Lotta sociale e organizzazione nella metropoli

Lotta sociale e organizzazione nella metropoli, testo edito nel 1970 dal CPM (Collettivo politico metropolitano)

La chiusura delle lotte contrattuali, la crisi del movimento studentesco, lo scatenamento della repressione hanno generato smarrimento, confusione, fughe in avanti o indietro. È questa la conseguenza del rifiuto di guardare in faccia la realtà, sfuggendo sia alla sterilità di un attivismo sempre più contraddittorio con i fini che si propone, sia alla sclerosi ideologica che si ostina a cercare lontano (nel passato o in situazioni molto diverse dalla nostra) modelli d’azione che dobbiamo ricavare dalla realtà che ci sta sotto il naso.
La discussione che si è sviluppata all’interno del Collettivo politico metropolitano, e che viene qui riassunta nelle sue linee essenziali, ha avuto come tema centrale il problema dell’organizzazione nella metropoli. Appare infatti ormai chiaro che diatribe teoriche e iniziative pratiche si misurano nelle forme d’organizzazione e di lotta organizzata che sapranno produrre. E d’altra parte il cosiddetto «problema dell’organizzazione» diventa un gioco di formulette se non si fonda sulla valutazione del presente, dei suoi probabili sviluppi, delle forze in gioco, dei compiti che dobbiamo affrontare.
Questo documento costituisce il bilancio di un’esperienza politica concreta e la progettazione di un lavoro futuro. Abbiamo ritenuto opportuno stamparlo e diffonderlo come contributo a un più generale dibattito che si impone oggi alle forze della sinistra extraparlamentare italiana ed europea, e come definizione della nostra posizione politica.

1. Il movimento spontaneo delle masse e l’autonomia proletaria

Il dato storico concreto dal quale partire è il movimento spontaneo delle masse che si è sviluppato, a partire dal 1968, in Europa, nel cuore stesso della metropoli tardocapitalista accerchiata dall’immensa «periferia» africana, asiatica e latino-americana.
Prodotto dello sviluppo delle forze produttive materiali, il movimento esprime, in forme ancora embrionali e parziali (spontanee, appunto), una contraddizione antagonistica con il sistema generale di sfruttamento economico, politico, culturale.
La sua base sociale è costituita principalmente dalla nuova forza-lavoro: classe operaia «giovane», tecnici, studenti: il moderno proletariato europeo.
I punti più alti del suo sviluppo: le lotte studentesche del 1968, il maggio francese, le lotte operaie «selvagge» della Pirelli, della Renault, della Hoesch, della FIAT, le lotte dei tecnici, dei ricercatori, degli operatori culturali, ecc.
Le sue prime forme organizzative: comitati di base, gruppi di studio, comitati d’azione, movimenti studenteschi di sede, ecc.
Stretto in una morsa tra l’organizzazione capitalistica del lavoro e le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, tra i miti della società del benessere e le irrigidite ideologie degli apparati burocratici, il movimento conosce momenti esplosivi, dove tutto sembra possibile, e momenti di riflusso, dove sembra sparire.
È in questo quadro complessivo che si inserisce la nostra lotta. È dall’analisi di questa realtà storica, dalla comprensione delle sue ragioni più profonde, che si può ricavare una traccia che guidi l’azione futura. È dall’inserimento organico, interno, nel movimento che deriva la possibilità di un’iniziativa politica reale.

MOVIMENTO DI MASSA E AUTONOMIA PROLETARIA

Le lotte di massa del 1968 e 1969 costituiscono un fenomeno storico complesso che, come tale, non si presenta ammantato di quella «purezza ideologica» che tanto piace ai rivoluzionari da biblioteca. Espressione dell’attuale livello di contraddizioni all’interno dell’area capitalistica europea, il movimento di massa presenta caratteristiche contraddittorie che non è possibile racchiudere in una formula prefabbricata. Nè, d’altra parte, per assenza di parametri d’interpretazione bell’e fatti, possiamo rinunciare a discriminare, all’interno di quelle lotte, ciò che appartiene al passato e ciò che tende verso il futuro, ciò che è vivo da ciò che è morto. In parole povere: non possiamo rinunciare a distinguere quegli elementi deboli, velleitari, facilmente recuperabili dal sistema, da quegli elementi che tendono a svilupparsi in direzione della lotta rivoluzionaria.

Noi vediamo nell’autonomia proletaria il contenuto unificante delle lotte degli studenti, degli operai e dei tecnici che hanno permesso il salto qualitativo 1968-1969.
L’autonomia non è un fantasma o una formula vuota alla quale oggi, di fronte alla controffensiva del sistema, si aggrappano i nostalgici delle lotte passate. L’autonomia è il movimento di liberazione del proletariato dall’egemonia complessiva della borghesia, e coincide con il processo rivoluzionario. In questo senso l’autonomia non è certamente una cosa nuova, un’invenzione dell’ultima ora, ma una categoria politica del marxismo rivoluzionario, alla luce della quale valutare la consistenza e la direzione di un movimento di massa.
Autonomia da: istituzioni politiche borghesi (stato, partiti, sindacati, istituti giuridici, ecc.), istituzioni economiche (l’intero apparato produttivo-distributivo capitalistico), istituzioni culturali (l’ideologia dominante in tutte le sue articolazioni), istituzioni normative (il costume, la «morale» borghese).
Autonomia per: l’abbattimento del sistema globale di sfruttamento e la costruzione di un’organizzazione sociale alternativa.
Questo processo, naturalmente, non si presenta in modo inequivoco, nello stesso momento e con la stessa intensità, ma è appunto un processo che si sviluppa in un tempo storico determinato e che, vincente sul piano strategico, può conoscere gravi sconfitte tattiche.
Manifestazioni dell’autonomia furono, ad esempio, le lotte della socialdemocrazia tedesca nella seconda metà del secolo scorso, l’azione dei bolscevichi nella Russia rivoluzionaria, la formazione dei partiti comunisti in Europa dopo la prima guerra mondiale, la lunga marcia della rivoluzione cinese, ecc. E, per venire più vicini a noi, l’autonomia proletaria ha saputo esprimersi, seppure in modo soltanto episodico, in vari momenti del dopoguerra: basti citare la reazione popolare all’attentato a Togliatti, e i moti di piazza contro il governo Tambroni. Non è neppure cosa nuova che l’ostacolo principale allo sviluppo dell’autonomia sia costituito proprio dalle organizzazioni «tradizionali» del movimento operaio e da tutte le tendenze opportunistiche. La lotta di Marx contro il «socialismo borghese», dei bolscevichi contro i menscevichi, la stessa rivoluzione culturale cinese sono gli esempi storici più lampanti.
Tuttavia, una volta esplicitati questi elementi di continuità storica, è necessario misurarsi con il presente, e rispetto a questo definire il proprio comportamento politico. È necessario cioè fare i conti con le lotte di massa del 1968 e del 1969 e con l’autonomia proletaria così come si è manifestata in questo periodo.

LE LOTTE DI MASSA DEL 1968-1969

Seppure diverse nei modi e contraddittorie nei contenuti le lotte di massa che si sono sviluppate in Europa negli ultimi due anni vanno considerate come un fenomeno complessivo, espressione di una realtà sostanzialmente omogenea.
Il movimento ha avuto inizio con le lotte de gli studenti, lotte che hanno avuto una duplice funzione:
– hanno riattivato a livello di massa Il movimento autonomo del proletariato, dimostrando praticamente che l’intero sistema di sfruttamento economico-politico non è più in grado di contenere e canalizzare istituzionalmente le contraddizioni da esso prodotte. Il fenomeno si colloca in una più generale rottura degli equilibri economico-politici mondiali, caratterizzata dalle lotte rivoluzionarie del terzo mondo e dallo smascheramento del revisionismo;
– hanno dimostrato come la fisionomia dei proletariato fosse profondamente mutata nel corso degli ultimi decenni. Il movimento degli studenti non ha avuto una funzione di «detonatore», fiancheggiatore, precursore e alleato della classe operaia, ma si è rivelato come elemento dinamico nel processo di formazione dei proletariato moderno in regime tardo-capitalistico. Che i revisionisti e i loro epigoni abbiano tentato di isolare il movimento degli studenti nell’ambito della contestazione (e quindi fenomeno sovrastrutturale) e di sottolinearne il carattere di «alleato» della classe operaia (naturalmente rappresentata dai partiti «storici» e dai sindacati) ciò dimostra soltanto come la lotta teorica contro le manipolazioni ideologiche costituisca un fronte di lotta per il movimento autonomo.
Che una parte del movimento studentesco – e soprattutto le incrostazioni burocratiche e leaderistiche che si sono formate al suo interno – continui a concepire se stesso come «ceto medio», significa soltanto che la coscienza di classe può e deve svilupparsi attraverso una dura lotta fra destra e sinistra del movimento.
I contenuti generalizzabili (non particolari o episodici) del movimento degli studenti: rifiuto dell’aspetto puramente rivendicativo delle lotte, riscoperta dei metodi Illegali e violenti di lotta, superamento delle organizzazioni tradizionali, si sono estesi alle lotte operaie attraverso l’opera soggettiva organizzata di gruppi di studenti e operai.
È qui inutile rievocare le grandi lotte operaie che si sono svolte su tutta l’area europea nel corso del 1968 e del 1969. Importa piuttosto intendere quanto vi era in esse di nuovo, quanto usciva dall’ambito della conflittualità istituzionalizzata e tendeva a porsi in antagonismo col sistema.
Il punto di partenza è la denuncia della condizione di fabbrica, attaccata globalmente in termini di rifiuto. La classe operaia acquista coscienza che lo sfruttamento nella giornata lavorativa in fabbrica non è che un momento dello sfruttamento più generale cui i lavoratori sono soggetti.
Coscienza che si traduce praticamente in questi termini:
– necessità di legare l’aspetto economico e politico della lotta, affermando la priorità del secondo sul primo. È questo il frutto di una tendenza oggettiva del tardocapitalismo, in cui gli aspetti economici e politici non solo sono interdipendenti (constatazione che sta alla base del metodo marxista) ma tendono a identificarsi. Le scelte del capitale sono cioè immediatamente economico-politiche a tutti i livelli, da quelli della programmazione nazionale e internazionale, a quelli delle singole unità produttive. La classe operaia italiana, del resto, ha fatto fino in fondo questa esperienza negli ultimi vent’anni: constatando che ogni «vittoria» sul piano economico si capovolgeva in una sconfitta politica, che consentiva quindi al capitale di recuperare quanto era stato «concesso» e di intensificare lo sfruttamento.
In nome della «ricostruzione nazionale» di togliattiana memoria la classe operaia aveva rinunciato al suo potere in fabbrica, conquistato durante la resistenza, dovendo così subire la repressione delle sue avanguardie.
Dopo di che un sindacato indebolito e un partito estromesso dovevano accettare le dure condizioni del padronato. II tentativo di rompere questa meccanica è alla base delle lotte autonome negli ultimi due anni;
– capacità dell’autogestione della lotta. Gli organismi di base, sorti non in concorrenza ai sindacati ma come espressione organizzativa dei nuovi contenuti, rifiutano il ruolo di mediazione assunto dalle organizzazioni tradizionali e si pongono come strumenti ed espressione insieme della lotta. La loro opera ha contribuito a sviluppare enormemente nella classe operaia l’esigenza di autonomia, di democrazia diretta, di una lotta continua e globale che attacchi lo sfruttamento continuo. Comprendere, come abbiamo compreso, che i comitati di base e i gruppi di studio sono insufficienti per affrontare la dimensione attuale della lotta, e che si rende necessario un salto di qualità, non significa… fare due passi indietro, negando i contenuti stessi delle lotte autonome. È per sviluppare quei contenuti che si rende necessario il salto politico-organizzativo.
Nota. Di fronte al «recupero» sindacale e alla crisi degli organismi di base alcuni «rivoluzionari» che si dichiarano marxisti-leninisti (non sembri ironico!) si sono affrettati a prosternarsi davanti al sindacati e al PCI, riconosciuti come attuali uniche organizzazioni della classe operaia. Naturalmente in attesa che caschi , dal cielo il partito marxista-leninista vero, il quale – lui sì – sconfiggerà i revisionisti e farà la rivoluzione. Può servire a questo punto una citazione di Lenin: «Di fatto, la particolare rapidità e il carattere particolarmente ripugnante dello sviluppo dell’opportunismo non ne garantiscono la sicura vittoria, così come la rapidità dello sviluppo di un ascesso purulento su un organismo sano non può far altro che accelerarne la maturazione e liberarne più rapidamente l’organismo. Più pericolosi di tutti, da questo punto di vista, sono coloro che non vogliono capire che la lotta contro l’imperialismo, se non è indissolubilmente legata con la lotta contro l’opportunismo, è una frase vuota e falsa».
Le lotte dei tecnici costituiscono, da un certo punto di vista, il fenomeno più nuovo di questa fase di lotte.
Esse hanno contribuito a rendere politicamente evidenti le caratteristiche della metropoli, che tende a «modellarsi» sullo schema di funzionamento e di potere delle aziende ad alto livello tecnologico. In modo più specifico, queste lotte hanno dimostrato che l’automazione delle funzioni, cioè la parcellizzazione e la canonizzazione in schemi «scientifici e razionali», ha determinato la fine della distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, e la loro sostituzione con una unica catena in cui è impossibile distinguere le mansioni manuali da quelle intellettuali. In questo senso è da Intendersi l’affermazione, che spesso ricorre nel corso delle lotte dei tecnici: il tecnico che opera in una struttura aziendale moderna non è altro che un operaio inserito in un’azienda ad alto livello tecnologico.
Ma proprio nei confronti delle lotte dei tecnici si manifesta l’impotenza e l’ottusità del movimento operaio «tradizionale». Infatti, a parte la moda di un momento e la sopravvalutazione verbale delle «lotte dei tecnici», e l’abuso del termine «proletarizzazione», quasi nessuno, nè i sindacati e i partiti, e neppure, salvo eccezioni, il movimento studentesco, ha saputo stabilire un rapporto politicamente fondato con i nuclei agenti (gruppi di studio, ecc.) che esprimono il più alto livello di coscienza e di impegno di questa parte fondamentale del moderno proletariato.
Il riferimento alla decrepita categoria dei «ceti medi» e lo stesso concetto di proletarizzazione, che presume staticamente determinata la fisionomia del proletariato (confuso con la categoria sociologica degli operai), impediscono anche la rilevazione teorica del problema. Ma è sul piano pratico che casca l’asino. L’incapacità di accettare l’originalità espressiva dei comitati di base, e quindi di intendere realmente le radici socio-economiche del movimento spontaneo delle masse, poteva essere apparentemente superata nei rapporti con i nuclei operai, facendo leva sull’inerzia della tradizione. Ma ciò è risultato impossibile nei confronti dei gruppi di studio e dei comitati di tecnici: la novità del fenomeno, le sue caratteristiche sperimentali, i suoi fondamentali caratteri politici (crisi di fiducia nel meccanismo della delega, unità immediata di obiettivi politici ed economici, globalità dell’opposizione al sistema) ne hanno impedito il recupero parassitario o strumentalizzatore.
E, d’altra parte, qualunque lavoro politico che prescinda, in Europa, dal movimento dei tecnici, si pone automaticamente alla periferia politica della metropoli. Viceversa, affrontare in modo corretto il superamento della fase spontanea dell’autonomia proletaria, e delle sue parti componenti: operai, studenti, tecnici, significa porsi al livello reale dei problemi dell’iniziativa rivoluzionaria metropolitana.

LA SINISTRA ITALIANA E LE LOTTE 1968-1969

Chi voglia collegarsi con le lotte o si consideri loro espressione deve oggi saper cogliere nel suo insieme ciò che implica il manifestarsi dell’autonomia, dal livello più appariscente fino ai significati più profondi e alle conseguenze a lungo termine.
Tuttavia i gruppi della sinistra italiana emersi dalle recenti lotte ne sfruttano soltanto aspetti parziali, limitando così gravemente l’efficacia della loro azione.
Un primo modo, elementare ma immediato, di essere presenti nelle lotte sta nel rincorrere gli scoppi di lotta ovunque essi si manifestino (università, Battipaglia, Fiat, Pirelli, tecnici, bancari, ecc.) con un unico fine: produrre una «radicalizzazione» della lotta attraverso l’esaltazione delle forme in cui si manifesta; i contenuti della lotta sono lasciati in secondo piano. Questa prassi politica è fondata sulla tesi spontaneistica che la lotta di classe è possibile solo creando lotte di massa, non importa su quali obiettivi, purchè tali lotte si facciano in modo violento. Una volta che il movimento sarà generalizzato, allora sarà possibile dargli una dimensione politica rivoluzionaria e organizzata. In questo modo, facendo precedere la lotta all’azione politica, si mantiene la frattura tra esse, si ripropone la vecchia distinzione tra lotte economiche e lotta politica.
Un secondo modo, più politico e accorto, vede le forme della lotta come condizione della lotta di classe, ma indica come condizione non meno importante gli obiettivi della lotta, soprattutto per arrivare alla unificazione e alla generalizzazione dello scontro. Gli obiettivi devono essere non integrabili, contenere tutto l’antagonismo di classe possibile, ed essere dunque di per sè capaci di mettere in crisi l’equilibrio economico-politico del sistema (es. 120.000 lire di salario uguale per tutti). Sugli obiettivi si generalizza la lotta: alla classe operaia spetta il compito di radicalizzarla e farla giungere al massimo livello di scontro. Nella lotta di classe vengono quindi distinti tre elementi: gli obiettivi, le forme di lotta, l’organizzazione. Alla classe operaia spetta di radicalizzare la lotta sugli obiettivi unificanti, ma l’organizzazione è il risultato delle lotte.
Le organizzazioni di base sono solo strumento funzionale e transitorio delle lotte, ma la dimensione politica è costituita in un primo stadio dagli obiettivi e in un secondo, più importante, dall’organizzazione generale. La lotta viene quindi considerata avanzata o arretrata nella misura in cui esprime obiettivi unificanti e forme radicali. L’organizzazione emerge dopo, come esigenza di «conservare» i risultati conseguiti durante la lotta, al livello di coscienza e di combattività che si sono prodotte. Si giunge così a un rafforzamento del fronte operaio commisurato al rafforzamento del fronte padronale. L’ipotesi è quindi quella di una lunga «guerra di posizione», nel corso della quale la classe operaia si rafforza nella misura in cui si organizza. Per entrambe le due posizioni analizzate (alla prima appartengono, in linea di massima, Lotta continua e le assemblee operai-studenti; alla seconda Potere operaio) l’autonomia è la condizione preliminare perchè si ponga la lotta stessa. L’autonomia è intesa come «indipendenza» dal sindacato e dal partito, e poichè si sa che sindacati e partito non sono stati sconfitti dai moti d’indipendenza, si progettano guerre d’indipendenza (attraverso l’organizzazione generale delle lotte, capace di «conservare» l’autonomia in tutte le sue manifestazioni, anche in seguito al riflusso delle lotte).
Lo sviluppo dell’autonomia è inteso dunque come sviluppo organizzativo da contrapporre alle organizzazioni tradizionali.
Noi riteniamo restrittiva e superficiale questa concezione dell’autonomia, la quale, così considerata, diventa unicamente strumento e condizione per far sviluppare le lotte, senza costituirne, insieme la loro dimensione politica di opposizione radicale e rivoluzionaria al sistema.
Nel momento in cui si chiude un ciclo di lotte – e se ne riapre un altro che avrà, a nostro parere, caratteristiche molto diverse – ci è sembrato utile fare un riesame critico delle lotte. Per riassumere, possiamo distinguere, all’interno del movimento operaio, due atteggiamenti fondamentali rispetto alle lotte autonome di massa del 1968-69:
– di chi non ne intende l’aspetto di rottura e tenta di recuperarne e sfruttarne le potenzialità ai fini di una sorta di «restaurazione politica». La forma di questa restaurazione è varia: da quella revisionista che tende a trasformare una sconfitta politica in una vittoria organizzativa (anche a prezzo di una definitiva rinuncia alla propria collocazione di classe), a quella dei gruppi ideologici minoritari che si sono affrettati a riproporre i loro vecchi schemi, senza intendere che proprio il movimento autonomo costituisce la più radicale critica pratica di massa a tutte le posizioni imperniate sulla rimasticatura ideologica e sulla riproposta delle linee perdenti del movimento operaio. Queste posizioni, seppure fortemente concorrenziali tra loro, concordano su un punto: la sottovalutazione e il rifiuto del frutto politico più maturo delle lotte: l’autonomia proletaria;
– di chi, pur essendo di varia derivazione e tendenza, ha compreso che l’autonomia proletaria è il punto nodale dal quale partire per il lavoro politico futuro. Sarebbe fin troppo facile ricordare gli errori, le avventatezze, i settarismi, le ingenuità e perfino le scorrettezze che hanno danneggiato, ritardato e spesso deviato i gruppi che si ricollegano all’autonomia. Tuttavia noi – che in questo ambito ci collochiamo – riteniamo che sia questa l’unica posizione feconda, l’unica in grado di sviluppare la lotta rivoluzionaria nella metropoli europea.
Perchè di questo si tratta. Non tanto di vincere subito e di conquistare tutto (i facili slogan degli apprendisti manipolatori), ma di crescere in una lotta di lunga durata, utilizzando gli stessi potenti ostacoli che il movimento incontra sul suo cammino per compiere il salto da movimento spontaneo di massa a movimento rivoluzionario organizzato.

2. Ristrutturazione socialcapitalista e lotta di classe

Scrive Marx in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: «Ad eccezione di alcuni pochi capitoli, ogni periodo importante degli annali rivoluzionari dal 18-48 al 1849 porta come titolo: Disfatta della rivoluzione!
Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultati di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e di cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte.
In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario».

SINDACATI E PARTITO DI FRONTE AL MOVIMENTO AUTONOMO DELLE MASSE

L’azione sindacale si è articolata – a partire dal 1967, quando iniziano le prime lotte spontanee consistenti – in tre momenti:
– In un primo momento si è avuto il tentativo di sfruttare la nuova potenzialità di lotta della classe operaia per poterne ricavare maggiore incidenza organizzativa e un più alto potere contrattuale. In generale le lotte spontanee venivano sottovalutate ed attribuite a deficienze locali del sindacato. È il momento in cui si tenta l’integrazione all’interno di sindacati e partiti degli elementi più «giovani» e più combattivi.
– La seconda fase, caratterizzata principalmente dalle grandi lotte alla Pirelli e a Porto Marghera, vede il sindacato impegnato in una affannosa rincorsa dei comitati di base in chiave puramente difensiva. È Il momento del disorientamento, in cui gli attivi sindacali passano da tentazioni repressive a fughe in avanti e demagogiche. Nelle situazioni più arretrate, iniziativa autonoma della classe operaia e azione sindacale si mescolano ambiguamente.
È per esempio in questo periodo che si consolida all’interno della CISL il gruppo dirigente FIM che costituisce un po’ l’ala marciante del futuro recupero sindacale.
– È nel periodo contrattuale che i sindacati buttano tutto il loro peso organizzativo e politico sulla bilancia per trasformare una tattica difensiva in una strategia offensiva.
Gli elementi sui quali puntano sono fondamentalmente:
1) Unità sindacale: è la forma attraverso la quale si sfrutta e si combatte l’unità di base, contenuto essenziale dei movimento spontaneo delle masse. «Uniti si vince» è uno slogan che interpreta un’esigenza profonda della classe operaia, rovesciandone però il significato: l’unità si realizza al punto più basso, isolando le avanguardie reali, puntando contemporaneamente sulle illusioni massimalistiche dei vecchi militanti PCI e sul qualunquismo della destra operaia. In nome dell’unità si controlla e si limita la lotta, si svirilizzano le manifestazioni all’esterno della fabbrica, riducendole spesso a vuote processioni, si accusano i nuclei extra-sindacali di essere «venduti» al padrone, si denuncia ogni azione politicamente creativa come estremista.
2) Democrazia sindacale: è l’alternativa arretrata, riformista alla democrazia diretta. Così come la democrazia diretta è la forma che viene assumendo l’autonomia operaia, e che tende a trasformarsi in democrazia rivoluzionaria, la democrazia sindacale è la forma del controllo, l’istituzionalizzazione e la cristallizzazione di un potere verticalizzato e centralizzato, il risucchio della democrazia operaia nella spirale della democrazia formale borghese. Non a caso contemporaneamente al lancio degli strumenti di democrazia sindacale si sviluppano le forme più dure della repressione contro i comitati di base, i gruppetti esterni, i «cinesi». Contemporaneamente la democrazia sindacale alimenta l’illusione di un utilizzo operaio del sindacato.
CGIL e CISL si spartiscono i compiti: mentre la prima porta avanti la linea di un «centralismo democratico» che sembra l’aggiornamento dello stato corporativo (una democrazia di tipo nuovo, dice Ingrao, che si sviluppa su una linea ininterrotta dal delegato di linea fino al presidente della repubblica), la CISL recupera, nelle sue punte più avanzate, contenuti autonomistici e anarco-sindacalisti.
3) Socializzazione delle lotte: È la trasposizione della tensione operaia dall’interno delle fabbriche all’ambiente sociale, dove autonomia e democrazia diretta sembrano trovarsi privi di strumenti adeguati. Ma è anche, e soprattutto, il porsi di un ruolo radicalmente nuovo del sindacato. Al di là del significato contingente di queste «lotte sociali» si ipotizza la costruzione di un’organizzazione unitaria di massa della classe operaia (e ancora «sindacato»). Un’ipotesi quindi che darebbe un senso politico strategico a quella riunificazione delle sinistre portata avanti da Amendola e dalla destra PCI.
Ma proprio il terreno della socializzazione può rivelarsi minato e assai pericoloso per il progetto politico, ancora incertamente delineato nei suoi momenti tattici, della classe dirigente riformista. Perchè la sua attuazione comporta una radicale trasformazione di tutta la struttura socio-politica italiana, provocando quindi conflitti sempre più acuti fra le forze (sindacati-partiti-padronato-burocrazia imprenditoriale) che ne sono coinvolte. Superficiale appare così il pessimismo di quei gruppi extraparlamentari che soltanto qualche mese fa apparivano tanto ottimisti sulla funzione «rivoluzionaria» delle lotte contrattuali. Le parole d’ordine trionfalistiche sulla classe operaia che avrebbe dovuto «spazzar via» i sindacati per «attaccare fino in fondo» il sistema dei padroni e quindi «fare la rivoluzione in 80 giorni», si tramutano – proprio per l’inconsistenza delle ipotesi e della prassi di quei gruppi – in una resa politica immotivata. Che il sindacato si sia rafforzato numericamente, che la logica contrattuale sia sfociata necessariamente nella gestione sindacale del contratto, che il peso organizzativo dei sindacati abbia bloccato l’iniziativa dei Cub, dei gruppi di studio e dei gruppi esterni non significa che la lotta di classe sia rifluita, ma soltanto che essa ha assunto e tenderà sempre più ad assumere forme nuove di espressione. Proprio nel corso dei contratti i sindacati si sono caricati di contraddizioni irrisolvibili in una logica interna: contraddizione tra la mobilitazione della destra operaia e il tentativo di recupero delle sinistre, tra la delimitazione rivendicativa della lotta e la proclamazione del suo significato politico, tra manipolazione della democrazia operaia e la sua reale spinta eversiva, tra la necessità di garantire al padronato periodi di tregua sindacale e la «conquista» della contrattazione articolata, ecc.
Contraddizioni conflittuali, tra le forze che reggono il sistema, e contraddizioni antagonistiche, costituiscono oggi, all’interno del mondo del lavoro, un groviglio che è compito della sinistra operaia organizzata fare esplodere.
Nel corso delle lotte contrattuali il PCI si è mantenuto in sordina, limitandosi ad appoggiare l’iniziativa sindacale, fornendo con i suoi attivisti un massiccio aiuto alla repressione di fabbrica, qualificando l’Unità come il giornale sindacale, facendosi portatore, nelle singole situazioni, di un atteggiamento sostanzialmente moderato. Questa linea ha provocato qualche contrasto all’interno, soprattutto fra i quadri intermedi e i dirigenti locali, timorosi che il predominio dei sindacati e dei sindacalisti svuotasse la funzione del Partito e del suo apparato.
Alla base il discorso unitario ha incontrato la blanda resistenza dei vecchi stalinisti, insofferenti alla collaborazione con i «traditori» di ieri. Ma proprio in questo periodo di scarsa iniziativa esterna del partito esso ha consolidato l’unità interna in preparazione del ciclo di lotte politiche che l’attendono in vista della nuova maggioranza e della complessa operazione che vi è sottesa.
L’occasione è stata offerta principalmente dal dibattito sulla questione del Manifesto, che si è svolto a tutti i livelli e in tutte le istanze. In tal modo il gruppo egemone del PCI ha definito la sua strategia che, se esclude la partecipazione al governo a breve scadenza, pone il problema di una nuova maggioranza nell’ambito di una ristrutturazione del sistema che dovrebbe impedire disavventure come quella occorsa ai socialisti. Il PCI è indisponibile, cioè, a un’operazione puramente parlamentare ma dichiara, in questo pressochè unanime al suo interno, la piena disponibilità a un mutamento di regime che dovrebbe realizzare alcune delle rivendicazioni storiche del movimento operaio italiano e che potrebbe consentire al capitale avanzato di inserirsi tempestivamente nel nuovo quadro economico internazionale.
Si prepara così il blocco tra sfruttamento economico e sfruttamento politico della classe operaia all’interno di un sistema che, per sottolineare le differenze da precedenti esperimenti socialdemocratici classici, potremmo definire come socialcapitalismo.

L’ITALIA E L’AREA EUROPEA

Sarebbe un grave errore considerare gli elementi portanti della strategia sindacale: unità, democrazia sindacale, socializzazione, come meri strumenti repressivi e difensivi. Il movimento spontaneo delle masse che è dilagato impetuosamente nell’area europea nel corso degli ultimi due anni ha costretto il sistema ad accelerare quel processo di ristrutturazione economica, politica e culturale che le parti più avvedute del capitalismo internazionale già da tempo vedevano necessario e funzionale allo sviluppo delle strutture produttive.
Comprendere le dimensioni, la portata storica, le linee di sviluppo e soprattutto le contraddizioni che tale processo è destinato a suscitare significa uscire dalle generiche rimasticature delle analisi «storiche» del movimento operaio e dall’angustia delle valutazioni strettamente «nazionali».
La «simmetria sociale» di Brandt, la «società corporata» di Wilson, le proposte golliste di gestione sociale e la «via italiana al socialismo» di Longo sono le forme specifiche e nazionali della ristrutturazione generale dell’area economico-politica europea. Ad essa sono chiamati a collaborare forze politiche eterogenee che proprio nella lotta contro i movimenti spontanei di massa hanno scoperto fino in fondo l’affinità dei loro interessi e la necessità e possibilità di convergere a non lunga scadenza.
La parte più avanzata del capitale internazionale e le organizzazioni del movimento operaio hanno avviato un processo di alleanza obiettiva che ha come sbocco un nuovo assetto strutturale della società e dello Stato.
Un processo che si sviluppa tra gravi contraddizioni, che spaccherà verticalmente l’intero corpo sociale e che tende a creare tensioni – si pensi all’intero «affare» della bomba di Piazza Fontana – che possono portare la società sull’orlo, e forse oltre l’orlo, della guerra civile.
Così un processo – imposto al capitale dalle stessi leggi obiettive del suo sviluppo – volto a garantire la pace sociale attraverso l’uso sociale del salario e l’istituzionalizzazione della lotta di classe tende a rovesciarsi dialetticamente nel suo contrario: nella crisi delle strutture politiche dello Stato, nello squilibrio delle istituzioni, nella conflittualità interna più radicale dal vertice alla base del sistema.
Assumere oggi l’area politica europea come spazio politico unitario non significa compiere un’astrazione ideologica, ma riconoscere la realtà di una situazione tendenzialmente omogenea sia sul piano dello sviluppo delle forze produttive sia sul piano generale della società politica. Esistono indubbiamente differenze vistose ma esse sembrano piuttosto corrispondere a differenti fasi di sviluppo che a linee di tendenza divergenti.
Sono noti i principi di politica estera che guidano l’amministrazione Nixon: alla bipolarità militare (USA, URSS) corrisponde la multipolarità politica, assecondando la quale competerebbe all’Europa occidentale la gestione dei rapporti economico politici con l’Europa orientale e con parte dei paesi africani. Ciò dovrebbe consentire a Stati Uniti e ad Unione Sovietica di stringere un rapporto di cooperazione atto a garantire l’«ordine internazionale». Cosa significhi ordine internazionale in questo senso è ben noto: unificazione del mercato mondiale, ripartizione controllata delle aree di sfruttamento, blocco della tensione rivoluzionaria, programmazione della repressione.
Nel quadro di questa Santa Alleanza USA-URSS e delle funzioni in essa dell’Europa quale posto spetta all’Italia? Gli ultimi anni hanno aumentato la forza politica del partito comunista: il procedere dell’unità sindacale, la pressione dell’autonomia operaia, la duttilità tattica del partito, il suo radicamento in centri di potere fondamentali come gli Enti locali, la debolezza della classe politica direttamente legata alla borghesia, le stesse arretratezze strutturali dell’Italia rispetto alle esigenze del capitalismo avanzato pongono in modo obiettivo l’esigenza di una «nuova maggioranza» imperniata (con la partecipazione diretta o con l’appoggio esterno variamente configurato) sul PCI. Potrebbe essere questo il banco di prova di una collaborazione più stretta tra USA e URSS, un’esperimento che avrebbe ben altra importanza di quello finlandese e che contribuirebbe in modo decisivo alla realizzazione del progetto politico precedentemente esposto. Funzione analoga, ma in modo e tempi diversi, potrebbe avere il riavvicinamento tra Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica Tedesca, tra Brandt e Ulbricht.
Ma è proprio in Italia che le contraddizioni sembrano esplodere con maggiore violenza. L’urto tra destra economico-politica (da Costa al PSU) e sinistra (da Agnelli a Longo), o meglio fra le tendenze che ad essi fanno capo, perchè è chiaro che gli schieramenti sono tutt’altro che definiti e irreversibili, è violento e tende a radicalizzarsi sempre di più. Una prima avvisaglia della durezza dello scontro sono stati gli avvenimenti relativi alla morte del poliziotto Annarumma in via Larga e allo scoppio della bomba in Piazza Fontana. I colpi non si risparmiano. La vecchia destra si mobilita per i funerali del poliziotto, tende a creare un clima di linciaggio degli «estremisti» che è però rivolto principalmente al Partito Comunista. Scoppia la bomba e si scatena un’incredibile caccia all’uomo, mentre si riparla di colpo di stato. Il PCI e i suoi alleati ricorrono alto «spirito della resistenza». Circolano voci sul presidente della repubblica (articolo dell’Observer), partono indignate smentite, la stessa inchiesta sull’attentato sembra mostrare incertezze, fratture, contraddizioni che passano all’interno delle istituzioni fondamentali dello stato. Vengono poi le denuncie contro gli scioperanti e contro i sindacalisti, che a parte il loro aspetto «spettacolare», rivelano tensioni già esistenti e minacciano di crearne di ancora più gravi.
Sono queste le forme di una guerra civile latente, implicita; sono questi gli aspetti iniziali di un periodo politico che sarà caratterizzato, non bisogna essere profeti per prevederlo, da una lotta che investirà tutta la area europea, ma principalmente l’Italia, fra una linea di destra che si ispira ai metodi della destra internazionale, (dal colpo dei colonnelli greci agli attentati ai Kennedy, alle soluzioni legalitarie autoritarie) e una linea di «sinistra» impegnata nella ristrutturazione socialcapitalista della società.

CARATTERISTICHE ESSENZIALI DEL PROGETTO SOCIALCAPITALISTA

Questa nuova fase dell’organizzazione sociale capitalistica tende a realizzare una vecchia utopia della borghesia: la possibilità di pianificare il comportamento della forza lavoro sia dentro che fuori la fabbrica, nel momento della produzione come in quello del consumo e in tutte le espressioni della vita sociale e dei rapporti umani. Nell’attuale fase di sviluppo capitalistico la vecchia combinazione di riforme e repressione, composta all’interno della democrazia formale borghese, non basta più. La centralizzazione del potere necessaria alla gestione del tardocapitalismo riduce sempre più gli spazi di potere reale da «concedere» ai quadri direttivi subordinati, il dinamismo verticale elimina gli strati intermedi e lo scontro di classe tende a prodursi in modo netto e radicale tra una borghesia che ha esaurito ogni possibilità di espressione sociale complessiva (cioè non può più presentarsi in alcun modo come «portatrice» di ideali democratici, nazionali, di valori etici o culturali) e un proletariato urbano che si estende alla maggioranza della popolazione attiva. A questo punto è necessario per il sistema che la contestazione sociale stessa venga organizzata e incanalata, preparando una soluzione che salvaguardi i presupposti irrinunciabili della società dello sfruttamento e contemporaneamente accolga le richieste popolari di mutare il quadro istituzionale complessivo. Ciò significa da un lato il riconoscimento aperto della dinamica di classe e dall’altro l’istituzionalizzazione della lotta di classe, la riduzione di interessi oggettivamente antagonistici nell’ambito di una logica di conflittualità interna. Il conflitto viene quindi condotto entro regole precise (regolamentazione degli scioperi, delle manifestazioni, tolleranza verso la contestazione e il dissenso) atte a mantenere lo scontro di classe nei canali della contrattazione del prezzo economico, politico e culturale della forza-lavoro.
Al riformismo passivo messo in atto per attenuare le contraddizioni nel momento in cui sono già trasformate in lotta sociale, si sostituisce un riformismo attivo che promuove le lotte, ne sollecita lo sviluppo controllandone l’esito.
Il riformismo non si pone più come un risultato delle lotte (più o meno possibile) ma ne è la condizione stessa.
Questo significa che le lotte dovrebbero svolgersi (e già si sono parzialmente svolte nel corso delle lotte contrattuali) su un palcoscenico fisso, con parti e protagonisti fissi.
Questa ristrutturazione complessiva dell’assetto sociopolitico capitalista, che ha per agente la dinamica controllata del riformismo attivo, si manifesta come artificiale estensione dei limiti della «legalità» borghese, fino a recuperare formalmente le istanze prodotte dall’autonomia operaia.
In questo senso il progetto social-capitalista viene a coincidere con la strategia «rivoluzionaria» del PCI: estensione progressiva dei limiti della legalità fino a imporre un uso sociale delle strutture capitalistiche. Così partito e sindacato si apprestano a mettere in cantiere una serie di lotte al livello sociale, riformiste nel contenuto, radicali nella forma: lotta per una politica dei trasporti pubblici (non paghiamo il biglietto sul tram), lotta per ristrutturare il sistema assistenziale (non paghiamo il medico) o ancora sciopero degli affitti come forma di pressione per ottenere l’equo canone.
Appare evidente come tali lotte anzichè incidere sulla sostanza della condizione dello sfruttamento delle masse lavoratrici tendano ad adeguare la società tardocapitalista allo sviluppo delle forze produttive, e ad inserire sempre di più le masse nell’area del consenso. II sistema infatti può tranquillamente decidere oggi che i trasporti e l’assistenza medica siano gratuiti, stabilire un equo canone per la casa o un calmiere per i prezzi: questo è il prezzo che esso deve pagare per garantire la pace sociale. Ciò che non può assolutamente tollerare è che la forma di lotta divenga contenuto (che l’attacco «violento» contro i crumiri diventi attacco violento alla struttura del potere), perchè a questo punto sarebbe… la rivoluzione.
L’attacco al riformismo è oggi l’unica condizione per la difesa e lo sviluppo dell’autonomia proletaria: nel momento in cui il riformismo diventa lo strumento principale (accanto alla repressione) per bloccare lo sviluppo dell’autonomia proletaria, cessa ogni giustificazione per una strategia anche «tatticamente» riformista.
È quanto non hanno ancora compreso non solo molti che continuano a coltivare l’entrismo sindacale (soprattutto nella FIM-CISL, ala contestatrice dei sindacati) ma anche una parte del M.S., che sotto l’utilizzo di un linguaggio marxista-leninista-maoista nasconde una tendenza opportunistica che va combattuta nel modo più radicale.
Ciò che assicura al capitalismo il sopravvivere della sua sostanza è da un lato una più capillare organizzazione del consenso, dall’altro la centralizzazione del potere che si esprime principalmente attraverso la repressione globale. Le vecchie forme di organizzazione del consenso, dalla pubblicità agli strumenti di comunicazione di massa, non sono più di per sè sufficienti per un controllo così capillare e diretto quale è quello richiesto dall’attuale fase capitalistica. La centralizzazione estrema del potere (per cui la stragrande maggioranza del popolo è alienata da ogni reale possibilità di decidere della vita individuale e pubblica) rischia di isolarne i gestori e di creare un abisso che solo la rivoluzione potrebbe colmare.
L’organizzazione del consenso deve quindi risolvere questo problema, acquistando sempre più un carattere dinamico. Non si tratta più soltanto di assicurare consenso o passiva accettazione rispetto all’organizzazione sociale esistente, ma di utilizzare le istanze di base per attuare quelle «profonde riforme di struttura» che trovano consenzienti e obiettivamente alleati Partito Comunista, sindacati, ceti imprenditoriali progressisti, capitale finanziario internazionale «avanzato».
Gli obiettivi fondamentali sono la creazione di una frattura profonda tra i contenuti politici propri dell’autonomia proletaria e il falso miraggio della società del benessere, di impedire che la democrazia diretta si sviluppi verso forme di democrazia rivoluzionaria manipolandola entro strutture di democrazia formale, di realizzare un’alleanza strutturale tra sfruttamento economico e sfruttamento politico, tra capitale e riformismo. La tendenza è quindi verso una società totalitaria in cui centralizzazione del potere, organizzazione del consenso, contestazione istituzionalizzata, legalità repressiva combacino perfettamente come parti di un mosaico.
Ma, come già si è detto, questa è soltanto grottesca utopia.

3. Dalle “lotte sociali” alla lotta sociale

Sindacati e partiti hanno proclamato che questo è il momento delle lotte sociali. Le spinte del movimento di massa e la necessità per le organizzazioni revisioniste di passare a un’ulteriore fase della scalata al potere coincidono. Si apre così un nuovo spazio politico che le organizzazioni tradizionali del movimento operaio si apprestano a occupare per intero, proponendo contenuti molto aperti e ambigui: la casa, il caro-vita, l’assistenza sanitaria, la difesa delle garanzie costituzionali ecc. Le forme di lotta imposte sono quelle che meglio garantiscono il controllo burocratico: mobilitazione generale come coincidenza temporale delle lotte (lottare tutti, dappertutto lo stesso giorno) l’unità vista come unità delle sigle, persino l’Azione Cattolica. L’obiettivo è suscitare un movimento d’opinione e un dibattito parlamentare che ponga in crisi l’azione governativa e che freni la possibile involuzione a destra.
Il proletariato si trova di fronte ad un livello superiore di lotta: l’attacco alla condizione di sfruttamento generale nella società.
L’avversario non è più, se mai lo è sembrato, il padrone singolo, ma il sistema dei padroni. L’ostacolo non è più il controllo sindacale delle lotte, ma il complesso sistema di integrazione che si presenta sotto l’aspetto di una nuova legalità (Statuto dei lavoratori, ecc.). Le provocazioni repressive non sono più le serrate di Agnelli e Pirelli, ma un piano preordinato della destra nazionale e internazionale.
È tuttavia proprio di fronte a questo livello superiore di lotta che il momento spontaneo può raggiungere «la maturità di un vero movimento rivoluzionario».
Spetta alla sinistra proletaria, ai nuclei di avanguardia che essa ha espresso, intendere la reale dimensione dello scontro, generalizzarne i contenuti, trovare nella pratica le mediazioni capaci di far assumere alle lotte rivendicative i connotati della lotta di classe.

LA CONDIZIONE SALARIALE ESSENZA DELLA CONDIZIONE SOCIALE

Arriviamo così al centro dei nostri problemi e cioè alla identificazione di quei contenuti politici unificanti, capaci di denunciare lo sfruttamento così come esso si manifesta nell’arco dell’intera giornata naturale e non solo nel momento, pur fondamentale, della giornata lavorativa. In tal senso va ripresa l’indicazione strategica di Marx: «Invece della parola d’ordine conservatrice “un equo salario per un’equa giornata lavorativa” gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario “soppressione del lavoro salariato”». Essa va ripresa soprattutto perchè esistono oggi le condizioni materiali per la sua realizzazione. Dire che esistono le condizioni materiali perchè sparisca il lavoro salariato significa:
1) che il livello delle forze produttive materiali è tale da permetterne l’abolizione, mentre la struttura politica e sociale (social-capitalistica-imperialistica) del sistema esige, per la sua stessa sopravvivenza, che il rapporto di produzione rimanga così come esso è.
2) Che il livello delle forze produttive reali-rivoluzionarie è in progressiva crescita ed esige, anche se per ora in modo contraddittorio e scollegato, che il rapporto di produzione sia soppresso.
II rifiuto della condizione salariale (condizione sociale e politica prima che economica), il rifiuto della contrattazione di questa condizione, sta alla base del nostro discorso rivoluzionario. Un attacco globale alla condizione sociale è in primo luogo così un attacco alla struttura politica del salario e ai meccanismi che la vincolano tanto alla produttività che al consumo. L’ipotesi di fondo è che: l’elemento oggettivo capace di definire il proletariato dentro e fuori la fabbrica è la struttura politica del salario. Viene abbandonata la tesi che l’operaio e il tecnico sono tali solo in fabbrica e che fuori da essa diventano «cittadini». La socializzazione delle lotte si presenta con tutta la sua pregnanza come attacco all’organizzazione del lavoro e alla condizione salariale nella fabbrica, nella scuola e nella società. Anche nelle lotte «sociali» l’autonomia proletaria trova sulla sua strada le tentazioni del sindacalismo a rialzo, cioè la proposizione di obiettivi rivendicativi alternativi a quelli portati avanti dal PCI e dai sindacati. Tentazioni che portano al disastro; l’iniziativa operaia ha già fatto in fabbrica giustizia di questa falsa linea politica, ma nelle lotte sociali si trova nuovamente esposta alle sue insidie: proposte demagogiche, umanitarie, mobilitanti. L’attacco alla condizione salariale si presenta dunque all’autonomia proletaria come il contenuto fondamentale delle lotte sociali, capace cioè di impegnare tutti i singoli contenuti del disagio sociale, tutti i singoli momenti dello sfruttamento globale. L’attacco alla struttura politica del salario nella sua duplice faccia di salario-produttività e salario-consumo permette non solo di legare lo sfruttamento nella fabbrica allo sfruttamento fuori dalla fabbrica, ma genera un processo di coscienza che, lungi dal fermarsi alla contrattazione dei singoli problemi, pone il proletariato di fronte a tutta la sua condizione e gli impone la scelta decisiva: o accettazione dello sfruttamento, o rifiuto della società capitalistica. Per non cadere in una visione idealistica, dobbiamo aver chiaro che tale processo di coscienza non matura attraverso prediche, dibattiti, discussioni e volantini,ma solo attraverso la lotta.
Il proletariato, mobilitato per risolvere i suoi problemi nella fabbrica, nella scuola e nella società, ha la grande occasione per prendere coscienza che la sua capacità di rifiuto e di lotta è vincente solo se è generale, continua, organizzata.
Questo significa che l’autonomia è una posta in giuoco che la classe operaia, i tecnici, gli studenti giocano in questi anni in modo forse definitivo. Cioè, se non saremo in grado di operare il salto qualitativo dall’attacco alla condizione di sfruttamento nella fabbrica e nella scuola all’attacco della condizione di sfruttamento nella società, nella città, marceremo a grandi passi verso la gabbia che il capitale ci ha preparato.
II nostro vero problema è dunque non tanto l’estensione orizzontale quantitativa dello scontro (dalla lotta di fabbrica per un maggior salario alla lotta sociale per la difesa del salario), ma un salto politico della lotta, che contemporaneamente difenda ed estenda il livello di autonomia faticosamente conquistato in questi ultimi anni di lotta. Estendere la lotta continua dai centri produttivi alla società, dalle manifestazioni dello sfruttamento diretto alle manifestazioni complessive dello sfruttamento, realizzare questa estensione comprendendo tutti i termini, i vincoli e i problemi che il nuovo ambito sociale di lotta pone all’autonomia è la condizione perchè l’esigenza espressa dalle lotte, esigenza d’organizzazione rivoluzionaria, si traduca in realtà operante.
PACE SOCIALE E REPRESSIONE
Sempre più si evidenzia il fatto che il salario è in primo luogo una variabile politica: esso remunera, infatti, non solo il lavoro umano nella sua forma immediata o «il tempo di lavoro necessario», ma piuttosto, attraverso una serie di opportune mediazioni, una esigenza essenziale del sistema: la pace sociale.
L’organizzazione del consenso delle masse ai fini del sistema capitalistico è un’esigenza imprescindibile dei padroni, e il sindacato, oggi più che mai, svolge in questa direzione una funzione decisiva. La «pace sociale» è indispensabile al sistema dei padroni oltre che per l’ovvio motivo di preservare a questi il loro potere, per il livello raggiunto dall’organizzazione tecnologica della produzione che richiede ormai una minuziosa programmazione aziendale del lavoro; per il grado d’integrazione dei differenti centri di produzione delle imprese multinazionali (la cui programmazione produttiva è necessariamente rigida); per le esigenze del commercio estero in un clima di forte competitività; ecc. La progressiva ristrutturazione del sistema capitalistico di produzione (concentrazione e centralizzazione monopolistica, alta intensità del capitale, suddivisione internazionale del lavoro) ha come presupposto fondamentale una sempre più precisa pianificazione a lungo termine (2-5-10 anni), per cui è indispensabile che le variabili in gioco siano il più possibile sotto controllo e previste nei loro mutamenti.
La variabile più difficile da controllare e da prevedere è il comportamento della forza-lavoro, la quale, negli avanzati sistemi produttivi, anche se non interviene più come la principale componente di produzione e di lavoro (trasferita invece alle macchine) rimane pur sempre l’elemento essenziale perchè le macchine producano. Per il sistema quindi, realizzare la «pace sociale» significa di fatto impedire che la «variabile forza lavoro» abbia ad esprimere cioè un autonomo comportamento politico.
Pace sociale, maggior livello di consumi, crescita programmata dei livelli salariali, non sono «vittorie» del proletariato ma segnano il passaggio al ciclo dello sfruttamento globale (fase metropolitana dello sviluppo del capitale e fase della dimensione imperialistica-mondiale dello sfruttamento). Questa fase più matura del capitale, che si va preparando con il «balzo tecnologico» nel nostro paese, ha come risvolto necessario un «balzo repressivo» che, già lo vediamo, tende a chiudere ogni spazio all’azione sviluppata dalla autonomia operaia organizzata. Ma è proprio nei confronti della repressione che il sistema rende più evidenti le contraddizioni che lo lacerano.
Convivono oggi due forme di repressione, che svolgono tra loro una macabra concorrenza:
a) la repressione tipo vecchio, punitiva, fondata sulla violenza aperta, sulle cariche della polizia, sull’uso terroristico delle squadracce fasciste: essa è al servizio della destra (della destra interna al potere, saldamente insediata nei centri fondamentali della società e dello stato) e tende a coinvolgere direttamente anche le masse, in un attacco che colpisce prima i nuclei autonomi ma che non esita a colpire sindacati e partiti. I quali, oltretutto, vittime della loro stessa logica parlamentare «pacifica», si rivelano e sempre più si dimostreranno incapaci di garantire alle masse almeno quelle garanzie democratiche formali delle quali menano gran vanto. Che dopo 25 anni dalla liberazione, dopo 25 anni di «vittorie» della classe operaia (ultima delle quali la vittoria contrattuale), sia ancora possibile una repressione indiscriminata sulla classe operaia, conferma fino in fondo, se ce n’era bisogno, l’inconsistenza della «via italiana al socialismo».
b) La repressione attiva, legalitaria, tecnologicamente qualificata. La sua prassi consiste nel prevenire le azioni realmente incisive del proletariato, stroncandone sul nascere le iniziative per mezzo dei sindacati e del partito, e ricorrendo al braccio armato soltanto quando questi falliscono la loro opera. Anche il braccio armato dello stato borghese tende ad assumere, ove controllato dalla «sinistra», caratteristiche e metodi di lavoro nuovi: tende cioè ad agire dentro i confini della legge colpendo i trasgressori con un uso combinato dei «tutori dell’ordine» e della magistratura. Gli applausi ai carabinieri durante i funerali del poliziotto Annarumma, morto durante gli scontri di via Larga, sono l’orchestrato riconoscimento di una funzione dei tutori dell’ordine pubblico e della pace sociale verso cui altri strumenti organizzano il consenso delle masse popolari.
È questa la repressione che il social-capitalismo tende a mettere in atto. Ma questi metodi si scontrano con altri, più rozzi, provocano rotture all’interno della magistratura, delle stesse forze dell’ordine, dei massimi ordinamenti dello stato. La repressione, e le organizzazioni ad essa preposte, non appaiono più come una funzione del sistema, e un loro strumento, ma occupano un posto centrale della vita politica italiana, ne costituiscono un momento organico. Che l’ondata repressiva attuale abbia caratteristiche completamente diverse da quelle precedenti è ammesso da tutti, anche dalle organizzazioni revisioniste. Ma in che cosa consiste questa diversità? A noi sembra che la repressione attuale sia strategica e non tattica.
Anche la più forte repressione del dopoguerra, quella legata al nome di Scelba, non era altro che lo strumento di un sistema sostanzialmente solido per difendere il proprio equilibrio interno dall’attacco dell’opposizione. La repressione attuale va collegata più direttamente alla controrivoluzione mondiale, e cioè alla lotta armata del sistema capitalistico contro i movimenti di massa e contro i pericoli di un’iniziativa rivoluzionaria a livello mondiale. Ciò significa che, anche se spesso si conserva il paravento della democrazia parlamentare, il capitale internazionale tende a ricorrere a forme dittatoriali di dominio. Così la repressione in Italia è obiettivamente una rottura della stessa legalità costituzionale, promossa dalla destra che è passata all’offensiva. Si tratta in sostanza dell’inizio di una guerra civile strisciante, nel corso della quale la lotta per il potere tra «destra» e «sinistra» si farà sempre più dura, anche se tenderà a svolgersi «sopra la testa delle masse», e con la possibilità di compromessi istituzionali (la repubblica presidenziale, i governi d’ordine, le tregue sindacali o politiche, ecc.). È questo il duro terreno di lotta sul quale dovremo misurarci.

RESTRIZIONE DELLO SPAZIO POLITICO E APERTURA DELLO SPAZIO RIVOLUZIONARIO

Le lotte sociali proposte dai sindacati e dai partiti revisionisti partono da questo presupposto: che le masse pongano all’opinione pubblica e al parlamento i loro problemi, in modo che le organizzazioni di sinistra ne possano gestire la soluzione parziale e settoriale. È questa la prassi riformistica classica.
Ma lo sviluppo della repressione sposta i termini del problema. Il processo di unificazione dell’area di mercato mondiale, la cooperazione tra USA e URSS, l’assegnazione di una funzione precisa all’area europea, hanno provocato e sempre più aggraveranno la spaccatura radicale fra destra e sinistra economico-politica.
Non si tratta più, neppure per il movimento operaio tradizionale, di affrontare lotte particolari, appunto «lotte sociali», ma di affrontare una lotta complessiva, la lotta sociale.
È proprio su questo terreno che le mediazioni sono meno possibili, la manipolazione delle masse meno efficace, che l’utopia socialcapitalista rivela la sua infondatezza. La lotta sociale complessiva, che secondo Marx è la forma di lotta propria del proletariato, tende a porsi in modo sempre più globale, a radicalizzarsi: proprio il terreno sul quale il PCI è più debole. Infatti la strategia togliattiana, che oggi viene coerentemente continuata dall’attuale dirigenza del PCI, ha proprio escluso tanto la globalità dello scontro (accettando il terreno della democrazia borghese come dato), quanto la sua radicalizzazione (in conformità alla politica internazionale dell’Unione Sovietica). L’appello allo spirito della Resistenza è più un segno di debolezza reale che una manovra a uso e consumo dell’opinione pubblica. Sarebbe tuttavia assurdo non tenere conto che le contraddizioni di classe passano con violenza all’interno del movimento operaio, e che all’interno del PCI e del PSIUP esistono larghe forze proletarie disponibili ad affrontare la lotta sociale complessiva, cioè rivoluzionaria.
È tuttavia altrettanto assurdo pensare che il movimento operaio tradizionale (e cioè una realtà storica con una sua origine e con un «destino» preciso, se il materialismo storico non è un’opinione) costituisca una specie di serbatoio vuoto da riempire con linee politiche diverse. Il PCI non ha che due alternative: o concludere la logica iniziata nel 1945 con il suo inserimento organico nella gestione del potere capitalistico; o essere spazzato via, in quanto organismo politico, da una situazione storica nuova, da una dinamica della lotta di classe che ne renda impossibile la sua funzione di «sfruttatore politico» della classe operaia. I compiti delle forze autonome proletarie non consistono quindi nel porsi in concorrenza col PCI, nella prospettiva di una lunga guerra di posizione dalla quale dovrebbe scaturire il «vero» partito marxista leninista, ma di lottare perchè la chiusura dello spazio politico tradizionale coincida con l’apertura dello spazio rivoluzionario.
I risultati dell’autunno caldo: controllo sindacale delle lotte contrattuali e scatenamento della repressione attiva, non sono incidenti da dimenticare al più presto, o una sconfitta definitiva che giustifichi il peggiore opportunismo, ma il punto di partenza di un processo che porti la sinistra proletaria dalla genericità rivendicativa (le rivendicazioni possono essere di qualunque tipo, politiche, economiche, culturali religiose, ma restano sempre interne al sistema) alla specificità della lotta rivoluzionaria.
4. Movimento di massa e organizzazione rivoluzionarla
Il movimento delle masse in Europa e in Italia è giunto a una svolta fondamentale. Il suo sviluppo spontaneo e impetuoso è stato arrestato dalla manovra a tenaglia della repressione poliziesca e della repressione sindacal-partitica. Quanto è successo in Francia, Germania e Italia, in tempi e modi diversi, non è un «caso avverso», ma è frutto della logica stessa della lotta di classe.
È necessario intendere con chiarezza i termini dei problema:
– sconfitto non è stato il movimento autonomo del proletariato europeo, che si fonda sulla contraddizione fondamentale tra lo sviluppo attuale delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti in regime tardocapitalista, ma, appunto, la spontaneità e l’impeto del movimento.
– Le forze conservatrici hanno imparato dalla realtà prima di noi. Dalla repressione «spontanea» della prima fase (il singolo padrone, rettore, questore che si arrangiava a risolvere i suoi problemi specifici) il sistema è rapidamente passato a una seconda fase; quella della lotta continua, repressiva, organizzata a livello nazionale e internazionale contro il movimento autonomo del proletariato, e contro tutte le sue espressioni dirette e indirette.
– L’autonomia proletaria ha oggi un solo modo per svilupparsi: organizzarsi. Il salto da movimento spontaneo a movimento organizzato non implica l’abbandono dei contenuti dell’autonomia proletaria ma ne costituisce l’unica possibilità di sviluppo.
– L’esigenza di organizzazione (da tutti percepita) deve tradursi in lotta per l’organizzazione, che va condotta su due fronti: contro la repressione globale del sistema, contro le tendenze erronee all’interno del movimento.
– La lotta per l’organizzazione va condotta su un nuovo terreno: quello della lotta sociale complessiva. Il salto di qualità è duplice: da movimento spontaneo a movimento organizzato, dalla lotta nella fabbrica e nella scuola, a lotta sociale complessiva.

L’AUTONOMIA PROLETARIA DI FRONTE AL SALTO DI QUALITÀ

Autonomia non è una parola vuota, un’aureola sulla testa del proletariato, un mito da vendere al mercato delle idee. L’autonomia si esprime in una forma politica, in una parte definita del proletariato che ha saputo affermare, al di sopra delle divisioni sindacali e partitiche, l’interesse reale della classe sfruttata.
Il movimento operaio tradizionale, nel momento in cui ha sferrato l’attacco ai nuclei politici che portano avanti la prassi autonoma, si è assunto la grave responsabilità storica di rompere l’unità reale del proletariato (che si stava affermando nella lotta), sostituendovi un’unità fittizia, sloganistica. Mentre si affermava che «finalmente la classe operaia è unita contro i padroni» si cercava di amputare la classe operaia delle sue avanguardie di lotta. Col bastone della repressione e con la carota della democrazia sindacale, con gli slogan di sinistra e la pratica conservatrice, l’offensiva sindacale portava di fatto alla spaccatura fra destra e sinistra operaia.
La sinistra operaia ha tardato a intendere quanto stava avvenendo, vittima essa stessa del contenuto dell’«unità» che non era stato sufficientemente approfondito sul piano teorico-pratico. I nuclei politici (Cub, Gds, gruppi studenteschi, ecc.) tentavano di ricollegarsi spontaneamente con la classe operaia ma finivano per trovare davanti a loro la destra schierata e organizzata. Una destra che non ha affatto il reale controllo della situazione ma che ha saputo sfruttare al massimo il terreno di lotta favorevole (la lotta contrattuale) e che ha puntato cinicamente (sottovalutando i pericoli a lunga scadenza) sul qualunquismo.
La sinistra, dal canto suo, ha commesso alcuni errori: in certe situazioni si è ripiegata su se stessa, rinunciando alla lotta, in altre ha radicalizzato lo scontro su contenuti sindacali, autoisolandosi, in altre ancora ha cercato un ambiguo rapporto con i sindacati.
Diversamente sono andate le cose nell’Università e nelle scuole. La debolezza organizzativa dei partiti revisionisti ha imposto qui una tattica più subdola e indiretta, fondata principalmente sulle contraddizioni interne del movimento studentesco. Contraddizioni tra i caratteri autonomi del movimento e il controllo esercitato su di esso da gruppetti burocratici, dal suo «intellettualismo» verboso e l’assenza di un’elaborazione teorica a livello dei problemi attuali, dalle sue vittorie tattiche e dall’assenza di prospettive strategiche. Il PCI e le organizzazioni neorevisioniste hanno offerto un’organizzazione, una teoria e una strategia bell’e fatta. Su questo è avvenuta una spaccatura che tenderà ad approfondirsi sempre più. Da un lato una destra del movimento, che sotto gli slogan «rivoluzionari» nasconde l’obbiettivo opportunismo di chi accetta le regole del gioco, giustificandosi col fatto che… le masse non sono mature (quelle operaie perchè sono egemonizzate da partiti e sindacati, quelle studentesche perché non hanno ancora acquisito la coscienza marxista-leninista); dall’altro una sinistra che accetta la sfida del sistema e tende a sviluppare una lotta sociale complessiva che ha come termine di riferimento l’autonomia proletaria. La spaccatura fra destra e sinistra del proletariato non è un gesto volontaristico, che riguarda soltanto pochi militanti, ma è un riflesso dei livelli disomogenei di coscienza delle masse. La lotta decisa e implacabile contro la destra proletaria è la condizione per conquistare le masse alla lotta rivoluzionaria.
È necessario combattere il malinteso «unitarismo» di chi dice: siamo in pochi, siamo una minoranza, quindi non combattiamoci tra di noi; accettiamo le condizioni del più forte (la destra attualmente), e in un secondo tempo svilupperemo le contraddizioni. Nello stesso tempo è necessario che la lotta non sia soltanto ideologica, verbale, o combattuta a livello degli intrighi di corridoio, ma si sviluppi all’interno delle lotte dì massa, sia un momento delle lotte di massa. L’estensione dell’autonomia proletaria dalla fabbrica e dalla scuola alla società non è un’operazione quantitativa ma un salto politico fondamentale. La lotta continua contro la pace sociale, contro la legalità repressiva, contro l’organizzazione del consenso, contro la dittatura tecnopolitica socialcapitalista ha un solo nome: lotta rivoluzionaria per abbattere il potere borghese.

LOTTA RIVOLUZIONARIA E «RIVOLUZIONE»

La stessa parola «rivoluzione» ha oggi un destino particolare: da un lato se ne abusa per definire qualunque avvenimento o atteggiamento non conforme alle norme della convivenza borghese (per esempio tra gli studenti), dall’altro se ne terne persino l’espressione (per esempio tra la classe operaia «vecchia»).
Definire a priori un processo rivoluzionario è impossibile; in esso confluiscono tali e tanti elementi che prefigurarne dettagliatamente lo sviluppo significa fare opera di mistificazione piuttosto che opera scientifica. Ma chi si richiama al marxismo rivoluzionario non può rinunciare a intendere le linee del processo rivoluzionario in cui è inserito, non può rinunciare a tracciare una linea strategica, a portare il proprio contributo alla creazione di una teoria rivoluzionaria nella metropoli.
Nota – Alla frase «senza teoria niente rivoluzione» è necessario aggiungere, «senza teoria niente organizzazione, o meglio niente organizzazione rivoluzionaria. A parole tutti d’accordo; ma in pratica prevalgono oggi nel movimento due tendenze da combattere:
1) II praticismo spontaneista, che tende a confondere la teoria con la propria prassi politica. È In questo modo che una soggettiva volontà rivoluzionaria si trasforma in opportunismo oggettivo: la misura della propria azione diventa il successo, raggiunto a qualunque costo e a prezzo di qualunque compromesso. La lotta, qualunque lotta, viene sopravalutata; ad esse si applica l’etichetta più utile. Si passa così di vittoria in vittoria, il padrone subisce continue sconfitte, sindacati e partiti sono ormai ridotti al lumicino, la rivoluzione è a portata di mano! Salvo poi scoprire che tutto questo era un sogno a occhi aperti! Allora crisi di sconforto, pessimismo, rinuncia. Da cui se ne esce con una nuova ondata di successi, vittorie, ecc.
In tal modo, è vero, non ci si «chiude in casa a studiare, non si elaborano «teorie a tavolino», ma si pensa per luoghi comuni, si danno per scontate miserabili parodie di «tesi politiche», si agisce con gli occhi bendati finendo nel vicolo cieco dell’attivismo. Si finisce per «far politica» invece di «fare la rivoluzione».
2) L’ideologismo dogmatico. Funziona così. Recita della litania: «marxismo, leninismo-pensiero di Maotsetung, adattato alle peculiari condizioni storiche. Dopo di che due sono le alternative: o si rimette il m-l-maoismo nel cassetto e si naviga nelle acque più calme della politica spicciola da corridoio; o si aderisce a un partito che si proclama l’unico, vero erede di Marx, di Lenin, di Mao e si aspetta che le masse si convincano di questo.
Questi due errati atteggiamenti «teorici» hanno una origine pratica: costituiscono entrambe la base di potere della dirigenza burocratica e leaderistica insediata parassitariamente nel movimento di massa. La crescita pratica e teorica del movimento, la sua trasformazione in movimento rivoluzionario organizzato, costituirebbe la fine di un privilegio che assume spesso le forme dello sfruttamento politico. Noi crediamo che il fronte di lotta teorica sia fondamentale per lo sviluppo del movimento proletario. La lotta è su due piani: per l’elaborazione di una teoria rivoluzionaria nella metropoli (che attualmente non esiste, anche se molte indicazioni fondamentali sono contenute nel patrimonio teorico del marxismo rivoluzionario), per la propaganda militante delle idee giuste e per la loro applicazione nell’autogestione delle lotte dei proletariato.


È necessario oggi ridefinire il concetto stesso di rivoluzione, alla luce delle condizioni oggettive e dello sviluppo reale del movimento autonomo del proletariato europeo. Due punti ci sembra importante mettere in evidenza:
1) Processo rivoluzionario e non momento rivoluzionario.
Scrive il rivoluzionario brasiliano Marcelo De Andrade: «Prima della unificazione del capitalismo mondiale da parte dell’imperialismo Yankee, il proletariato aveva la possibilità di armarsi attraverso vie non armate, cioè poteva prima organizzarsi politicamente e sviluppare fino ad un certo punto la lotta politica e la violenza non armata, per poi approfittare della disfatta sociale, politica e militare delle classi dominanti dei rispettivi paesi per armarsi e prendere il potere… Oggi, dato che la possibilità di una guerra interimperialista è storicamente esclusa, una alternativa proletaria del potere, deve essere, sin dall’inizio, politico-militare, dato che la lotta armata è la via principale della lotta di classe».
È necessario capire fino in fondo questa tesi perchè essa sta alla base di tutti i movimenti rivoluzionari operanti nel mondo. Nella concezione corrente oggi in Italia del rapporto fra movimento di massa e organizzazione rivoluzionaria, è implicita un’immagine del processo di questo genere: prima sviluppiamo la lotta politica, conquistando le masse alla rivoluzione, poi, quando le masse saranno diventate rivoluzionarie, faremo la rivoluzione. Quindi: oggi non esistono le condizioni oggettive rivoluzionarie; non ci resta ché fare politica in modo più o meno tradizionale. Obiettivo intermedio: costruzione del partito marxista-leninista.
Implicita è anche la tesi che la rivoluzione in Europa non possa che coincidere con un momento insurrezionale che porterà al potere il proletariato. Dopo la presa del potere si trasformerà la società. I revisionisti obiettano: l’insurrezione generalizzata è una utopia; quindi non resta che inserirsi all’interno delle strutture di potere borghese e trasformarle dall’interno. In effetti l’ipotesi dell’insurrezione generalizzata è oggi assolutamente illusoria. Ma questo non significa rinunciare al proprio compito di rivoluzionari.
È la realtà stessa che ci sottrae alle suggestioni di una falsa alternativa. La dimensione sociale della lotta, e il punto più alto del suo sviluppo: la lotta contro la repressione generalizzata, costituisce già un momento rivoluzionario. Il processo rivoluzionario tende a svilupparsi fin dall’inizio su tutti i piani: non è una scelta volontaristica ma una condizione imposta dalla realtà. Quando ci si può beccare quattro anni di galera per non aver aggredito un poliziotto, si impone una scelta: o ci si rifugia nel pantano del riformismo rinunciatario, o si accetta il terreno rivoluzionario dello scontro. La borghesia ha già capito fino in fondo la situazione e si comporta di conseguenza. La borghesia ha già scelto l’illegalità. La lunga marcia rivoluzionaria nella metropoli è l’unica risposta adeguata. Essa deve cominciare oggi e qui.
2) Processo rivoluzionario metropolitano. Non è stato ancora sufficientemente inteso che cosa significhi sviluppare un processo rivoluzionario in un’area metropolitana a sviluppo tardocapitalistico. I modelli rivoluzionari del passato o delle aree periferiche sono inapplicabili. II nostro problema è oggi prendere atto della realtà in cui ci troviamo a operare; la difficoltà di questa ricerca non deve indurci a fingere d’essere nella Russia del 1917 o nella Cina del 1927. Ci sembra necessario lavorare in modo teorico-pratico su questi punti:
a) Nelle aree metropolitane nordamericana ed europea esistono già le condizioni oggettive per il passaggio al comunismo: la lotta è essenzialmente rivolta a creare le condizioni soggettive. Questo implica che il proletariato deve portare avanti in modo diretto la sua rivoluzione, e che non può più, come è avvenuto nel passato, innestare la propria azione su obiettivi essenzialmente borghesi: democrazia parlamentare, indipendenza, unità nazionale, sviluppo industriale, ecc. I revisionisti hanno oggi assunto la difesa di questi valori; il nostro problema è attaccare su un obiettivo direttamente rivoluzionario: rovesciamento del sistema di potere borghese e trasformazione della stessa essenza del potere (autoritario, centralizzato, gerarchico, repressivo, manipolatore, ecc.).
b) Il mutato (rispetto al capitalismo classico) rapporto fra struttura e sovrastruttura, che tendono sempre più a coincidere, fa sì che oggi il processo rivoluzionario si presenti come globale, politico e «culturale» insieme. Il che significa che mutano sostanzialmente i rapporti tra movimento di massa e organizzazione rivoluzionaria, e che di conseguenza vengono a mutare radicalmente anche i principi d’organizzazione.
Nota – Si impone a questo punto una critica al «partito marxista-leninista» così come viene inteso, o frainteso. Richiamarsi al marxismo rivoluzionario significa oggi sviluppare il patrimonio teorico del movimento operaio, e fargli compiere quel salto dialettico che la realtà impone. Secondo Marx il partito politico del proletariato coincide con l’intero proletariato (che «o è rivoluzionario o non è»). Ciò non ha impedito a Lenin, di sviluppare, in epoca e in condizioni diverse, la teoria del partito bolscevico che è l’avanguardia del proletariato, nè a Mao di promuovere la rivoluzione culturale, che è, nella sua essenza, la proposta di una nuova forma di organizzazione proletaria. La tradizione marxista è per noi un punto di riferimento, un patrimonio dal quale attingere, ma non deve in nessun modo paralizzarci di fronte ai nostri compiti attuali.
Per venire nello specifico. I fondamenti del partito leninista sono tre: 1) distinzione tra momento economico e momento politico; 2) distinzione tra lotte della classe operaia e coscienza socialista della quale sono depositari gli intellettuali; 3) distinzione tra avanguardia e massa. Nessuno di questi tre elementi è presente nella realtà attuale dell’area metropolitana europea.
Bisogna tuttavia fare un discorso chiaro: il superamento del partito non può consistere nel ritorno a quelle forme che il leninismo ha superato: operaismo, spontaneismo, economicismo, terrorismo. Il superamento del partito non è un lavoro da tavolino, che si può esaurire nella ricerca di formulette, ma è un’opera collettiva per la ricerca di una forma organizzativa nuova, sviluppo e superamento delle attuali forme organizzative embrionali assunte dall’autonomia proletaria.
c) Il terreno essenzialmente urbano della lotta. Un dato obiettivo: nel 1961 14.481.000 italiani erano concentrati in otto aree urbane; si prevede che entro il 2001 essi saliranno a 29.153.000, metà della popolazione totale.
A questo dato statistico corrisponde un dato politico: la città è oggi il cuore del sistema, il centro organizzatore dello sfruttamento economico-politico, la vetrina in cui viene esposto «il punto più alto», il modello che dovrebbe motivare l’integrazione proletaria. Ma è anche il punto più debole del sistema: dove le contraddizioni appaiono più acute, dove il caos organizzato che caratterizza la società tardocapitalista appare più evidente, dove le spaccature politiche fendono verticalmente l’intero tessuto sociale. È su questo terreno che il proletariato moderno emerge più impetuosamente, dove acquista coscienza della sua unità. È qui, nel suo cuore, che il sistema va colpito.
La città deve diventare per l’avversario, per gli uomini che esercitano oggi un potere sempre più ostile ed estraneo all’interesse delle masse, un terreno infido: ogni loro gesto può essere controllato, ogni arbitrio denunciato, ogni collusione tra potere economico e potere politico messa allo scoperto.
«Agire nelle masse come pesci nell’acqua» vuol dire per noi impedire al potere di avere un’immagine definita della sua forza, braccarlo nelle sue tane e rivolgere contro di esso e i suoi rappresentanti (o contro chi ne assume in modo cosciente o incosciente la difesa, e se ne rende complice) tutta la violenza che esso sputa ininterrottamente contro la grande maggioranza del popolo. Alla violenza globale di un sistema che tende a controllare il cittadino in ogni suo atto pubblico e privato, bisogna contrapporre l’impegno globale del rivoluzionario, capace dì trasformare ogni suo gesto, ogni sua collocazione di lavoro o d’abitazione in un centro di lotta. La rivoluzione culturale fa oggi tutt’uno con la rivoluzione politica: a questa opposizione globale che è in grado di trasformare in forza la sua immensa superiorità politica, culturale e morale, il sistema può opporre soltanto il peso della sua oppressione, dei suoi ricatti, della sua corruzione. Con queste armi nessun sistema è mai riuscito a sopravvivere.

IL LIVELLO D’ORGANIZZAZIONE NELLA SITUAZIONE ATTUALE

Le caratteristiche della situazione attuale possono essere così riassunte:
Le lotte particolari, spontanee hanno esaurito a loro funzione trainante. La dimensione reale dello scontro è oggi sociale, complessiva; il suo punto più alto è la lotta contro la repressione, che è lotta contro la violenza globale del sistema, e quindi già direttamente rivoluzionaria.
Le organizzazioni revisioniste sono incapaci di scendere su questo terreno: l’appello resistenziale alla legalità costituzionale, la tattica difensiva, denunciano praticamente la «via italiana al socialismo» per quello che è: una strategia riformistica di inserimento del proletariato nell’ambito dell’egemonia economico-politica borghese. Praticamente: ciò significa che sempre più nel futuro le organizzazioni sindacali e i partiti «operai» appariranno alle masse per quello che sono, e si riveleranno incapaci di fronteggiare l’offensiva capitalistica.
Dal canto loro le forze rivoluzionarie soggettive affrontano lo scontro in una condizione di estrema debolezza: questa debolezza che è teorica e pratica insieme si esprime vistosamente sul piano organizzativo. La paralizzante «attesa del partito» e la pratica sostanzialmente spontaneista costituiscono un circolo vizioso che si esprime nella falsa alternativa fra:
– Contestazione istituzionalizzata, e cioè lotte particolari che sollecitano soluzioni particolari, «rivoluzioni culturali» che si affidano alla tolleranza del sistema, manifestazioni «ordinate e pacifiche» che dietro gli slogan pseudorivoluzionari nascondono la resa al riformismo.
– Estremismo spontaneista che si esprime attraverso la radicalizzazione degli stessi contenuti politici riformisti. Si chiedono più soldi, più libertà in fabbrica, più energia nella lotta contro la repressione, nell’illusione di battere sindacati e partiti in questa «gara al rialzo».
Queste posizioni si giustificano con un solo argomento: che le masse non sono preparate ad affrontare lo scontro al livello imposto dal capitale. Valutazione che contiene un doppio errore: da un lato miticizza le masse, ritenendole capaci di affrontare (un giorno o l’altro) spontaneamente la lotta rivoluzionaria; dall’altro sottovaluta le masse ritenendole incapaci di intendere i termini di una lotta rivoluzionaria, che è compito delle avanguardie intraprendere.
Nota – È necessario distinguere tra:
Masse: che sono costituite dalla cosiddetta «maggioranza silenziosa», manipolata e manipolabile, vittime di un’oppressione che le riduce al livello di «opinione pubblica», principale campo d’intervento dell’organizzazione dei consenso.
Nenni, per esempio, giustificò il centro-sinistra con un argomento più o meno di questo genere: le masse oggi vogliono raggiungere un più alto livello di consumi, e se ne fregano di cambiare radicalmente la società; quindi io, socialista, che sto sempre con le masse, opero per creare la società dei benessere.
Movimento di massa: è l’elemento dinamico in cui si esprime immediatamente la lotta di classe in termini di conflittualità fra la forza-lavoro e i datori di lavoro, fra le classi dirigenti e i subordinati, fra gli oppressori e gli oppressi. Rispetto al movimento di massa due possono essere gli atteggiamenti: di chi sfrutta il movimento, restandone sostanzialmente alla coda; di chi ne interpreta le esigenze più profonde, ancora latenti e inespresse, e opera soggettivamente per uno sbocco rivoluzionario della lotta. È la distinzione, vecchia come il movimento operaio, tra riformisti e rivoluzionari. L’alibi dei riformisti è sempre stato: le masse non sono mature. In realtà è assurdo chiedere alle masse una maturità che le cosiddette «avanguardie» non riescono a esprimere.
Organizzazione rivoluzionaria: È l’organismo politico espresso dai contenuti più avanzati del movimento di massa, il suo più alto grado di coscienza collettiva. Che non possa e non debba «staccarsi dalle masse» è addirittura ovvio; ma è altrettanto vero che questa unità masse-organizzazione rivoluzionaria è una unità dialettica, il frutto di una lotta, non un dato aprioristico, mancando il quale si resta fermi. Sottoporsi alla spontaneità del movimento significa restare, di fatto, fermi. Può essere significativo ricordare che durante la rivoluzione cinese il vecchio incitamento degli ufficiali: «Andate avanti», era stato sostituito col più corretto «Venite avanti». L’organismo politico che non sia in grado di rivolgersi alle masse col motto: «Venite avanti», è la ridicola parodia, verbalmente rivoluzionaria, dei partiti revisionisti.
Dobbiamo porci il problema concretamente. Quale livello d’organizzazione è oggi possibile e necessario? È utile paragonare questo momento con la fase iniziale delle lotte spontanee 1968-1969. Come allora si dovevano «inventare» i modi e gli strumenti organizzativi capaci di contenere ed esprimere il nuovo discorso politico dell’autonomia, così oggi occorre realizzare un salto qualitativo nello sviluppo delle strutture organizzative, capace di commisurarsi alla nuova prospettiva di lotta: lotta sociale generalizzata contro la società capitalistica. Lo strumento organizzativo, per non diventare un giogo burocratico, deve essere sempre funzionale ai contenuti e agli obiettivi politici che si vogliono perseguire.Cub, Gds, movimenti studenteschi di sede, ecc. hanno avuto una funzione: essere gli strumenti della rinascita del movimento autonomo del proletariato, attraverso lotte autodeterminate e autogestite.
L’ambito politico di tale lotta era collocato fondamentalmente nella scuola e nella fabbrica, cioè all’interno delle istituzioni. Lo strumento organizzativo non poteva quindi che essere interno a tale ambito. Nel momento in cui le lotte si sono generalizzate, e in cui molti dei contenuti politici dell’autonomia sono stati acquisiti (al punto che sindacati e partiti sono costretti a mistificarli), nel momento in cui le lotte non hanno più come ambito politico di riferimento solamente la fabbrica e la scuola, lo strumento organizzativo interno, settoriale, non ha più funzione politica reale e giustamente viene travolto dalle stesse lotte che ha generato. Sviluppare l’autonomia proletaria oggi significa superare le lotte settoriali e gli organismi settoriali. Questo superamento non può che avvenire attraverso la lotta contro le tendenze «conservatrici», presenti all’interno del movimento, che confonde l’autonomia con il suo primo livello di espressione organizzata: appunto i Cub, Gds, i MS. Qual’è oggi il reale spazio politico degli organismi di base? L’esperienza delle lotte contrattuali e la paralisi del movimento studentesco, ci dimostrano che lo spazio politico all’interno della lotta rivendicativa si è ristretto a tal punto che l’azione degli organismi settoriali è sì funzionale allo sviluppo della lotta, ma nella stessa direzione e verso gli stessi obiettivi dei sindacati dei partiti. In altri termini, con queste strutture organizzative settoriali, si finisce per potenziare la gestione sindacal-parlamentare delle lotte proletarie.
La dimensione sociale della lotta richiede organismi di base a livello sociale. Per quello che ci riguarda, l’unità di base primaria del nostro lavoro politico è costituito dall’area metropolitana milanese. Non si tratta quindi di fare un salto da organizzazione di base a organismo di vertice, o di estendere quantitativamente una rete di collegamenti costituendo una specie di federazione dei gruppi di base, ma di costruire organismi politicamente omogenei per intervenire nella lotta sociale metropolitana. II superamento dell’operaismo e dello studentismo (le tendenze conservatrici del movimento) non può, a nostro parere, avvenire attraverso la unione spontanea, sporadica e apolitica di operai e di studenti (oppure rinviata al mitico partito marxista-leninista), ma attraverso la creazione di nuclei organizzativi che si pongano a livello dei problemi sociali complessivi. La confluenza in essi di operai, studenti e tecnici non è un fatto meccanico, organizzativistico, ma il frutto della coscienza dei nuovi contenuti e dei nuovi obiettivi che si pongono al movimento.

5. Alcune note di metodo sul lavoro del collettivo politico metropolitano

1) Il collettivo non si propone come organismo dirigente, ma come nucleo agente.
il nostro problema non è quindi quello di porci in concorrenza con sindacati, partiti, partitini, gruppi, per «dirigere le masse», ma di esercitare un’azione dialettica che contribuisca alla crescita politica delle masse, allo sviluppo dell’autonomia, alla trasformazione delle lotte sociali specifiche e settoriali in lotta sociale generalizzata.
Ci poniamo quindi come strumento teorico-pratico all’interno del movimento generale del proletariato che – seppure in forme embrionali e ancora assai limitate – tende a una trasformazione globale della società.
Il collettivo non è un’associazione di gruppi, ma ad esso si partecipa individualmente, come militanti. Non si tratta quindi di «egemonizzare» o «catturare» Cub, gruppi di studio o altri organismi di base, per poi gestirli a livello generale, ma di costituire un organismo politico, di militanti attivi, che si impegnano à svolgere un lavoro politicamente omogeneo all’interno di situazioni sociali e nel più generale tessuto metropolitano.
Militanti attivi: non ci interessa quindi organizzare un consenso passivo, da spettatori, di individui che delegano ad altri la responsabilità politica delle loro azioni e dei loro pensieri. La misura e il riferimento delle nostre azioni va cercata nella capacità di sviluppare le contraddizioni antagonistiche tra il movimento complessivo delle masse e il sistema capitalistico, nella capacità di colpire il sistema borghese.
2) Attaccare al punto più alto.
Tra i vari problemi che il lavoro politico ci ha posto in questi mesi uno è molto importante e può essere formulato in questi termini: in una situazione in cui siano presenti vari livelli di coscienza dobbiamo attaccare il punto più alto o il punto più basso?
Un esempio chiarirà il problema e la risposta.
Un militante rivoluzionario che si trovi a dover lavorare in un organismo di base politicamente eterogeneo, una volta individuata la sinistra e la destra di quella situazione da dove partirà per sviluppare il suo lavoro politico?
– Se parte dalla «destra» cioè dal punto più basso, egli si preclude la possibilità di sviluppare un’azione emancipante, trainante, rivoluzionaria, e comunque si pone ad un livello di problemi già «scontato» nell’esperienza complessiva del gruppo. È questa una posizione opportunista, che consente di lavorare con degli «operai» o con degli «studenti», ma non con l’autonomia proletaria.
– Se attacca a partire dal punto più alto, e cioè dalla sinistra, egli si mette in grado di verificare e il suo discorso e la sua forza reale, consentendo all’autonomia una dialettica chiarificatrice.
È questa seconda risposta che deve informare le nostre scelte ed il nostro lavoro.
3) I militanti non partecipano al collettivo ma costituiscono il collettivo.
Se nel 1968-69 essi hanno costituito degli organismi di base (Cub, Gds, gruppi del MS, ecc.) collocati politicamente oltre che organizzativamente nelle situazioni specifiche (fabbrica, scuola, quartiere, ecc.) oggi essi concepiscono come proprio organismo di base il collettivo. Il che significa:
a) Il punto di riferimento della propria azione politica non è più l’ambito specifico ma diventa quello generale metropolitano. Il superamento degli organismi particolari, settoriali, si materializza in una nuova definizione del militante che assume su di sè e sulla propria azione tutta la complessità di un intervento politico generale. La militanza rivoluzionaria infatti o è generale e complessiva o non è.
b) I militanti del collettivo devono individuare all’interno di un’analisi politica complessiva i punti nodali di sviluppo e gli ambiti strategici di intervento sulla metropoli.
Occorre cioè determinare per punti di forza lo sviluppo del lavoro politico del collettivo all’interno delle strutture produttive e dei gangli fondamentali della vita sociale metropolitana.
Agire per punti di forza significa anche concentrare in modo articolato le esigue forze di cui si dispone per renderle incisive nell’azione politica. Concretamente: se un compagno, volendo svolgere un’azione rivoluzionaria, si trova isolato nel suo ambito specifico, è meglio che si renda disponibile per la costruzione dell’organizzazione generale del collettivo e per concentrarsi in altri ambiti di lavoro politico più produttivi.
4) Lotta politica e rivoluzione culturale.
Il proletariato occidentale si aggira per la Europa in cerca di ricomposizione. Gli strumenti che aveva creato per instaurare la sua «dittatura» gli stanno ora di fronte, contrapposti, estranei, e lo coinvolgono in un processo privo nel contempo di ragione e di storia. Ancora una volta ragione e storia delle classi dominanti si sono impossessate anche del suo cervello. Il padrone gli ha preso tutto, il presente e il passato, la testa e le palle: un esproprio globale che ammette solo una risposta globale.
È così che una storia ignobile come quella delle nostre classi dominanti non alimenta il nostro odio per esse. È così che a un presente intollerabile, se commisurato con le nostre possibilità, non corrisponde un’adeguata coscienza della sua intollerabilità.
Noi siamo profondamente segnati da una vita sociale alienata in cui la «separazione» sembra essere la legge dominante: separazione tra pubblico e privato, separazione tra essere e coscienza, separazione tra la testa e le palle. L’io ultradebole, nevrotico, alienato, egoista, individualista, manipolato, e un dato col quale fare i conti: è un dato della nostra rivoluzione.
La lotta per un «mondo nuovo» è anche la lotta per un «uomo nuovo». La rivoluzione politica coincide finalmente con un reale e profondo processo di rivoluzione sociale e culturale. La rivoluzione uscita dall’utopia diventa attuale in primo luogo nella comunità rivoluzionaria. Essa passa contemporaneamente «dentro» e «fuori» ognuno di noi; dentro e fuori ogni comunità rivoluzionaria, dentro e fuori ogni collettivo di lavoro. Essa esige una reale contemporaneità fra la trasformazione dell’uomo e la trasformazione delle sue istituzioni, tra la trasformazione dei bisogni e la trasformazione dell’apparato di produzione e consumo. Nella comunità rivoluzionaria il lavoro collettivo è il primo momento dell’indispensabile riunificazione dell’essere sociale con la sua coscienza. Lavoro collettivo è responsabilità collettiva, è assunzione in prima persona dei problemi complessivi di tutti.
Due elementi generali sostanziano questo lavoro. Essi sono: fiducia e disponibilità reciproca.
Fiducia: non si tratta di un dato psicologico, fondato sul «conoscersi bene», su vaghi aspetti di cameratismo, ma di una fiducia politica che si conquista attraverso la prassi comune. Non dobbiamo mai dimenticare che viviamo in una società capitalista che aliena costantemente i valori fondamentali del rapporto pubblico e privato, in una società tardocapitalista che produce «io» debolissimi.
Non siamo buoni selvaggi in una società buona, ma «a priori» figli di puttana in una società malata. Un militante non ha il diritto di dimenticare questo nè per chiedere nè per concedere una fiducia a scatola chiusa che può mettere in pericolo lo sviluppo del lavoro politico organizzato.
D’altra parte la sfiducia illimitata – anche questa elargita su basi psicologiche – e paralizzante e non consente di sviluppare il processo di collaborazione.
Quindi: costruiamo strutture di lavoro nelle quali sia possibile tradurre progressivamente le nostre esigenze in capacità, le nostre curiosità in conoscenza, la nostra buona volontà in partecipazione effettiva.
Disponibilità reciproca: vi è un unico modo di rendersi reciprocamente disponibili: definire e accettare una disciplina collettiva, offrire cioè la garanzia agli altri che si è nel posto in cui si dovrebbe essere, che si fa quello che ci si è impegnati di fare. L’improvvisazione e l’indisciplina sono le caratteristiche organizzative dello spontaneismo (non già della spontaneità di massa capace di un altissimo, anche se per ora sporadico, grado di disciplina collettiva). Parlare di disciplina, per gli spiacevoli echi che suscita, significa trovarsi di fronte alla obiezione: ma allora la libertà? Una vecchia risposta marxista per una vecchia domanda: la libertà borghese è la libertà dell’individuo isolato nei confronti di altri individui isolati, tutti schiacciati da una spietata (anche se oggi imbellettata e infiocchettata) macchina di dominio. Voler richiamare in vita questa «libertà» illusoria significa rinunciare alla realizzazione della libertà reale.
Questa forma superiore (seppure ancora imperfetta) di libertà che è la disciplina militante esclude ogni passiva accettazione di ordini, ma si fonda sulla partecipazione costante e cosciente di ognuno al lavoro collettivo. Sono gli spettatori, i passivi (che non significa i compagni meno esperti o meno capaci) che permettono il formarsi delle gerarchie burocratiche.

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