Limiti della cultura bellica nell’Italia fascista

Autore: Philippe Foro
Titolo originale: Les limites de la culture de guerre dans l’Italie fasciste durant la Seconde Guerre mondiale
Riferimenti elettronici alla versione originale: Philippe Foro, «Les limites de la culture de guerre dans l’Italie fasciste durant la Seconde Guerre mondiale», Amnis [En ligne], 10 | 2011, mis en ligne le 01 mai 2011, consulté le 06 janvier 2021. URL: http://journals.openedition.org/amnis/1395; DOI: https://doi.org/10.4000/amnis.1395

Indice

Categoria: Saggi tradotti

I limiti della cultura bellica nell’Italia fascista durante la seconda guerra mondiale

Negli ultimi quindici anni circa, la questione della cultura della guerra ha generato un vivace dibattito tra gli storici della prima guerra mondiale. Perché i soldati della Grande Guerra resistettero in condizioni spaventose? Tra gli storici del consenso e della coercizione, le controversie sono spesso mancate di amenità[1]Per un aggiornamento su questo dibattito, possiamo leggere l’aggiornamento di Le Naour, Jean-Yves, Dictionnaire de la Grande Guerre, Paris, Larousse, 2008, pp. 19-24.. Il periodo della seconda guerra mondiale ha dato luogo anche a riflessioni sulla cultura della guerra, senza però raggiungere la stessa asprezza nello scambio di argomenti. La domanda merita di essere posta riguardo al soldato italiano del periodo dal 1940 (l’Italia dichiarò guerra a Gran Bretagna e Francia il 10 giugno 1940) al 1943 (il regime fascista fu rovesciato 25 luglio e un armistizio fu firmato con gli Alleati il 3 settembre 1943) nella misura in cui il fascismo italiano tenne un discorso sempre più aggressivo nella seconda metà degli anni 1930. Quale discorso fu tenuto dal regime riguardo alla sue importanti ambizioni internazionali? Qual era la realtà dei combattenti italiani rispetto agli obiettivi sperati dal governo?

Costruire un uomo nuovo e una cultura della guerra

Nella seconda metà degli anni Trenta la guerra divenne consustanziale con il fascismo italiano. In più occasioni Mussolini ha espresso la convinzione che lo stato di pace non può e non deve essere eterno. Questa convinzione si basa su diversi elementi. Innanzitutto la volontà di cancellare la “vittoria mutilata” del 1918. I trattati di pace non rispettavano le varie promesse fatte al governo italiano durante il Patto di Londra del 26 aprile 1915 (se l’Italia ha ottenuto il Trentino e Istria, ha dovuto rinunciare alla Dalmazia, a parte delle colonie tedesche e al protettorato sull’Albania) 3. Poi, l’ambizione di collocare definitivamente l’Italia tra le grandi potenze. L’Italia fascista non è, in linea di principio, più moderata della Germania nazista, e il programma annunciato da Mussolini il 4 febbraio 1939 annuncia la guerra contro le democrazie occidentali. Quel giorno, una riunione del Gran Consiglio fascista fu l’occasione per Mussolini per formulare il profilo di un’espansione italiana chiamata “la marcia verso l’oceano”. Entro termini non specificati dal Duce, l’Italia dovrà essere padrona di Corsica, Tunisia, Malta, Cipro, Canale di Suez e di Gibilterra. Così, il Mediterraneo diventerebbe un Mare nostrum italiano e l’Italia avrebbe accesso all’Atlantico e all’Oceano Indiano. Queste prospettive presuppongono un conflitto con Francia e Gran Bretagna. Tra imperialismo tedesco e imperialismo italiano è piuttosto una questione di velocità e di mezzi. Il dinamismo esterno del Terzo Reich fa passa per moderazione quanto in realtà è una moderazione derivante dal confronto con i mezzi a disposizione dell’Italia. Così, durante le trattative del Patto d’Acciaio, firmato a Berlino il 22 maggio 1939, Galeazzo Ciano, genero e ministro degli Esteri del Duce, insistette affinché il conflitto con le potenze occidentali non iniziasse prima del 1943, dando tempo all’Italia di completare il suo armamento duramente colpito dalla guerra in Etiopia e dalla partecipazione alla guerra civile spagnola, e anche per ricostituire le sue scorte di moneta e preparare l’opinione pubblica a un possibile conflitto. Infine, l’elemento ultimo su cui poggia la convinzione del Duce in favore della guerra, la certezza che la guerra sia la prova suprema attraverso la quale si deve realizzare l'”uomo nuovo” caro al fascismo.
Il desiderio di creare un uomo nuovo, un nuovo italiano, è uno dei segni più significativi del progetto totalitario[2]Su questo argomento si vedano Matard-Bonucci, Marie-Anne e Milza, Pierre (a cura di), L’Homme nouveau dans l’Europe fasciste (1922-1945). Entre dictature et totalitarisme, Parigi, Fayard, … Continue reading. Il 28 ottobre 1926, durante la celebrazione della marcia su Roma, Mussolini dichiarò: “Creeremo l’italiano nuovo, un italiano che non rassomiglierà a quello di ieri. Sono le generazioni di coloro che hanno fatto la guerra e sono quindi intimamente fasciste. Poi verranno le generazioni di coloro che noi educhiamo oggi e creiamo a nostra immagine e somiglianza”. Questa nazione fascista deve essere composta sia dall’élite delle trincee della Grande Guerra sia dalle generazioni di italiani che non hanno vissuto questo conflitto. Si tratta di rompere i legami con l’Italia neutralista e liberale, il cui principale rappresentante è ancora il vecchio Giovanni Giolitti all’inizio degli anni ’20. Achille Starace, segretario del PNF dal dicembre 1931 all’ottobre 1939, è molto esplicito al riguardo nel 1939: “La creazione dell’uomo, dell’Italiano nuovo di Mussolini, capace di credere di obbedire e di combattere, è stato infatti l’obbiettivo costante , verso il quale il partito si è rivolto con tutte le sue forze”[3]Citato in Gentile, Emilio, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 210. . Questa impresa consiste nel distaccare gli italiani dalle loro abitudini, retaggio di secoli di servitù legati alla presenza straniera, come afferma Mussolini il 27 ottobre 1930:

Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare e morale, che vanno dal 1600 al sorge di Napoleone. È una fatica grandiosa. Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno dopo giorno, in quest’opera di rimodellamento del carattere degli italiani.

Questo nuovo italiano viene definito dal Duce, assistito da Giovanni Gentile, nell’opera Dottrina del fascismo, pubblicata nel 1932.
Il fascismo vuole un uomo attivo, impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virile e consapevole delle difficoltà esistenti, pronto ad affrontarle. Vede la vita come una lotta e crede che spetti all’uomo creare una vita degna di lui, trovando dentro di sé i mezzi (fisici, morali, intellettuali) per costruirla.[4]Mussolini, Benito, La Dottrina del Fascismo, Torino, Gambino, 1932, p. 6
Questa vita sublimata a cui l’uomo nuovo deve tendere è riassunta dalla massima di Mussolini: “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. I dieci comandamenti dell’Avanguardista, l’organizzazione preposta alla organizzazione dei giovani italiani di età compresa tra i 14 e i 18 anni, sono indicativi dello spirito che vogliamo instillare. Così, il secondo comandamento afferma: “Se non sei pronto a dare anima e corpo alla Patria, lascia il Fascismo. Il Fascismo ripudia le tiepide fedi e i mezzi caratteri”. Il sesto comandamento sottolinea la virtù della disciplina: Non chiedere che la disciplina sia virtù soltanto al soldato nei ranghi e abito di ogni giorno e di ogni contingenza e la virtù base di ogni gerarchia . Un cattivo figlio , uno scolaro negligente , un cittadino inerte e riottoso non sono fascisti.
Il nono comandamento evoca la guerra: “Le buone azioni, come le azioni di guerra, non si troncano a metà: portale dunque fino alle loro estreme conseguenze”. Disciplinato, sportivo, virile, fermamente vigilato dal partito, l’italiano dell’Italia fascista deve sbarazzarsi degli stracci della vecchia cultura dell’Italia liberale ma anche, e questo non manca di porre un problema al fascismo, del cultura cattolica. È questa l’immagine di un uomo nuovo che Starace vuole rimandare indietro moltiplicando le prove, durante le quali la segretaria del PNF salta sopra un cavallo, anche in mezzo a un cerchio di fuoco o su una fila. baionette. “L’italiano di Mussolini […] era nelle mani del primo gerarca del fascismo incaricato di costruirlo giorno per giorno”, come sottolinea Antonio Spinoza[5]Spinoza, Antonio, Starace, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1988, p. 119.. Ma il modello assoluto è lo stesso Duce (nel 1923, uno dei suoi primi biografi-agiografi, Antonio Beltramelli, intitolò il suo libro L’uomo nuovo). A volte con sforzi concreti (quindi il nuoto non era naturale per lui …), Mussolini cerca di apparire come uno sportivo e un uomo di cultura (aveva in gran parte una formazione da autodidatta), mentre coltivava l’immagine del leader politico.

Le disillusioni della guerra

Così, per il regime fascista, il secondo conflitto mondiale è il momento della verità in cui l’Italia deve potersi affermare. La scelta della non belligeranza alla fine dell’agosto 1939 era solo temporanea agli occhi del Duce. Più passano i mesi, più il non intervento diventa insopportabile per il Duce perché, come spiega al genero, il 2 aprile 1940 ella “degraderebbe per un secolo l’Italia come grande potenza e per l’eternità come regime fascista.”[6]Sulla decisione di entrare in guerra, vedere Ennio Di Nolfio, “Mussolini et la décision italienne d’entrer dans la Seconde guerre mondiale”, in Girault, René e Frank, Robert (sous … Continue reading. Fu quando l’esito della guerra in Francia non fu era in dubbio che Mussolini decise di entrare in guerra. Ma lo svolgersi di questo provoca molta disillusione in Mussolini. Dal 21 giugno 1940, undici giorni dopo la dichiarazione di guerra alle forze franco-britanniche e i primi fallimenti contro le fortificazioni francesi nelle Alpi, Mussolini attaccò il popolo italiano davanti al genero: “È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista. Un popolo che è stato per sedici secoli incudine, non può, in pochi anni, diventare martello”[7]Le seguenti citazioni sono tratte dal Diario del Conte Ciano, genero e Ministro degli Affari Esteri del Duce, pubblicato da Rizzoli nel 1990. Da noi tradotte in francese.. Il 4 dicembre, quando le operazioni in Grecia si sono trasformate in confusione per le forze italiane, Mussolini ha nuovamente attaccato il popolo italiano: “È il materiale umano con cui lavoro che non è utilizzabile e che non può essere utilizzato. senza valore”. Il 23 dicembre il Duce sembrava iniziare una critica, intesa a rimanere del tutto riservata, al fallimento della cultura della guerra del regime. “Devo ammettere, però, che gli italiani del 1914 erano migliori di quelli di oggi. Non è un buon risultato per il regime, ma è così “. In effetti, l’ammissione è significativa! Il 16 febbraio 1942, venendo a conoscenza della caduta di Singapore, un’importante posizione strategica in Asia per l’impero britannico,[8]Dal dicembre 1941, le forze giapponesi del generale Yamashita hanno lanciato un’offensiva in Malesia. Il 15 febbraio, la guarnigione britannica del generale Percival si arrese. La campagna … Continue reading Mussolini praticò l’umorismo involontario. “Vorrei sapere che effetto ha avuto su questi fantasiosi orientali il fatto che quattro ufficiali inglesi si siano presentati con una bandiera bianca per chiedere la resa. Se fossimo stati noi, a nessuno sarebbe importato. Ma sono inglesi!”. Poi, il 7 marzo 1942, quando anche gli italiani sono in guerra da tre mesi contro Unione Sovietica e Stati Uniti, confessa a Galeazzo Ciano: “Questa guerra non è fatta per il Popolo italiano. Non ha la maturità né la consistenza per una prova così formidabile e decisiva. Questa è una guerra per tedeschi e giapponesi, non per noi”.
Uno dei paradossi dell’Italia fascista in guerra è che non è mai riuscita a mobilitare appieno le sue forze, quando la seconda guerra mondiale ha richiesto uno sforzo senza precedenti da parte dei belligeranti. Prima di tutto, a livello umano. Se facciamo un confronto con la prima guerra mondiale, vediamo che l’Italia ha mobilitato 5,2 milioni di soldati tra maggio 1915 e novembre 1918 per una popolazione di 36 milioni di italiani. Tra il giugno 1940 e il luglio 1943, solo 3,6 milioni di italiani passarono sotto le bandiere, mentre la popolazione italiana superò i 44 milioni di persone nel 1940. Nel 1943, 900.000 italiani hanno avuto successo, per vari motivi e vario, per sfuggire agli obblighi militari (per prendere solo l’anno 1940, 43.000 studenti sono esentati e non partecipano allo sforzo bellico). Il 1° luglio 1943 il generale Ambrosio, divenuto capo di stato maggiore, osservava: “È indiscutibile che nel Paese ci siano tanti giovani che non sono sotto armi e che danno l’impressione di non essere impegnati in una lotta spietata”[9]Citato in Rochat, Giorgio, Le guerre italiane (1935-1943). Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 316.. In realtà, il potere fascista non ha mai proclamato mobilitazione generale nel giugno 1940. Procedeva per incorporazioni successive, secondo le esigenze del momento, a rischio di trovarsi in situazioni onnipresenti. Quando il piano di attacco alla Jugoslavia fu abbandonato nell’agosto 1940, 600.000 uomini furono smobilitati per ragioni economiche e furono nuovamente mobilitati alla fine di ottobre, durante la guerra contro la Grecia. Tuttavia, a differenza del periodo della Grande Guerra, il numero dei giustiziati nell’esercito italiano è molto inferiore. Lo storico Giorgio Rochat stima il numero di condanne a morte comprese tra 120 e 130, di cui una cinquantina effettivamente applicate. Questa situazione gli ha fatto scrivere:

Un giovane ufficiale aveva abbastanza senso del dovere per essere ucciso alla testa dei suoi uomini, ma non abbastanza fede nella guerra fascista per far fucilare (imboscavano) quelli che si nascondevano. E gli alti funzionari hanno chiesto che i tribunali esercitassero grande severità ma non hanno dato seguito alle condanne a morte. La guerra fascista fu condotta con la tragica determinazione necessaria per consentire l’esecuzione dei soldati? Lasciamo aperta la questione.[10]Ibid., p. 334.

Questo fallimento della cultura della guerra non significa assenza di combattività da parte dei soldati italiani, un cliché e un’idea rimescolata nell’invidia. Analizzando le sconfitte italiane in Libia durante l’inverno 1940-1941, il generale britannico Fuller scrive:

La prima offensiva di successo in Libia fu dovuta alla schiacciante superiorità dei carri armati pesanti, dell’aeronautica e dell’artiglieria. La campagna segna il trionfo della forza meccanica sulla forza umana. Dall’inizio alla fine, gli italiani furono dominati non perché fossero soldati mediocri, ma perché anche se fossero stati migliori, non avrebbero potuto resistere a lungo al superiore armamento che gli inglesi potevano portare in gioco [11]Citato in Lormier, Dominique, Les guerres de Mussolini de la campagne d’Éthiopie à la république de Salo, Paris, Jacques Larcher éditeur, 1989, p. 70..

Allo stesso modo, sul fronte orientale, i soldati italiani inviati in Unione Sovietica hanno combattuto ferocemente in condizioni estreme. Mentre la battaglia di Stalingrado è iniziata, l’8a armata italiana è stata posizionata sul Don, dietro la città per coprire le posizioni tedesche, insieme alla 2a armata ungherese e alla 3a armata rumena, in un’area che si estende su 270 chilometri. La controffensiva sovietica su Stalingrado iniziò il 19 novembre 1942, culminando nell’accerchiamento delle forze tedesche. Il 16 dicembre 370.000 sovietici, supportati da 5.600 cannoni e 1.170 carri armati, attaccarono le posizioni italiane. Dopo alcuni giorni di resistenza, il fronte si spezzò e la ritirata si trasformò in un incubo per i soldati venuti dalla Toscana, dal Lazio o dalla Campania. In Souvenirs, pubblicato nel 1947 in Italia, il Sottotenente Eugenio Corti testimonia:

Lentamente, zoppicando, un soldato del sud mi si avvicinò. Era molto giovane, davvero un ragazzino. Entrambi i suoi piedi erano congelati; li aveva avvolti in pezzi di coperta che aveva legato con lo spago; se ricordo bene, era appoggiato a un bastoncino. Stava piangendo, voleva un posto nel camion. Il tenente in comando gli ha detto che non ce n’era nessuno. Il fante era alla fine del suo spirito; voleva sedersi dove ero seduto io. Gli altri passeggeri e io abbiamo cercato di spiegargli che era inutile che gli cedessi il passo. Infatti, una volta riavviato il camion, doveva equilibrarsi da solo e non era in grado di farlo. Resistetti, con feroce egoismo, alle sue ripetute suppliche: dentro di me si stava formando un gelo altrettanto spietato di quello che ci attanagliava. Alla fine ho seguito questo povero uomo sfortunato con gli occhi mentre zoppicava via; Ho sentito una lacrima inutile nella mia anima.[12]Eugenio Corti, La plupart ne reviendront pas, Paris, éditions de Fallois, 2003, p. 46.

Il bilancio della sconfitta sul Don è terribile per le truppe italiane che combattono in Oriente: 85.000 morti e dispersi, 30.000 feriti, 70.000 prigionieri, compresi quelli che erano caduti in precedenza nelle mani dei sovietici e di cui solo 10 000 torneranno nel paese. Quanto ai rimpatriati, raccontano le sofferenze subite e le conseguenze delle scelte militari del regime. Più che la responsabilità delle truppe stesse, i limiti del regime dovrebbero essere messi in discussione.
Questi limiti sono evidenti dal punto di vista economico. Occorre anzitutto richiamare una realtà oggettiva: la capacità dell’industria italiana è inferiore, in termini di produttività e di organizzazione della produzione, a quella degli altri maggiori belligeranti. Mentre l’Italia ha prodotto 11.000 aerei da guerra tra il 1940 e il 1943, la Germania ne ha prodotti 25.000, la Gran Bretagna 26.000 e gli Stati Uniti 86.000 solo nel 1943! Identico situazione per i veicoli blindati. Mentre l’Italia ha prodotto poco più di 3.700 carri armati dal 1940 al 1943, la Germania ne ha prodotti 20.000 e l’Unione Sovietica 24.000 nel 1943. Ma ciò non è sufficiente per comprendere l’entità del problema. In effetti, l’industria bellica italiana durante la prima guerra mondiale è praticamente paragonabile a quella del Regno Unito. Il potere fascista ha gran parte della responsabilità nella misura in cui si mostra incapace di mobilitare energie. Tra il 1915 e il 1918 il generale Alfredo Dallolio, sottosegretario di Stato, allora ministro degli armamenti e delle munizioni, aveva potuto progettare, avvalendosi della rete di prefetti, sindaci, comitati provinciali e industriali lo sforzo bellico e organizzare, con una disciplina tutta militare, il lavoro degli operai nel settore degli armamenti. Nel 1940, fu solo nell’ottobre, quattro mesi dopo l’entrata in guerra, che Mussolini ordinò l’istituzione di un piano d’azione a favore dello sviluppo e del coordinamento della produzione bellica. Il generale Carlo Favagrossa, nominato sottosegretario di Stato nell’ottobre 1939, poi ministro della produzione bellica il 6 febbraio 1943, non disponeva di organizzazione e risorse sufficienti. Inoltre, lui non è responsabile di tutti i comandi di guerra, che sono gestiti separatamente dai tre eserciti. I lavoratori delle industrie di armi non passarono sotto la giurisdizione militare fino al dicembre 1942, anche se questa misura fu adottata molto rapidamente durante la Grande Guerra. Mussolini, infatti, rifiuta di estendere la settimana lavorativa a 72 ore, il che avrebbe potuto consentire di accelerare i ritmi di produzione. Inoltre, la produzione militare è divisa tra grandi aziende sulle quali Mussolini ha in ultima analisi poco potere. Così, i motori sono prodotti dalla FIAT, le strutture dei serbatoi da Ansaldo. Questa situazione porta al seguente paradosso: la produzione industriale era maggiore nel 1938 che nel 1942 (indice 100 contro indice 89). Le difficoltà sono anche finanziarie. Il deficit del bilancio statale continua ad aumentare durante la guerra. Raggiungendo i 29,4 miliardi di lire nel 1939-1940, salì a 109,8 miliardi nel 1942-1943. Il governo sta cercando di limitare questo deficit ricorrendo ai buoni del tesoro e all’inflazione. La circolazione monetaria aumenta di quasi cinque volte dal giugno 1939 al giugno 1943, passando da 19,4 miliardi di banconote in circolazione a 97,6 miliardi. In molte zone il potere fascista non riesce a organizzare l’Italia in modo che il paese possa affrontare la terribile prova di una guerra mondiale. Di fronte alla prova dei fatti, il discorso militarista e totalitario raggiunge quindi i suoi limiti.

Distacco dalla società italiana e dal regime fascista

Nella prospettiva che si allontana di una guerra breve, il regime fascista deve affrontare, oltre alle difficoltà militari, il disincanto dell’opinione pubblica che gradualmente si trasforma in rifiuto. Già nel 1940 l’incidente durante un incontro tra soldati italiani e camicie nere riportato da Mario Rogni Stern è significativo di una rottura tra il regime, da loro rappresentato (la persona del Duce è in parte ancora risparmiata), e la truppa. “I brontolii iniziarono a sfuggire alla nostra colonna, seguiti da parolacce, poi insulti. Gli ufficiali hanno cercato invano di zittirci. Ma gli altri hanno smesso di cantare e si sono affrettati a correre.”[13]Citato in Rigoni Stern, Mario, En guerre. Campagnes de France et d’Albanie (1940-1941), Lyon, La Fosse aux Ours, 2000, p. 46. A questo livello, il discorso ufficiale del regime resta immutato, perché convinto della vittoria e del trionfo del fascismo, anche se non nasconde l’ampiezza della lotta e il tempo necessario per la vittoria. Rivolgendosi a un pubblico di editori di giornali il 18 maggio 1942, Mussolini disse:

Questi sono tempi duri, e perciò, per noi fascisti, bellissimi: infatti abbiamo sempre detto di disprezzare la vita comoda e adesso la vita scomoda è venuta. […] La guerra sarà lunga e noi vinceremo […]. Ma la vittoria non è ancora nel nostro pugno, c’è ancora molto da fare, l’Italia dovrà dare ancora un forte contributo alla lotta contro il bolscevismo, che è stata sempre la nostra lotta, e questo anche il popolo lo sente.[14]Guerri, Giordano Bruno, Rapporto al Duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Milano, Mondadori, 2003, pp. 347-349.

La guerra ha un impatto enorme sulla popolazione e questo viene verificato in diversi modi. Oltre all’angoscia di tante famiglie, quando una persona cara si ritrova su uno dei fronti dove stanno combattendo le truppe italiane – angoscia che si trasforma in dolore quando la scomparsa di questo caro viene annunciata da un bollettino ufficiale delle forze armate –, le restrizioni alimentari sono particolarmente sentite nei grandi centri urbani. La questione della cultura della guerra tende a passare in secondo piano rispetto ai problemi molto materiali e quotidiani. Nell’ottobre 1941 viene introdotta una tessera di razione del pane. Un adulto ha diritto a 200 grammi al giorno, una razione che passa a 150 grammi nel marzo 1942. Il problema del cibo è uno dei maggiori problemi evidenziati con regolarità dai rapporti di polizia e prefetture. Così, il 20 agosto 1941 a Messina: “Non si trova nulla da mangiare e la gente prevede che se per ora che siamo in piena estate non si trova nulla , figuriamoci in inverno che fame ci deve essere”. Oppure, a Genova, il 7 maggio 1942: “Da più di un mese neppure una patata e da venti giorni nemmeno un uovo”(Colarizi Simona, L’opinione degli italiani sotto il regime (1929-1943), Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 378 et 382.). L’umorismo ribelle non è assente. A Perugia troviamo sotto i graffiti FAME con sotto scritto fascismo, aeronautica, marina, esercito. D’altra parte, le città italiane subirono, soprattutto dalla seconda metà del 1942, i bombardamenti aerei. Il 22 ottobre 1942 Genova fu bombardata violentemente. Sei giorni dopo, mentre il regime celebrava il 20 ° anniversario della marcia su Roma, le città di Milano, Savona e Genova furono bombardate. A novembre, Torino e Genova hanno subito otto bombardamenti. Nella primavera del 1943, in previsione dello sbarco in Sicilia, furono presi di mira i comuni dell’isola – Catania, Palermo, Messina, Randazzo.
Il malcontento alimenta l’impopolarità del potere fascista. Il Partito Nazionale Fascista ha sempre meno controllo sulla società italiana. Il valzer dei segretari politici tende a mostrare che il regime cerca un uomo adatto, ma deve essere stato difficile trovarlo. Dal 30 ottobre 1939, data del licenziamento di Achille Starace, al 25 luglio 1943, si susseguirono quattro segretari: Ettore Muti dall’ottobre 1939 all’ottobre 1940, Adelchi Serena dall’ottobre 1940 al dicembre 1941, Aldo Vidussoni dal dicembre 1941 ad aprile 1943, Carlo Scorza dall’aprile al luglio 1943. Anche il governo sembra essere in crisi quando il Duce procede, secondo la sua stessa frase, a un “cambio della guardia” il 6 febbraio 1943. Ciano perde gli Affari Esteri e viene nominato ambasciatore presso la Santa Sede. Grandi viene sostituito al ministero della Giustizia, Bottai alla Pubblica Istruzione e Pavolini alla Cultura Popolare. Alla guida del Comando Supremo, Ugo Cavallero, promosso maresciallo nell’agosto 1942, viene sostituito dal generale Ambrosio. Mussolini subentra alla Farnesina, assistito da Giuseppe Bastianini, sottosegretario di Stato.
Molto più grave per un regime personalistico come quello dell’Italia fascista, il discredito colpisce anche il Duce, anche se la sua popolarità è rimasta notevole fino alla guerra. Ma la formula “Il Duce ha sempre ragione” viene minata a seguito di difficoltà militari e politiche. L’uomo è fisicamente e psicologicamente indebolito, fortemente segnato dalla morte del figlio Bruno in un incidente aereo nell’agosto 1941. Il suo entourage, in particolare la famiglia della sua amante, Claretta Petacci, è oggetto di aspre critiche, per i favori ottenuti grazie alla sua vicinanza al Duce. I suoi discorsi sono anche più rari e meno efficaci. È soprannominato compagno Mutolini (da muto). Così il suo discorso del 2 dicembre 1942, dopo diciotto mesi di silenzio, davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che avrebbe dovuto galvanizzare la nazione, cade nel vuoto, proprio come il suo ultimo discorso dal balcone del palazzo Venezia, il 5 maggio 1943. Il divorzio tra Mussolini e l’opinione pubblica peggiora man mano che la guerra continua. Il 18 febbraio 1943 un funzionario milanese scrive nel suo rapporto: “Quello che le mie orecchie hanno sentito del Duce è incredibile. Era maledetto, alcuni lo consideravano un “bastardo”, altri sentivano che questo grande bastardo doveva essere esposto ai pericoli della guerra perché cessasse di fare lo spavaldo”[15]Ibid, p. 401..
Da quel momento in poi, la cultura della guerra non è più tollerata. Interrogato da Heinrich Himmler sulla poca reazione degli italiani alla notizia della caduta di Tripoli nel gennaio 1943, Carmine Senise, capo della polizia, ha risposto: “Cosa vuole, che le persone che sono state nei rifugi durante la notte e poi devono aspettare un pezzo di pane per ore cantino Giovinezza?”[16]Citato in Vial, Éric, L’Italie au premier XXe siècle. Guerres, société et mentalités, Paris, Seli Arslan, 2003, p. 194. Giovinezza è il canto ufficiale del Partito Nazionale Fascista.. In questo anno 1943, il consenso minimo necessario per mantenere il regime, sembra non essere più presente. Anche all’interno dell’apparato fascista, buona parte dei gerarchi inizia il processo di distacco che sfocia nel voto del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e nella caduta di Mussolini.

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References

References
1 Per un aggiornamento su questo dibattito, possiamo leggere l’aggiornamento di Le Naour, Jean-Yves, Dictionnaire de la Grande Guerre, Paris, Larousse, 2008, pp. 19-24.
2 Su questo argomento si vedano Matard-Bonucci, Marie-Anne e Milza, Pierre (a cura di), L’Homme nouveau dans l’Europe fasciste (1922-1945). Entre dictature et totalitarisme, Parigi, Fayard, 2004, in particolare il contributo di Emilio Gentile, “Il nuovo uomo del fascismo”, pp. 35-63.
3 Citato in Gentile, Emilio, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 210.
4 Mussolini, Benito, La Dottrina del Fascismo, Torino, Gambino, 1932, p. 6
5 Spinoza, Antonio, Starace, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1988, p. 119.
6 Sulla decisione di entrare in guerra, vedere Ennio Di Nolfio, “Mussolini et la décision italienne d’entrer dans la Seconde guerre mondiale”, in Girault, René e Frank, Robert (sous la direction de), La puissance en Europe (1938-1940), Paris, Publications de la Sorbonne, 1984, pp. 73-88.
7 Le seguenti citazioni sono tratte dal Diario del Conte Ciano, genero e Ministro degli Affari Esteri del Duce, pubblicato da Rizzoli nel 1990. Da noi tradotte in francese.
8 Dal dicembre 1941, le forze giapponesi del generale Yamashita hanno lanciato un’offensiva in Malesia. Il 15 febbraio, la guarnigione britannica del generale Percival si arrese. La campagna malese costò agli inglesi 9.000 morti e 130.000 prigionieri.
9 Citato in Rochat, Giorgio, Le guerre italiane (1935-1943). Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 316.
10 Ibid., p. 334.
11 Citato in Lormier, Dominique, Les guerres de Mussolini de la campagne d’Éthiopie à la république de Salo, Paris, Jacques Larcher éditeur, 1989, p. 70.
12 Eugenio Corti, La plupart ne reviendront pas, Paris, éditions de Fallois, 2003, p. 46.
13 Citato in Rigoni Stern, Mario, En guerre. Campagnes de France et d’Albanie (1940-1941), Lyon, La Fosse aux Ours, 2000, p. 46.
14 Guerri, Giordano Bruno, Rapporto al Duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Milano, Mondadori, 2003, pp. 347-349.
15 Ibid, p. 401.
16 Citato in Vial, Éric, L’Italie au premier XXe siècle. Guerres, société et mentalités, Paris, Seli Arslan, 2003, p. 194. Giovinezza è il canto ufficiale del Partito Nazionale Fascista.

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