebbero all’annullamento d’ogni libertà, affermerebbero i loro principi e postulati, in base ai quali combattono, come verità assolute, come dogmi ai quali sarebbe delittuoso l’opporsi; si porrebbero così automaticamente fuori di quel classico liberalismo, che trovò la sua compiuta espressione nel pensiero milliano e che suona a un dipresso così: se tutta la specie umana, ad eccezione di una persona, fosse d’un parere, e una persona sola fosse del parere contrario, non perciò la specie umana sarebbe giustificabile, se pretendesse di imporre silenzio a questa persona.
Ora è il caso di domandarsi: la sentenza di condanna della teoria e della pratica socialista alla stregua del pensiero liberale, trova in un passato non troppo remoto la sua giustificazione nella realtà dei fatti? Abbiamo oggi il diritto di appellarci contro codesta sentenza?
Per quanto si riferisce all’illiberalismo dei fascisti, sarebbe ozioso l’insistervi: essi stessi amano proclamarsi, non solo fuori del liberalismo, ma addirittura anti-liberali nel significato letterale della parola, e occorreva la infelice dialettica d’un idealista come il Gentile, solo preoccupato del famoso «inserimento nella realtà», per riaprire nuovamente la diatriba. Ma pei socialisti?
Pei socialisti io ho l’impressione che nelle generiche affermazioni dei liberali o sedicenti liberali un certo fondo di vero, in mezzo a molte falsità, tutto sommato, non manchi; o per lo meno mi sembra che costoro non abbiano oggi tutti i torti nell’assumere, nei nostri riguardi, cotesto atteggiamento. Tocca a noi, non tanto rettificare la nostra posizione profondamente mutata, quanto chiarirla, affermarla ancora più esplicitamente, senza timori di eresie, rompendo gli ultimi lacci artificiosi che legano tuttora tanti fedelissimi militi dell’idea socialista alla lettera del pensiero marxista e a tutta la vecchia romantica fraseologia, ormai in contrasto stridente colla mutata realtà.
Un po’ di falso e un po’ di vero. Il falso sta in quel mito, che si è venuto ormai accreditando presso le classi medie, specie poi nei ceti piccolo-borghesi, di un fascismo diretta reazione all’irrompente bolscevismo nostrano, laddove ogni persona di buona fede, che abbia seguito attentamente gli avvenimenti degli ultimi anni, non può disconoscere che il primo nacque quando il secondo, e per la crisi economica (disoccupazione) e per la crisi politica (tumulti annonari rientrati, uscita pacifica dagli stabilimenti dopo l’invasione del settembre 1920, ritorno della Missione socialista dalla Russia, scissione del Partito a Livorno) era ormai in piena decomposizione.
Il vero sta nel fatto incontrovertibile che, almeno sino allo scorso ottobre (data di nascita del Partito Unitario), in Italia non è mai esistito, dal 1900 in poi, un Partito Socialista, che potesse dirsi veramente liberale e democratico. La Direzione del Partito, salvo brevi parentesi riformiste, fu sempre in mano ai rivoluzionari; i quali, abbarbicati alla lettera del marxismo (fatta eccezione per la deliziosa parentesi volontarista mussoliniana), trattenuti, per eccesso ideologico e per una visione eccessivamente storicista del divenire sociale, dal rifiutare i principi della violenza levatrice, del colpo di mano barricadiero, della dittatura della minoranza, del famoso pulcino che rompe il guscio non meno famoso, ecc., finirono per legittimare, almeno in parte, la sfiducia degli avversari nella possibilità di esistenza di un Partito e di una pratica socialista con metodo liberale, la quale pare a me stia a base del Partito Unitario.
Nello stesso Convegno di Reggio Emilia dell’autunno 1920, che doveva portare alla affermazione decisa, e per quei tempi audacissima, di una frazione gradualista in seno al Partito, che era allora preda del massimalismo intransigente e nullista, si fece u posticino alla Dea Violenza; rispettando, sì, in tal modo, i diritti della Storia, che dimostra essere stata la violenza una necessità talora insopprimibile – lo stesso liberalismo non ebbe una origine pacifica e legalitaria –, ma indebolendo la propria posizione. Perché, se è vero che in concreti momenti storici può rendersi fatale l’uso della violenza, e ciò avviene automaticamente senza l’intervento precorritore di formule e teorie, è anche vero che il proclamare cotesto principio in un periodo in cui di codesta violenza bisogno non v’era, legittima le reazioni avversarie.

* * *

Le discussioni di questi ultimi mesi hanno posto chiaramente in luce due concezioni antitetiche del liberalismo.
Per l’una, esso sarebbe un sistema che comporta regole e norme determinate, che si richiama ad una specifica costituzione economico-sociale (appropriazione privata dei beni di produzione e di scambio; libertà economica, salariato, ecc.) e che si riassume nell’ordinamento della società borghese. Il seguace di questa sorta di liberalismo considererebbe quindi illiberale colui che lottasse, ad es., contro quella categoria storica che è il salariato o che, in genere, mirasse a modificare profondamente l’assetto attuale, ancorché si muovesse sul terreno legale, con metodo liberale.
Per l’altra, esso si risolverebbe unicamente in un metodo di pensiero e di azione, in uno stato d’animo, come disse assai bene Alessandro Levi in un articolo su Rivoluzione Liberale, metodo che non è, non può essere monopolio di questo o quel gruppo, di questo o quel Partito, e che sta a significare il rispetto per alcune fondamentali regole di giuoco, che stanno a base della civiltà moderna e che riassumono nel sistema rappresentativo, nel riconoscimento di un diritto all’opposizione e nella ripulsa dei mezzi violenti ed illegali. D’onde due conseguenze:
1) Chi si professa seguace del sistema liberale (Senatore Albertini) non può nel tempo stesso affermare il metodo liberale, che, per essere potenzialmente di tutti i Partiti e di tutte le ideologie, contrasta col sistema che si risolve in una ideologia determinata. I liberali tipo Albertini sono tali sino a che non si attenti alla base del sistema economico sociale ch’essi patrocinano.
Il raggio d’azione del liberalismo viene a ridursi in tal modo ad un cerchio chiuso; fuori di là no v’è salute; il diritto di opposizione sarebbe confinato nella muraglia borghese, nel sistema dei rapporti capitialisitici. Specificando ulteriormente, non sarebbe difficile dimostrare come il liberalismo albertiniano sia talmente angusto, da considerare estranei al sistema, veri illiberali, i protezionisti: cioè, il liberalismo si risolverebbe nel liberismo. Continuando di questo passo, è probabile che sulla faccia della terra un solo individuo potrebbe aspirare al titolo liberale!
Il sistema liberale è profondamente statico e cova in seno una profonda contraddizione.
Giunge ad ammettere la rotazione delle èlites, vuole magari (a parole…) l’elevazione del proletariato, riconosce talvolta, a denti stretti, una lotta di classe, ma considera tutti questi fatti come fenomeni interni, che debbono svolgersi entro i limiti del vecchio schema liberale borghese.
La teoria liberale ammette anche il socialismo, purché sia… liberale e borghese, salvo strillare contro le inevitabili degenerazioni!
2) Un Partito Socialista può essere (io direi: deve essere) liberale, quando per liberalismo si intenda quel principio metodico cui sopra accennavo e che dovrebbe presiedere alla lotta per la effettuazione dei rispettivi postulati. Non ci si può erigere a tutori della conculcata libertà contro ogni violenza e tirannia, quando nel tempo stesso si ammettono e la violenza e la tirannia come metodi per la propria particolare azione. È ciò che rende per lo meno goffe le lamentazioni dei comunisti e, in genere, di tutti quei gruppi che fanno della violenza l’unica o la principalissima leva per il trionfo del loro movimento.
Forse a taluno potrà sembrare che tale concezione liberale della prassi socialista nasconda in grembo un certo senso di relatività (non scetticismo), o per lo meno conduca ad ammettere intenzionalmente la possibile veridicità di principi e dottrine diverse, e quindi al riconoscimento di un loro diritto alla vita e magari della utilità della loro esistenza. Lo che potrebbe apparire come una cagione di indebolimento della teoria e della fede professata. come pure di raffreddamento nell’azione. Ma quanto più solida e radicata è quella fede che non teme la critica e il lavoro di erosione degli avversari! Ma quanto più forte è quel Partito che non rinnega, nel giorno del trionfo, quell’ordinamento che permise ad esso, oppositore, di crescere e rafforzarsi, e che a sua volta permetterà la esistenza e lo sviluppo di altre ideologie e movimenti ad esso contrari!
Col dir ciò, si badi bene, non mi muovo, no, nel beato regno dei sogni, perché, se la storia recente non è leggenda, esiste in un paese del globo (Inghilterra) un Partito Socialista Laburista che si appresta a conquistare il potere con metodo ed animo liberale, disposto sin d’ora a riconoscere, anche nel giorno non lontano del suo trionfo, il diritto all’esistenza legale di una più opposizioni. È precisamente questo diritto he sarebbe bene il Partito dichiarasse una volta per
sempre di voler riconoscere per l’avvenire, interpretando cum grano salis l’auspicio dei dottrinari e la fede delle genti nella possibilità di un regime nel quale i contrasti di classe abbiano a scomparire e ad annegare completamente nell’armonia universale.
Concludendo, chi accetta dunque il liberalismo come metodo e stato d’animo, deve riconoscere necessariamente come la funzione liberale passi perpetuamente dall’una all’altra parte politica, non sia legata definitivamente a questo o quel gruppo, a questo o quel Partito, che ne costituiscono solo l’organo transeunte, il semplice mezzo di espressione. Così, ad es., la funzione liberale, dopo la costituzione del Regno, si trasferì di fatto ai socialisti: lo che viene universalmente ammesso, almeno per il periodo anteriore al ‘900, che culminò nella lotta per la libertà.
Oggi, mutuati ed amplificati i termini, a dittatura instaurata, la situazione non appare grandemente diversa: dopo un periodo di smarrimento decennale è suonata l’ora per il Partito Socialista Unitario di farsi vindice ancora una volta delle fondamentali ed insopprimibili esigenze di un popolo che ami dirsi civile, di mostrarsi cioè degno depositario della concreta funzione liberale, che deve stare oggi al sommo delle nostre aspirazioni. In quest’ora grigia, in cui quel Partito che osa chiamarsi liberale si prosterna ai dittatori, accogliendo nel suo seno le vecchie vestali della reazione (Salandra e C.) l’ultima trincea che rimane è la socialista.
Tutte le fortune del movimento proletario e tutte le sue possibili miserie gravitano attorno ad un punto centrale: la lotta per la libertà, di fronte al quale ogni altra questione, politica od economica, di metodo o di fine, appare ben misera cosa.

/ 5
Grazie per aver votato!