Memorandum del Governo Provvisorio toscano

Memorandum del Governo Provvisorio ai Membri del Corpo diplomatico per dichiarare le ragioni e l’indole della mutazione avvenuta il 27 aprile.

Categoria: Risorgimento

MEMORANDUM.
Il Governo provvisorio toscano crede esser suo debito verso il paese, del quale regge pel momento le sorti, di esporre all’Europa le cagioni e l’indole del movimento che nella giornata del 27 Aprile de corso ha avuto per effetto la partenza di Leopoldo Secondo dalla Toscana, e la mutazione dell’ordine politico dello Stato. Da questa esposizione apparirà
manifesto come la condotta dei Toscani sia stata non meno temperante che patriottica, ed improntata di una moderazione pari alla generosità dei loro Sentimenti.
Appena sul principio dell’anno cominciò ad agi tarsi di nuovo la gran questione dell’Indipendenza ltaliana e furono intravedute le probabilità di una prossima lotta, tutta la Toscana se ne commosse profondamente. Uno fu il voto, una l’aspirazione di tutti. Ogni classe di cittadini si associò di gran cuore a questo nobile movimento dell’opinione, né di tale unanimità mancarono le manifestazioni o furono dubbiose. Pubblicazioni importanti per la elevatezza delle vedute e per il nome di chi le firmava, la partenza da ogni parte di Toscana per il Pie monte di migliaia e migliaia di giovani appartenenti ad ogni condizione sociale, il linguaggio aperto e pieno di entusiasmo di qualsivoglia classe di cittadini, tutto addimostrava palesemente qual si fosse in Toscana lo stato degli spiriti e dell’opinione.
In mezzo a tanto agitarsi di passioni, di belle e nobili passioni, il Governo granducale solo rimaneva impassibile ed inerte. Quanto più esso avrebbe dovuto fare per remuovere da sé il tristo sospetto di simpatizzare per l’Austria e di volersi collegare con lei, tanto meno faceva. Eppure gli avvisi ed i savi consigli anche in via officiale non gli manca vano. Il Governo provvisorio ha preso cognizione dei rapporti che al Governo granducale indirizzavano i suoi Agenti sia all’interno, sia all’estero, ed è per lui dovere di equità riconoscere che nessuno o quasi nessuno gli dissimulava la verità. Lo stato della opinione pubblica e la gravità della situazione gli erano generalmente con sincerità e con lodevole indipendenza rappresentati, ma tutto riusciva inutile; il partito del Governo granducale era irrevocabilmente preso; esso voleva rimanere neutrale. A tutti i con sigli, a tutti gli avvisi, a tutte le ammonizioni egli rispondeva sempre con una parola sola «neutralità º
procurando perfino di dimostrare esser questo il partito più utile agli interessi della Toscana; quasichè la neutralità non fosse la negazione del principio che commuoveva le moltitudini, e come se in una questione di tanta grandezza si potesse senza vergogna per il paese parlargli d’interessi. Se in questo frattempo qualche atto governativo veniva º
luce, esso certamente rivelava piuttosto una mal ce lata antipatia e un senso di ostilità contro lo stato dell’opinione, anziché un leale desiderio di sodi sfarla. Il Governo granducale insomma si comportava, in presenza di un sentimento magnanimo e profondo che tutti i Toscani condividevano, come se si trovasse a fronte del sentimento anarchico e artificiale di una fazione.
Intanto gli avvenimenti incalzavano; il Congresso proposto dalla Russia, e sul quale il Governo di Leopoldo Secondo aveva fondate tante illusioni, era riconosciuto impossibile, e la guerra si avvicinava. Le pratiche già iniziate col Principe e col Ministero dai più ragguardevoli personaggi onde in durre il Governo a consentire al voto universale della Toscana, si fecero allora più incalzanti, ma senza ottenere per questo un successo migliore.
Negli ultimi tempi anche l’esercito toscano aveva dato apertissimi segni di animo concorde coi cittadini e del suo ardente desiderio di partecipare alla lotta che si stava apparecchiando per la gran Causa del riscatto nazionale. La sua disciplina era eccellente, la sua fedeltà inattaccabile, ed esso ne aveva date prove non dubbie allorché nel 29 Giugno 1857 era chiamato a reprimere in Livorno un movimento apertamente fazioso e di un’indole così diversa da quella del movimento attuale. Ma il porlo nelle circostanze presenti in conflitto con un senti mento così generoso quale si è quello della indi pendenza nazionale, con un sentimento così universalmente diffuso, con un sentimento infine che era impossibile che non facesse palpitare il cuore del soldato come quello di ogni altra classe di cittadino, il tenerlo di più sotto gli ordini di un generale austriaco, era atto di inconcepibile imprudenza e º doveva anche agli occhi dei meno veggenti condurre immancabilmente all’effetto di sciogliere nella truppa i vincoli della obbedienza.
Così è difatti accaduto; fino dal giorno 26, saputosi appena l’arrivo in Genova delle truppe di S. M. l’Imperatore dei Francesi, non era più dubbioso per alcuno in quali disposizioni si trovasse l’armata, e come dovesse il Governo granducale rinunziare alla speranza di farne un passivo istrumento dei suoi disegni. Il giorno 27, in cui conoscevasi essere per ispirare il termine della intimazione austriaca al Piemonte, la posizione delle cose si fece più grave. Una immensa moltitudine di persone di ogni ordine si raccolse sulla piazza di Bar bano con Bandiere tricolori, gridando viva la guerra;
viva la indipendenza d’Italia; viva Vittorio Emanuele capitano della lega italiana; le due fortezze di S. Gio. Battista e di S. Giorgio inalzarono anch’esse la bandiera tricolore, e la rivoluzione fu compiuta.
E qui cade in acconcio di narrare un fatto in torno al quale, per quella moderazione di cui ci siam fatti una legge, non ci diffonderemo lunga mente, ma che l’Europa civile apprezzerà, giudicando da qual parte sia stata la temperanza, da quale le improntitudini o almeno il desiderio impotente delle medesime. Esisteva nel forte di S. Giorgio, detto comunemente di Belvedere, una circolare segreta, sigillata, inviata dal Generale a tutti i Co mandi nell’Agosto dell’anno decorso. Alle 8 anti meridiane del 27 Aprile l’Arciduca Carlo, secondogenito di Leopoldo Secondo, si recava nel Forte suddetto, convocava gli Ufficiali e comunicava loro di esser latore di una lettera del Generale Ferrari da Grado, con la quale ordinava l’apertura della Circolare già rammentata. Il piego fu aperto, e fu
trovato che esso racchiudeva le istruzioni preliminari per un attacco contro la città. Queste istruzioni furono completate a viva voce dall’Arciduca Carlo, il quale conchiuse domandando agli Ufficiali quante munizioni si avessero e di quante scatole di artiglieria potessero disporre. A tali parole il Comandante del Forte con rispettosa fermezza replicò dichiarando all’Arciduca che, mentre egli ed i suoi compagni avrebbero senza esitazione esposta la loro vita per tutelare la sicurezza di lui e di tutta la famiglia Reale, si rifiutavano però con ribrezzo al pensiero d’incrudelire contro i propri concittadini, di niente altro colpevoli se non di un generoso sentimento di nazionalità che l’esercito istesso si faceva gloria di condividere.
Mancata in tal modo ogni lusinga di repressione, il Principe si determinò a chiamare il Marchese di Lajatico, uno fra i più eminenti capi del partito costituzionale, ed uno dei primi che avesser fatto intendere al Governo granducale i consigli che potevano salvarlo. Il Marchese di Lajatico, dopo esser venuto a consulta con i suoi amici politici, dichiarò riverentemente ma schiettamente a Leopoldo Secondo che, al punto cui eran giunte le cose, la condizione fondamentale di ogni aggiustamento delle medesime era la di lui abdicazione. A questo partito il Principe tenacemente si rifiutò « non permettendogli il suo onore di sottostare, come egli disse, ad una tale violenza».
Senza volere menomamente mancare al rispetto dovuto alla sventura, è impossibile non riconoscere, dopo i fatti superiormente narrati, che la persona di Leopoldo Secondo era diventata incompatibile con l’andamento e la tranquillità di bene ordinato Governo. La sua attitudine da quattro mesi a questa parte, tutto il suo sistema di politica austriaca seguito negli ultimi dieci anni, il partito stesso di non cedere se non quando era gli evidentemente mancato fra mano ogni mezzo materiale di resistenza, tutto avrebbe contribuito a ingenerare e mantenere negli animi una diffidenza perpetua, in distruttibile, diffidenza che in momenti così supremi avrebbe infallibilmente tenuto lo Stato in continui turbamenti e cagionato forse dolorose catastrofi.
Respinto inflessibilmente il partito dell’abdicazione e preso quello di abbandonare la Toscana, Leopoldo Secondo convocò il Corpo diplomatico, e dopo avere alla presenza sua protestato contro la dura condizione alla quale ricusava condiscendere si rivolse più specialmente ai Ministri di Francia e d’Inghilterra domandando loro di quali forze potessero disporre per proteggere la sicurezza sua e della sua famiglia, e tutelare la sua partenza. Avuto in risposta da ambedue che nessuna forza materiale trovavasi a loro disposizione, fu invocata da tutti la influenza morale. Il timore che queste domande rivelavano era affatto insussistente, perché le condizioni della città non racchiudevano pericolo di sorta.
Nulladimeno tutti i Ministri promisero, e sopra ogni altro il Ministro di Sardegna. È da notarsi che il Principe, prima di annunziare formalmente queste sue volontà al Corpo diplomatico, era lungamente rimasto stretto a segreto colloquio col Ministro d’Austria.
Poche ore dopo, Leopoldo Secondo aveva abbandonato il suolo toscano; la sua partenza ebbe luogo non solo con pienissima sicurezza ma con decoro.
Lo accompagnarono il Corpo diplomatico e lo Stato maggiore della Uffizialità residente a Firenze.
La popolazione fu ammirabile di calma e di dignità. Non una minaccia, non un grido furono pro feriti; risposta eloquente all’accusa di triste e sediziose pressioni, e stupenda riprova della civiltà del paese.
Rimasta per tal modo la Toscana senza Governo, prontamente si raccolse il Municipio, unica autorità che rimanesse con legittimità di mandato, e prendendo le redini della cosa pubblica nominò un Governo provvisorio nelle persone dei tre sottoscritti.
Il Governo provvisorio pertanto è una emanazione, dell’Autorità municipale, ed è stato istituito unicamente all’oggetto supremo di provvedere alla pubblica sicurezza.
Penetrato del pensiero di questa gravissima responsabilità e desideroso di abbreviarne la durata, il Governo provvisorio doveva naturalmente pensare ai mezzi di dare allo Stato un assetto se non definitivo, almeno più stabile, e fornito di maggiori elementi di pubblica tranquillità.
L’indole del movimento che aveva cambiato l’ordine politico della Toscana lo metteva facilmente sulla via. Se mai vi è stata rivoluzione sulle cui cagioni non è possibile l’equivoco, ed informata da un solo ed unico pensiero, ella è fuor di dubbio la rivoluzione accaduta in Firenze il 27 di Aprile. Essa ha proceduto esclusivamente dall’idea nazionale e dal conseguente desiderio di concorrere alla guerra che si sta combattendo per la indipendenza d’Italia, partecipando ai pericoli della lotta ed alle glorie del riscatto.
Questo essendo stato il carattere unico ed esclusivo del rivolgimento che si è compiuto in Toscana, a chi meglio e con maggiore conformità ai voti delle popolazioni avrebbero potuto affidarsi i destini del paese, se non al Governo piemontese che a sì nobile causa tante prove ha già dato della sua lealtà, e la cui condotta e generosa attitudine in spirano a tutte le popolazioni della Penisola una così illimitata fiducia?
In questo profondo convincimento, il Governo provvisorio toscano si è affrettato a rivolgersi al Governo di S. M. il Re di Sardegna pregandolo ad assumere il protettorato della Toscana fintantoché dureranno le vicende della guerra. La domanda è stata limitata dalla condizione che la Toscana anche in questo periodo puramente transitorio conservasse la pienezza della sua autonomia, un’amministrazione separata da quella della Sardegna, dovendo poi aver luogo il suo ordinamento definitivo a guerra finita ed allorché sarà proceduto a quello generale d’Italia. Il Governo piemontese ha con benevolenza accolte tali aperture, ha accettata nell’interesse della causa comune questa eminente tutela, e quanto prima giungerà a Firenze un Commissario inviato a tal fine da S. M. il Re di Sardegna.
Il Governo provvisorio toscano rimetterà nelle sue mani il reggimento della Toscana, forte della coscienza di avere adempiuto un gran dovere, e altero per il decoro del paese di poter dire che non una stilla di sangue, non un insulto, non il più lieve disordine hanno accompagnato o seguito un così sostanziale mutamento di cose.


Firenze, li due Maggio milleottocentocinquantanove.
Cav. UBALDINO PERUZZI
Avv. VINCENZO MALENCHINI
Mag. ALESSANDRO DANZINI.

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