Relazione della commissione per la riforma della legge elettorale

Relazione della commissione per la riforma della legge elettorale politica redatta dall’on. Giuseppe Zanardelli del 1880

E poiché alla Commissione pervenne pure una petizione di non poche signore di Milano, Bologna, Sassari, Torino, Mondovì, Venezia, Udine, Padova, Firenze, Lugo, Napoli, Ariano, ed altre località, colla quale si chiede che la donna sia ammessa al diritto elettorale sotto le condizioni medesime che saranno sancite per gli altri elettori, non tralascieremo di tener parola d’una domanda che anche ad altri Parlamenti venne presentata, e che presso quello della Gran Bretagna, sei anni or sono, fu appoggiata non da una ma da mille petizioni, portanti oltre 300.000 firme.
E la giustizia di questa domanda si può invero propugnare colì autorità di nomi come quelli del Condorcet, del Bentham, del Romagnosi, del Cobden, dell’Hare, dello Stuart Mill; il quale ultimo dichiara recisamente che considera «la differenza del sesso rispetto al diritto di voto altrettanto insignificante quanto la differenza di statura od il colore dei capelli». E il Girardin, poche settimane or sono, pubblicò nel medesimo senso un volume, nel quale sostiene che «il giorno in cui la donna sarà legalmente e legislativamente l’eguale dell’uomo, quello sarà un gran giorno per l’umanità, un gran giorno per l’incivilimento».
Nella Gran Bretagna, non solo vi sono riviste e giornali fondati per sostenere il diritto elettorale delle donne, e fino dal principio del secolo presente associazioni vastissime per propagarne Tidea, ma dal 1866 in poi quasi tutti gli anni la proposta di rendere partecipe di questo diritto la donna venne presentata e discussa nella Camera dei Comuni, e vi trovò aderenti e propugnatori autorevolissimi, come, oltre lo Stuart Mill il Brighi, il Fawcett, lo Stansfeld, il Dilke. Nelle varie votazioni che si succedettero su tali proposte a favore del suffragio della donna, le medesime ottennero voti numerosi su tutti i banchi della Camera ed anche su quello del Ministero. Nel 1870 il Gladstone, come ministro, pure combattendo la proposta presentata in quell’anno dal Eright, più che altro la dichiarò prematura e incompatibile colla forma del voto palese, che in quel tempo era ancora in vigore secondo la legge britannica, mentre egli diceva che la donna non avrebbe potuto pronunciare un voto palese senza danno del proprio decoro.
Ma di sessione in sessione, come accennammo, si rinnovò la proposta, la quale nel 1875 fu respinta colla differenza di soli 3.5 voti, avendo ottenuto 152 voti contro 187.
Vi fu però un momento nel quale le donne inglesi che pretendono il diritto elettorale procurarono di riuscire all’intento, invece che con una legge nuova, per via d’interpretazione della legge vigente. Forti di un Atto del Parlamento del 1867, il quale dichiara che quando le leggi usano le parole man o person, anziché quella di male person, vi si intendono comprese anche le donne, chiesero di essere inscritte nelle liste elettorali, e trovarono ufficiali municipali e revising barristers che ammisero il loro diritto, sì che nelle elezioni successive votarono anche effettivamente; ma, portata la cosa innanzi ai tribunali, una costante giurisprudenza le escluse.
In antichi tempi, prima del 1640, la donna ebbe voto nella elezione dei deputati, e più tardi intorno a tale diritto di suffragio discuteva ancora il più grande dei giureconsulti inglesi, il Coke, sostenendo non potessero intervenire nelle elezioni politiche, ma soltanto dare il voto anche personalmente per le elezioni dei funzionari del Comune e della parrocchia: nelle quali votano ancora, dappoiché una legge del 1869 espressamente le ammise a concorrere alla nomina dei consiglieri e degli assessori municipali.
In Francia le donne fruirono del diritto di farsi rappresentare agli Stati generali del 1789, nell’Ordine della nobiltà, essendo il voto dato per quella rappresentanza inerente al possesso feudale: ed in quello del clero, nel quale le corporazioni femminili parteciparono alla scelta della rappresentanza. Ma nelle Assemblee della Rivoluzione, epoca in cui fu pure grandissima in tutti i partiti l’influenza delle donne, la proposta di dare loro il voto non ebbe fortuna, neppure quando prevalsero le idee più democratiche.
In questi ultimi tempi, la questione del voto delle donne fu di nuovo oggetto di vive discussioni in quel paese.
Alla Camera invero con una proposta d’iniziativa parlamentare del V agosto 1871 si credette di poter applicare senza pericolo il voto delle donne, facendo votar per esse i rispettivi mariti, senza badare se i rappresentati consentirebbero alla delegazione e concorderebbero nel voto.
Ma così non intendono il voto delle donne coloro che lo propugnano, quelle che lo rivendicano; ed una di queste, Albertina Auclert, con clamorosa protesta, ricusò di pagare quella imposta che col mezzo de’ suoi rappresentanti non aveva contribuito né poteva contribuire a votare.
Nell’Austria secondo la legge odierna, per gli stessi motivi che accennai parlando degli Stati generali della Francia, nella prima classe degli elettori, quella della grande proprietà fondiaria, possono esercitare il diritto elettorale le donne che abbiano il pieno godimento dei diritti civili.
Negli Stati Uniti, paese in cui la donna fruisce di grande indipendenza sociale ed uguaglianza civile, il diritto elettorale della donna, oggetto di sforzi incessanti in molti Stati dell’Unione, è già applicato con legge del 1869 nel Territorio di Wyoming, per non parlare dell’Utah, e per tacere anche del Wisconsin, nel quale un bill riconobbe alle donne maritate il diritto d’elettorato e di eleggibilità, ma non ebbe la sanzione popolare che è colà necessaria. E nel Wyoming, ove il suffragio muliebre da oltre due lustri si pratica, a favore di questa prova e ad encomio del contegno delle elettrici si pronunciarono non poche testimonianze, quella fra le altre, assai autorevole, del governatore del Territorio, John V. Hoyt.
Anche nelle Assemblee di altri Stati e nello stesso Congresso federale, tale proposta di estendere il voto alla donna fu fatta, con maggiore o minor fortuna, ma ovunque senza definitiva riuscita; che, sebbene talvolta colla differenza di pochi voti, le relative mozioni furono respinte nel Massachusetts, Connecticut, Illinois, New York, Maine, California. Avevano invece adottata quella proposta le rappresentanze del Kansas (1867), del Michigan (1871) e del Colorado (1876), ma anche in questi Stati, sottoposta poi al voto popolare, non ottenne la necessaria ratifica.
E, come vedemmo accennando al Wisconsin, non è solo l’elettorato che si propone, ma anche l’eleggibilità della donna, eleggibilità la quale pare a molti sì naturale e legale, perfino pell’officio più eccelso dell’Unione, che d’una donna eloquente. Vittoria Woodhall, sappiamo essersi nelle ultime elezioni sostenuta con vivo ardore e somma costanza la candidatura alla presidenza della grande repubblica.
Né sconosciuto al nostro paese è il voto della donna nelle elezioni amministrative. Nella Lombardia e nella Venezia, esse, non solo poteano farsi rappresentare mediante procuratore nei minori Comuni ove deliberavasi nei Convocati, ma poteano anche essere elette sia alle funzioni i consigliere comunale ne’ Comuni maggiori aventi non Convocato ma Consiglio, sia altresì all’ufficio di primo deputato, che era il capo dell’amministrazione comunale. Ed all’esercizio dell’elettorato per procura erano ammesse le donne anche in Toscana.
Perciò su tali esempi, e su quelli dell’Austria, della Prussia, della Svezia, che all’elettorato amministrativo ammettono la donna, sull’esempio del Comune russo ove la donna stessa è anche eleggibile, il legislatore italiano ne’ vari progetti di legge presentati per la riforma della legge comunale e provinciale, rese partecipe del diritto elettorale amministrativo la donna la quale paghi quella stessa imposta diretta che pei maschi è stabilita dalla legge. E l’onorevole Lanza, nella Relazione del 1^ dicembre 1871 sul progetto di legge comunale e provinciale da lui presentato, in cui il voto è attribuito alla donna, si palesa non avverso ai titoli che essa può avere anche all’elettorato politico. «Non parve da omettere, egli dice, una disposizione tendente ad accordare il voto elettorale alle donne, perché se qualche fondamento può esservi bielle costumanze per negar loro il voto politico, non ve n’ha certamente veruno per non concedere loro almeno l’elettorato nel campo amministrativo».
E quando il successivo progetto di riforma della legge stessa, deliberato dalla Commissione ministeriale di cui fu relatore l’onorevole Peruzzi e presentato dall’onorevole Nicotera il 7 dicembre 1876, fu esaminato dalla Commissione della Camera, il diritto elettorale della donna nelle elezioni comunali e provinciali divenne argomento, dice la Relazione 13 giugno 1877 dell’onorevole Marazio, di viva discussione, e la proposta ministeriale che lo ammetteva non poté passare senza grave contrasto; ma la maggioranza l’accettò, reputando essere il diritto elettorale riconosciuto nella donna una guarentigia d’ordine e di moralità. E il voto della donna dalla maggioranza medesima fu ammesso, perché considerò il Comune come un’associazione di contribuenti, i cui diritti si esercitano principalmente deliberando spese; per cui allo stesso titolo il diritto di elezione fu conferito ai corpi morali, ai minori, ed agli interdetti soggetti a tutela e curatela.
Recentemente, colla legge del 9 dicembre 1877, s’incominciò ad ammettere la donna all’esercizio dei diritti politici, poiché fra i diritti politici va annoverato quello di comparire come testimonio in giudizio oppure per dare l’autenticità agli atti civili, diritti che appunto colla predetta legge vennero riconosciuti nella donna.
Per le elezioni politiche la donna, secondo la legge elettorale vigente, ha soltanto un esercizio indiretto del diritto elettorale, in virtù dell’articolo 11 della legge medesima che le dà facoltà di creare un elettore col designare un figlio od un genero che possa far computare a sé stesso le imposte pagate da lei, e mediante tale delegazione essere inscritto nelle liste elettorali.
Dai fatti e dai precedenti relativi al reclamato suffragio muliebre, passando agli argomenti che si mettono innanzi a suo favore, è innegabile ch’essi non sono privi di valore.
Dacché l’intelligenza, la coscienza, l’indipendenza del voto, sono i requisiti ai quali il voto stesso vuolsi condizionato, come negare vi siano donne le quali questi requisiti indubbiamente possiedono?
Relativamente alla intelligenza della donna, fatta astrazione da tutte le differenze fisiologiche, sulle quali si è tanto studiato e tanto scritto, fra essa e l’uomo; fatta astrazione dalla tesi dello Stuart Mill, il quale sostiene essere dimostrato dalla storia e dalla pratica esperienza, che dalle funzioni regali ai più umili uffici della vita quotidiana, la donna diede e dà prova di saperli adempiere anche meglio dell’uomo, e dalla tesi opposta di coloro che intesero provare l’inferiorità non meno intellettuale che fisica della donna; è assolutamente irrecusabile che un grandissimo numero di donne ha una intelligenza per lo meno più che sufficiente per dare un voto con consapevolezza e discernimento. I nomi splendidi ed illustri di donna si affollano in tanta copia al pensiero di tutti, che sarebbe vana una qualunque enumerazione, necessariamente incompiuta.
Può dunque sembrare grave ingiustizia il negare alla donna di genio, alla donna di scienza, ad altissime capacità femminili, ciò che si concede alle più umili capacità maschili. A capacità uguali, se non superiori, può sembrare debbano incontrastabilmente corrispondere uguali diritti. Ed ove tale parità di diritti si ricusi, non ne verrà, che, siccome una intera metà della nazione non è rappresentata nelle Assemblee che fanno le leggi e da cui emana il Governo, e siccome queste leggi la riguardano e ad essere bene governata la donna ha non minore interesse dell’uomo, essa potrà dire che le leggi, perché fatte senza di lei, sono fatte contro di lei?
E la donna non attribuirà a ciò le svantaggiose ineguaglianze che la legge civile ancora presenta rispetto alla sua condizione giuridica? E se malgrado tali ineguaglianze, molte donne hanno una intera capacità civile, perché invece non dovranno avere alcuna capacità nell’esercizio del più importante dei diritti politici? E non è di gran lunga meno difficile l’esercizio del diritto elettorale, che non quello delle professioni scientifiche cui pure sono ora ammesse e che esercitano spesso con rara perizia?
Quanto poi all’indipendenza del voto, in moltissime donne essa sarebbe così intera, da sembrare anzi una assoluta contraddizione, che una donna non possa votare, quando vota suo figlio, quando vota il suo stesso domestico.
E sotto l’aspetto dell’utilità sociale si osserva collo Stuart Mill che giova dare alla donna un maggiore sentimento della propria responsabilità; si osserva col Romagnosi che sommamente importa associarla alle sorti dello Stato, dacché una nazione suol essere ciò che le donne la fanno; onde il Tocqueville scriveva: la prosperità singolare e la grandezza crescente del popolo degli Stati Uniti doversi principalmente attribuire alla superiorità delle sue donne.
Malgrado l’apparente efficacia di tali argomenti, non è senza profonda ragione che presso nessun popolo, o quasi, come si è veduto, questa compartecipazione alla vita politica si è assegnata alla donna.
L’uomo e la donna non sono chiamati allo stesso officio sociale, agli stessi diritti e doveri, agli stessi lavori, alle stesse cure e fatiche.
Perciò, come ai diritti, così ai doveri della vita pubblica e militante essa, nelle società antiche e moderne, è rimasta estranea, e parve sempre, ad essa stessa in generale e ad altri, per la sua natura, per le sue stesse nobilissime doti, ripugnante e disadatta. Sia pure che possa votare con perfetta intelligenza, con piena indipendenza, ma a questo ufficio non è chiamata dalla sua esistenza sociale. A ragione scrisse il Cherbuliez che più si immagina la donna perfetta relativamente alla parte che le è assegnata, più convien crederla politicamente incapace.


Nella sua missione tutta d’educazione e di affetti, a gioia, conforto ed altissimo incitamento dell’uomo nella vita domestica ed intima, la donna sarebbe spostata, snaturata, involgendosi nelle faccende e nelle gare politiche.
Quelle stesse virtù nelle quali vince veramente l’uomo, per le quali è ammirata ed ammirabile, virtù di tenerezza, d’impeto, di passione, ma che traggono nascimento dal fatto incontrastabile che in essa sovrasta il cuore alla mente, l’immaginazione al raziocinio, il sentimento alla ragione, la generosità alla giustizia, quelle stesse virtù, dicevasi, non sono quelle che ai forti doveri della vita civica maggiormente convengono.
E suo dovere invece, suo ufficio, ed insieme suo voto e suo bisogno, essendo quello di dedicarsi alla assidua cura della famiglia, nessuna pratica le sarebbe dato acquistare ne’ pubblici affari, a cui male quindi potrebbe rivolgere l’animo e l’intelletto.
Perciò la maggior parte delle donne non aspira a che si conferisca loro un diritto, il quale in tal caso sarebbe in pari tempo un dovere, e le costringerebbe ad assumere la parte insopportabile della donna politica, a scendere ad occupazioni e disquisizioni e negozi che sarebbero mortale fastidio per la loro tempra delicata e gentile; mentre la parte nobilissima della donna nella politica è quella di formare i caratteri, di ispirare l’amore di patria, l’altezza dei sentimenti, di sorreggere e fortificare nell’esercizio delle pubbliche virtù, di indirizzare le menti e gli animi ai fulgidi ideali verso cui volgesi e dei quali innamorasi più facilmente il suo pensiero.
Perciò, come dicevo, la maggior parte delle donne ricuserebbe il dono sgradito, come infatti vedemmo negli Stati Uniti, quando agitavasi innanzi ai Parlamenti la questione, presentarsi numerose petizioni di donne chiedenti si rimuovesse dalle loro labbra il calice amaro.
E per noi, gente di legge salica, anche più vivo fu sempre questo concetto della missione della donna. Nell’antica Roma, ove più che mai essa si sentì cittadina, e partecipe ai pericoli, ai trionfi, agli interessi, alla gloria comune; nell’antica Roma, le cui grandi rivoluzioni si ispirarono all’altissimo culto dell’onore, del prestigio, della incontaminabile purezza della donna, era pure massimo encomio della matrona latina, encomio accettato e meritato da incomparabili eroine, il «Domi mansit, lanam fecit».
Non rendasi alla donna il cattivo servizio di trascinarla in una arena ove perderebbe la sua vera dignità, la sua grazia, la sua forza. Questa forza irresistibile, per la quale ben disse il poeta che ad essa «il ferro e il foco domar fu dato», non la troverebbe nei Comizi elettorali, e nemmeno in un Senato di donne, quale lo aveva posto Eliogabalo a sedere al Quirinale, ma bensì in quell’impero onnipossente che rese indimenticabili i nomi della moglie di Temistocle, della madre di Coriolano e di quella dei Gracchi.

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