Perché non possiamo non dirci anticoncordatari

Perché non possiamo non dirci anticoncordatari, discorso contro i patti lateranensi di Benedetto Croce, tenuto il 24 maggio 1929 al Senato

Parlo a nome mio e di pochi colleghi i quali, non potendo dare il loro assenso al presente disegno di legge, non hanno voluto, d’altro canto, in questione così grave, astenersi dalle sedute del Senato o allontanarsi dall’ Aula. Anche per questo sentimento che è prevalso in noi, son sicuro che il Senato presterà alcuni minuti d’attenzione a quel che sono per dire.
Dichiaro anzitutto, perché non abbia luogo equivoco, che nessuna ragionevole opposizione potrebbe sorgere da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato italiano con la Santa Sede. La dichiarazione è perfino superflua, in quanto è troppo ovvia. La legge stessa delle guarentigie avrebbe avuto il complemento della conciliazione, se la santa Sede l’avesse accettata (Interruzioni), o se, movendo da essa, avesse aperto trattative, che non erano escluse e potevano essere coronate da accordo. I ripetuti tentativi, fatti nel corso di più decennii, dall’una e dall’altra parte, comprovano la tendenza a metter fine a un dissidio che apportava danni o inconvenienti all’una e all’altra parte, e non starò ora a cercare per minuto a quale delle due li apportasse maggiori. Allo Stato italiano si direbbe di no, segnatamente dopo la prova dell’ultima e grande guerra, nella quale la legge delle guarentigie si dimostrò affatto adeguata alla situazione e tale da lasciare al Pontefice la piena libertà; come, per un altro verso, i risultati della guerra, con la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, estinsero gli ultimi timori di una rivendicazione di carattere internazionale del potere temporale.


La ragione che ci vieta di approvare questo disegno di legge non è, dunque, nell’idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l’hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge (Interruzioni – Commenti).
All’annunzio dell’avvenimento fu subito detto in Italia, e ancor più nella stampa estera, che la politica ecclesiastica che lo Stato italiano inaugurava col concordato era, nei suoi principii, l’abbandono di quella per ottanta anni seguita dal Risorgimento e nella Italia una. (Rumori vivissimi). Ciò è vero; ma non è, storicamente, tutta la verità. Perché l’intera verità storica è che il Risorgimento italiano ha le sue prime origini alla fine del seicento e fu segnato dalla lotta e dall’ascensione del pensiero e delle istituzioni laiche di fronte alla Chiesa. Il suo primo grande nome è quello di Pietro Giannone, martire di questa causa, perseguitato, arrestato con inganno, tenuto prigioniero per oltre un dodicennio, e morto in prigione. Questo tratto originario della nuova Italia non si perse mai, neppur quando si formò un partito nazionale-liberale-cattolico, che accolse uomini insigni, da tutti ancor oggi ricordati e venerati, e un poeta che si chiamò Alessandro Manzoni. Quel partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa.
La conseguenza di quel movimento fu, come a voi tutti è noto, l’attenuazione e quasi la sparizione del giurisdizionalismo, e la libertà riconosciuta alla Chiesa nell’ambito dello Stato italiano. Era il solo dono che il pensiero moderno potesse offrire alla Chiesa, ancorché i clericali lo considerassero come un cavallo di Troia, un dono fatale; sul qual punto non è il caso di discutere, giacché è evidente che fatale sarebbe riuscito solo se la Chiesa, nella libera gara, non avesse attestato la capacità di mantenere il suo sistema spirituale e morale. Di ciò spettava a lei la responsabilità e la cura, perché, nel nuovo presupposto civile, non le era più lecita la pretesa di essere sostenuta nella lotta da pressioni esercitate sulle coscienze per mezzo del potere laico.
Ma, comunque i clericali pensassero o pensino in proposito, è certo che la Chiesa, per effetto del nuovo ordine, non solo poté svolgere la sua opera e la sua propaganda, ma ottenne una considerazione di rispetto, e anche di reverenza, che le era venuta meno in Italia per secoli presso i migliori. Una prova sola, ma fulgida, vi addurrò a conferma del mio detto: la letteratura italiana, la quale, da Dante a Foscolo, e anzi fino al Carducci della prima epoca, è tutta, nella lirica e nell’oratoria, nella satira e nella commedia, risonante di accenti anticlericali, spesso feroci o sarcastici.
Or bene: questi accenti si spensero quasi del tutto nella letteratura della nuova Italia: lo stesso Carducci sedò presto quel suo giovanile furore, vagheggiò un giorno di conciliarsi col Papa, e finì col sentire la dolcezza della religione avita, cantando nostalgicamente da poeta l’Avemaria. (Commenti).
Si obietterà che ben persisteva l’anticlericalismo della massoneria. Ma esso era l’altro estremo, e voleva fornire il contrappeso, del nero clericalismo; e l’opinione prevalente si mostrava severa all’uno come all’altro, e più forse all’anticlericalismo, che si giudicava, per non dir altro, cosa di pessimo gusto, peccato d’incoltura nella classe colta. Chi ora vi parla, e che non è stato mai clericale sempre combatté nei suoi scritti la massoneria e l’antiquato anticlericalismo di cui faceva sfoggio; e perciò si sente ora in piena coerenza con se stesso, animato da quella buona fede, senza la quale non ardirebbe né parlare né scrivere.
Consapevoli del passato solleciti dell’avvenire, noi guardiamo con dolore la rottura dell’equilibrio che si era stabilito. Non già che io tema, come si è fatto da taluni alle prime notizie degli accordi, il risorgere in Italia dello Stato confessionale, che porga il braccio secolare al Santo Uffizio e riaccenda i roghi (Rumori vivissimi), o che dia validità all’Indice dei libri proibiti, o risottometta l’educazione della gioventù ai concetti gesuitici.
Queste aspettazioni e queste speranze possono nascere ed essere coltivate in chiusi luoghi muffiti, ma non nel vasto mondo operoso, pieno di sole e di calore. Il pensiero moderno, adulto e robusto, sfida simili assalti o velleità di assalti, e osserva ironicamente che i chierici stessi hanno bisogno di attingere dai suoi tesori di sapere e dai suoi metodi e dal suo costume quel che loro serve per non fare meschina figura nella letteratura e nella scienza e nella vita sociale. Ma, certo, ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce e dalle paure. In questi ultimi mesi, io ho avuto più volte occasione di sentir fremere il più violento anticlericalismo non solo e non tanto in quelli della nostra fede, ma in altri che sono, o uomini del Governo, dalla vostra parte (Rumori vivissimi); e ho ricevuto le confessioni di sacerdoti, di degni sacerdoti, che erano gravemente turbati e pensosi di quel che si preparava per le sorti della Chiesa nell’Italia e nel mondo.
Voi direte che, a infrenare gli eccessi del clericalismo, si provvederà con nuove disposizioni di legge, e già qualcosa ne contengono gli altri disegni che verranno in discussione dopo di questo. Naturalmente, diventato legge questo disegno, come accadrà anche senza il nostro voto, noi non potremo respingere quelle disposizioni che varranno a diminuirne i pericoli. Ma perché prima allargare per poi frenare? Perché prima errare per poi correggere? Per ora, si tratta di questo disegno di legge e non di altri che verranno; e su questo, così com’è precisamente formulato, siamo chiamati a dare il nostro voto. D’altronde, la necessità stessa di modificare o meglio determinare o diversamente interpretare le disposizioni di esso, comprova appunto che l’equilibrio è stato rotto, e che ricominciano i contrasti che i cosidetti concordati si tirano dietro e pei quali già i vecchi giuristi napoletani del settecento, cattolici ma devoti allo Stato, ne deprecavano i negoziati e la conclusione.
Restano due obiezioni,. Che io chiamerei piuttosto due ipotesi, e che, come ipotesi e non come effettivo pensiero degli uomini del Governo, mi piace considerare per un momento, e che vi prego di ricevere solo come tali, e in quanto necessarie alla compiuta esposizione del mio pensiero.
La prima è di coloro che salutano lietamente l’avvenimento che mercé questo disegno di legge si adempie, perché lo stimano fecondo d’insperati ottimi effetti per l’avvenire, secondo il trito detto che dal male nasce il bene e dall’errore la verità. Insperati e ottimi effetti, che variano dalla previsione degli anticlericali che per esso il Papato soffrirà quella fiera scossa che nessuna massoneria era stata capace di dargli, all’altra previsione più mite che il nuovo e duro regime di difesa e di offesa renderà chiaro ai chierici, il gran vantaggio che era per essi nel regime della separazione, e li persuaderà di ciò di cui un Cavour, un Ricasoli, un Giovanni Lanza, nobili spiriti cristiani, non erano valsi a persuaderli.
Costoro, che vengono così ragionando e calcolando, si collocano dal punto di vista della storia futura; e chi tutta la sua vita ha fatto professione di studi storici, deve ancora una volta protestare contro la violenza o l’abuso che è di moda esercitare nel nome della “storia”, trasferendo una congetturata e immaginata, e sia pure non improbabile, storia dello avvenire al presente, e sottraendosi così al fastidioso compito, e pieno di responsabilità, di ricercare e fare semplicemente, nel presente, il proprio dovere.
La seconda obiezione è: che quel che si è eseguito mercé il concordato sia un tratto di fine arte politica, da giudicare, non secondo ingenue idealità etiche, ma come politica, giusta l’altro trito detto che Parigi val bene una messa. Né io nego la mia ammirazione all’arte politica, né ignoro che quel trito detto si suole attribuir leggendariamente a un grand’uomo, a un eroe della storia di Francia, del quale si credette così di interpretare il riposto pensiero, quantunque forse gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non pronunziò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero!
E il nostro voto, comunque per altri rispetti si voglia giudicarlo, ci è imposto dalla nostra intima coscienza, alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza che ci domanda.

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