Relazione di Corridoni a Modena

Indice

Relazione di Filippo Corridoni al Congresso Nazionale dell’Associazione dell’Azione Diretta in Modena
Le forme di lotta e di solidarietà
Le funzioni dello sciopero
L’organizzazione dei capitalisti
La violenza operaia: Il boicottaggio
Riformismo e sindacalismo
Altre forme di boicottaggio
La violenza operaia: Lo Sciopero Generale espropriatore
Il Congresso
Filippo Corridoni: sindacalista, rivoluzionario e interventista

Relazione di Filippo Corridoni al Congresso Nazionale dell’Associazione dell’Azione Diretta in Modena

Le forme di lotta e di solidarietà

Reazione di Filippo Corridoni al Congresso Nazionale dell’Associazione dell’Azione Diretta in Modena
Io non mi illudo sulla sorte destinata a questa mia relazione. I ponderosi problemi del momento, che richieggono dalla saggezza e dall’acume dei rappresentanti del proletariato una risoluzione immediata e definitiva, non consentiranno di queste mie argomentazioni una lunga trattazione. Onde, nella quasi certezza come avviene in tutti i Congressi, la fretta dell’ultima ora costringa i miei compagni ad una trattazione sommaria, incerta e comunque manca non mi pare inopportuno abbondare con copia di argomenti nello svolgimento della mia tesi, perché si possa, faute de mieux trovare in essa a congresso finito, gli elementi per una larga discussione scritta, o lo svolgimento esatto che produca il consenso della persuasione.
Credo di non errare affermando che mai fino ad oggi, in Italia, nei Congressi Nazionali delle organizzazioni operaie si è discusso delle forme di solidarietà proletaria nelle lotte del salario contro il capitale.
Tutti i congressi confederali han mantenuto la discussione nel circolo vizioso dei rapporti con i partiti politici. Il Congresso di Milano del 1906 fu una Babilonia: vi trionfarono l’intrigo e l’equivoco; il Congresso di Modena del 1908 fu una logomachia contro il Sindacalismo assente e nel contempo una palestra per l’esercizio delle qualità oratorie dei diversi Cabrini che andarono ad esporvi i loro ammenicoli di legislazione sociale; il Congresso di Padova del decorso anno si esaurì in un piatto diverbio di tre giorni sulla relazione morale: i problemi di tecnica sindacale vi furono appena sfiorati e dei mezzi di lotta e delle forme di solidarietà non se ne fece punto cenno.
Giustizia vuole ch’io noti come i sindacalisti, nei propri Congressi, non abbiano prodotto di più. A Ferrara nel 1907, quando più ferveva la lotta fra socialisti del partito e sindacalisti che se ne stavano staccando, l’onore della discussione, forse in conseguenza della lotta stessa, se l’ebbe precipuamente la partecipazione o meno del sindacato di mestiere all’elezionismo positivo; a Bologna nel 1909 e pure a Bologna nel 1911 la discussione si aggirò quasi esclusivamente sui rapporti con la confederazione.
Genesi della lotta di classe
Ma non appaga. È necessario cercare una spiegazione alla inconcepibile leggerezza degli organizzatori nel volere quasi scientemente negligere nei propri congressi uno dei problemi più vitali – forse il maggiore – della lotta di classe: le forme ed il disciplinamento della lotta e della solidarietà. E la spiegazione non è difficile. Prima del 1908 non si era ancora combattuta una vera e propria lotta operaia a carattere spiccatamente di classe. Gli scioperi agrari del 1901 e del 1902, nell’Emilia e Lombardia, quelli del 1906 e 1907 nelle Puglie, se furono ragguardevoli e se commossero profondamente l’opinione pubblica nazionale, non scossero apparentemente la compagine del capitale e non stimolarono la borghesia a difendersi con vigoria.
Tali movimenti furono considerati sporadici, malgrado la loro estensione, e giudicato il frutto della soverchia tirchieria degli agricoltori interessati. Si potrebbe aggiungere che parte della borghesia, quella industriale per il dualismo che esiste fra esso e la fondiaria, dualismo provocato dalla divisione della torta protezionista, vedeva con una certa compiacenza l’insorgere degli appetiti contadini, che svegliavano dal letargo accidioso il capitale pigrissimo investito in terre e rimunerativo solo per la protezione degli scandalosi dazi del grano e per tutti gli altri prodotti agricoli. La borghesia agricola dal canto suo pagò di ugual moneta la consorella delle industrie e dei commerci allorché fu travagliata dagli scioperi dei muratori, gasisti e tramvieri di Milano, dei tramvieri di Roma, dei metallurgici, tessitori ecc. prese nel 1901 e 1902. Perfino il governo, alla cui testa erano Zanardelli e Giolitti, sembrava guardasse con benevolenza quella levata di scudi degli operai, che garantiva il governo stesso, sorto sulle rovine del ministero Saracco, quello della chiusura della Camera del Lavoro di Genova, le simpatie ed i voti di quei deputati che avevan bisogno dell’appoggio elettorale della massa operaia.
Lo sciopero generale del 1904 ruppe l’idillio con il governo; lo sciopero agricolo del Ferrarese del 1907 e quello di Parma e di Piacenza dal 1908 gittarono lo scompiglio, il terrore tra le classi borghesi, che si esagerarono il pericolo e corsero alle difese organizzandosi a loro volta e fondendo i propri interessi antagonistici e le proprie forze fino a quel momento in concorrenza per fronteggiare il nemico comune rivelatosi improvvisamente sì audace e forte. E fu allora che la genuina lotta di classe, combattuta direttamente fra salaristi e salariatori, divenne realtà.
E le lotte operaie più non si improvvisarono, ma si preparano con accertezza ed intelligenza e se non fruttarono sempre delle vittorie data la accresciuta resistenza della classe avversaria, svilupparono lo spirito combattivo del proletariato e li diedero materia di riflessione sui propri destini mentre ne allargavano la conoscenza.
Spirito di classe e lezione dei fatti
Oggi possiamo dire con certezza che una parte cospicua del proletariato Italiano ha un’anima di classe. L’armonia tra produttori e capitalisti è rotta.
È il proletariato che vede, sente, conosce i suoi interessi ed i suoi diritti diametralmente opposti a quelli dei suoi padroni, è una condizione necessaria per il genuino sviluppo della lotta di classe. Il salariato non si deve mai affezionare al proprio lavoro e tanto meno agli strumenti di esso.
La tecnica moderna con la divisione del lavoro; ha fatto dell’operaio una macchina, un automa; ne ha distrutto ogni passione, ogni affettività per l’opera sua, ne ha fatto quasi un nemico del proprio lavoro e ciò è un gran bene per i fini della lotta di classe. Così il capitalista sarà padrone delle braccia ma mai del cervello e del sentimento dell’operaio. Il quale sarà indotto a formarsi grado a grado quella preparazione psicologica, quel sentimento d’ira ragionata, che gli consenta di essere nemico del proprio padrone, senza scampoli anzi con quella serenità e tranquillità che è un elemento di forza in tutte le lotte.
Ed ogni lotta operaia deve sempre avere un fine avveniristico se non vuol corrompere o gittare il turbamento nelle anime vergini dei lavoratori. Lo scopo immediato deve essere l’esca per i deboli, i tardivi, per coloro che non hanno ancora una solida coscienza di classe e non sono animati dalla fede in un avvenire migliore; ed anche per la benedetta opinione pubblica sull’ara della quale si ardono forse indebiti incensi ma che però è anche essa — purtroppo — un fattore non trascurabile di successo; e non per i fini lontani della lotta di classe, almeno per il raggiungimento di quei vantaggi immediati che sono l’esca di cui sopra e che servono, ripetiamo, a rimarcare gli innumeri proletari dalla corta vita. Le lotte van sempre segnate all’attivo del bilancio proletario; anche se non vittoriose, purché siano combattute fieramente e dignitosamente. Ogni lotta è una schermaglia che sonda il nemico e ci dà coscienza della nostra potenzialità; è una finta manovra, un addestramento. E se la lotta vittoriosa frutta quella riserva di entusiasmo a cui si attingono i valori morali per le nuove e maggiori battaglie, la lotta perduta ha anch’essa le sue utilità; acuisce il dissidio sentimentale fra borghesia e proletariato, rinfocola le ire e serve sopratutto ad un esame analitico e critico delle proprie forze e delle proprie facoltà per la ricerca di quei difetti e di quelle lacune che hanno data alla battaglia un esito negativo. L’entusiasmo della vittoria assopisce le facoltà investigatrici; la mortificazione, il bruciore della sconfitta, le fustiga, le eccita ed all’occorrenza le crea. Dopo la vittoria c’è il tripudio. Dopo la sconfitta c’è l’esame di coscienza; e non è poco perché vuol dire la tendenza alla perfezione.
Tutto ciò non significa che si debbano accendere battaglie inconsiderate ad ogni stormir di fronda, sebbene che, dopo aver preso tutte le misure che l’esperienza consiglia, se la ragione suggerisce la battaglia e se questa avesse esito negativo, non bisogna affatto disperarsi perché non è sempre male ciò che finisce male e perché nel caso specifico delle lotte operaie, anche una sconfitta può servire da ammaestramento.
Parma docet. La sconfitta del 1908 fu spaventosa e sembrò un -vero annichilimento, ma nessuno si scoraggiò; si fece un esame delle cause che l’avevano originata; si trovarono dei punti deboli e si rafforzarono; fu tutto un lavoro oculato e paziente di perfezionamento che durò due anni e che ha dato dei frutti magnifici tali, che oggi la Camera del Lavoro di Parma per forza morale, per eccellenza di tecnica sindacale, e per cento altre indiscutibili qualità, costituisce il nostro vanto ed il nostro orgoglio di organizzatori sindacalisti. Se non fosse sopravvento la sconfitta ammonitrice del 1908, molto difficile si sarebbe avuta una così amorevole opera di assestamento ed assodamento, che ha triplicato la potenza dinamica di quel magnifico organismo. Non mi si rimproveri questo saggio di ottimismo.

Le funzioni dello sciopero

Il fine della lotta di classe consiste nell’impadronimento da parte del sindacato di mestiere dei mezzi di produzione e di scambio, onde ogni schermaglia deve tendere ad avvicinare questo fine. L’arma classica del proletariato è lo sciopero. Esso sino ad oggi, almeno apparentemente ha avuto una funzione opposta a quella assegnatogli da che se ne serviva. Lo sciopero che doveva indebolire le posizioni della borghesia le ha inconsciamente rafforzate. Ma ciò è perfettamente legittimo ed era e fu preveduto dai filosofi dell’azione operaia. Mi spiego; lo sciopero aveva ed ha funzione specifica di assottigliare il margine del profitto capitalista. Ogni sciopero vittorioso intacca i guadagni borghesi. L’industriale che si vede obbligato ad aumentare il salario ea fare contratti meno leonini di cottimo, se non vuol fare dividendi minori dei normali ai suoi associati e se non vuole quindi vedere le azioni di questi, transigere in altre imprese, deve escogitare un mezzo qualsiasi per reintegrare il profitto. E siccome non può aumentare il prezzo di vendita dei proprii manufatti perché sarebbe ucciso dalla concorrenza delle fabbriche rivali non gli resta che migliorare la tecnica della produzione. Dacché la resistenza operaia è entrata come fattore massimo e talvolta decisivo, nella produzione, noi abbiamo assistito ad un vero rivoluzionamento della tecnica di essa. Le macchine meravigliose, di una perfezione strabiliante, introdotte in tutti i rami della industria, per accellerare la produzione ed economizzare il più possibile la mano d’opera salariata non hanno più di 30 anni di vita. I torni, i trapani, e fresatrici universali, i laminatoi, i motori a gas e ad olio, i trasformatori, le macchine insaccatrici ecc. nelle industrie meccaniche; le rotative e le linotipes nelle industrie poligrafiche; le mietitrici, aratrici, seminatrici ecc. nelle industrie agricole, senza cercarne altre hanno ridotta di un terzo e forse di metà la mano d’opera salariata.
Un esempio. L’Unione dei Gas di Milano aveva nel 1901 più di 1.400 operai di produzione alle sue dipendenze; ebbene pure essendo dall’ora a oggi cresciuto di un terzo il consumo del gas, il numero di detti operai è stato ridotto a poco più di 500. Tutto ciò perché gli scioperi vittoriosi del 1901 e 1907, avevano sensibilmente aggravato i bilanci della società tanto che essa si vide costretta ad introdurre dei congegni costosissimi i quali pur immobilizzando un grande capitale consentono un così sensibile risparmio di operai da trovarsi la società assai avvantaggiata. In conclusione la resistenza operaia esplicantesi in maggior grado sotto la forma di scioperi, ha prodotto come primo effetto un accrescimento del patrimonio industriale — macchinario perfezionato, cresciuto valore intrinseco dei terreni — ed una perfezione della tecnica produttiva. Ma ogni cosa ha un fine ed anche la perfezione tecnica, appunto perché perfezione raggiungerà presto o tardi un tal grado di saturazione che non consentirà procedere più oltre. O, almeno, le nuove perfezioni saran così lente e laboriose da non compensare ciò che il capitale perde per soddisfare gli ognor desti appetiti delle masse produttrici. Ed allora lo sciopero comincerà a diventare un’arma esclusivamente rivoluzionaria ed espropriatrice.
Ancora. Fino a che l’azione operaia rimane sul terreno economico, tende cioè a sottrarre al capitalista il solo profitto, essa è innocua, direi quasi benefica alla borghesia; quando invece essa azione, non preoccupandosi delle condizioni dell’industria che attacca e della di lei potenzialità, non badando se il margine del profitto sia esaurito e se ogni ulteriore richiesta non attacchi il capitale nelle sue fonti di vita, passa sul terreno extraeconomico, allora è eminentemente rivoluzionaria e demolitrice. Ed è proprio il punto, il momento in cui la borghesia come alle difese estreme e si crea quella tale situazione rivoluzionaria che porta gradatamente, di lotta in lotta, allo sciopero generale espropriatore.

L’organizzazione dei capitalisti

Il primo atto di resistenza della borghesia allorché oltre il profitto si vede minacciare anche il capitale, consiste nella coalizione. I capitalisti per forza di cose sono costretti ad organizzarsi a somiglianza del proprio nemico. E siccome la solidarietà, l’unione e gli interessi di classe non tollerano la concorrenza, come gli operai si vincolano con delle tariffe regionali e nazionali, così gli industriali sono portati dalla forza delle cose a porre una specie di massimo e di minimo al prezzo di vendita dei prodotti.
È intuitivo che questo è il primo passo verso monopoli e trusts ed è il crollo definitivo della scienza economica borghese fondata sul principio della libera concorrenza. Le coalizzazioni padronali in Italia sono di data recente ed è vanto dell’azione sindacalista l’averle provocate. Fu lo sciopero d’Argenta del 1907 che affratellò gli agrari del ferrarese e fu lo sciopero generale del Parmense e del Piacentino pure di detto anno che spinse gli agrari di dette provincie l’uno nelle braccia dell’altro. Le agrarie del Polesano, del Bolognese, del Ravennate sorsero per imitazione. Dalle associazioni regionali in quelle nazionali il passo non poteva essere che breve. Intanto, a fianco dell’organizzazione agraria, faceva le prime armi l’organizzazione industriale, che ora vanta dei nuclei indiscutibilmente forti, ed alla coalizione seguirono le casse di resistenza agli scioperi, le cambiali in bianco, gli allettamenti materiali di prestiti e sconti agli industriali ed imprenditori agricoltori restii, ed il boicottaggio più acerbo a coloro che non ne volessero assolutamente sapere.
È dal 1910 in parecchi punti d’Italia si assiste allo spettacolo nuovo per la nostra nazione, di industriali che provocano essi a battaglia i propri operai. Cito ciò che è capitato a Piombino, ai gasisti milanesi, agli edili bolognesi ed ai metallurgici di Torino.

La violenza operaia: Il boicottaggio

Meglio così. La difficoltà della battaglia, la resistenza nella difesa e l’audacia negli attacchi da parte della borghesia, hanno cementato ognor più i legami di solidarietà fra le diverse categorie, attenuando l’egoismo di corporazione e dimostrando chiaramente a lavoratori che soltanto nella fusione degli interessi e nella fusione degli interessi e nella omogeneità delle forze di tutte le categorie sta il segreto della vittoria presente ed avvenire. Non solo hanno radicato nel cervello di ogni operaio la persuasione che nella guerra di classe sarebbe da stolti ripudiare dei mezzi di lotta che la natura e l’umana intelligenza hanno creato. Fino a che lo sciopero, da solo, terrorizzava la borghesia, il proletariato non si lasciò indurre ad utilizzare altre armi di lotta più risoluta e più logiche, ma ora che gli scioperi per la centuplicata resistenza borghese hanno perso tanta dell’antica efficacia, ogni mezzo è buono per il trionfo del diritto operaio. La violenza s’impone. L’operaio ha capito che soggiace ad un regime di violenza la quale, per quanto sancita da leggi, non è meno feroce ed opprimente, e sente che sarebbe vano far fidanza sulla bontà della propria causa e sulla evidenza del proprio diritto per attendere beatamente che la borghesia si converta e rinunci ai proprii privilegi in omaggio all’equità ed alla giustizia. Onde il proletariato comincia a far tesoro degli insegnamenti dell’antica sapienza che conclamava doversi opporre la violenza alla violenza.
Ed eccoci al boicottaggio spinto alle estreme conseguenze, ed eccoci al sabotaggio. Il boicottaggio odierno può paragonarsi alla messa all’indice del medio evo cattolico. Allora chi professava idee ereticali veniva scomunicato e s’imponeva a tutti, amici e parenti compresi, di negargli – era la formula – il pane ed il sale: e cioè si tagliava ad esso ogni commercio umano. Oggi si boicotta un industriale e si impone a tutti gli operai che sentano la solidarietà di classe di non vendere più le proprie braccia all’industriale messo all’indice. È sottinteso che un simile gesto è logico solo in quegli ambienti dove l’organizzazione è perfetta e dove è sviluppatissimo il senso di solidarietà operaia. In Italia tale mezzo di lotta venne usato quasi esclusivamente nella valle del Po perché purtroppo solo in tale regione si sono raggiunte le condizioni necessarie perché dia buoni frutti.
Solidarietà proletaria e solidarietà borghese
Ma la solidarietà operaia eccita quella padronale. Così che da un paio di anni noi assistiamo in provincia di Bologna, e fra poco sarà così in tutta la provincia Padana a delle lotte immani provocate in apparenza da motivi utilissimi. Ogni qualvolta l’organizzazione operaia boicotta qualche industriale o perché viene meno ai patti concordati o perché pretende che i proprii dipendenti lavorino a contatto con dei disorganizzati, entra in campo l’associazione padronale in ausilio al proprio consociato, ed impone alla classe operaia di rinunciare alle proprie pretese pena la serrata. Nel Bolognese è da due anni sul tappeto questa questione di principio: possono gli operai rifiutarsi di lavorare con degli individui contro i quali hanno dei motivi di rancore perché disorganizzati, o perché lavoranti a tariffa ridotta, o comunque violanti i patti? Sì, affermano gli operai, e tal nostro diritto è appoggiato dalla consuetudine che ci suggerisce di vendere le nostre braccia a chi più ci garba. No, ribattono gli industriali, perché noi non possiamo tollerare che ci si detti legge nei nostri cantieri o nelle nostre officine e che si lasci un industriale o un imprenditore senza mano d’opera. E la lotta, interessantissima, che si è prolungata, fino ad oggi fra tregue ed acutizzazioni, finirà solo allor quando una delle due parti sarà prò tempore completamente annichilita.
Ed è in questi frangenti che la solidarietà operaia ha il campo di eccellere. I riformisti non capiranno mai nulla a proposito. La lotta di classe così ben delineata, così ben condotta e giunta ad un alto grado di maturazione, per essi è ciclonismo, anarcoidismo e così via.

Riformismo e sindacalismo

Ma non potrebbero giudicare altrimenti. Codesti figli adulterini del socialismo, sono fuori, completamente, dalla nostra visuale. Per essi il sindacato è l’elemento sussidiario, integrativo, e non l’elemento principe della lotta anticapitalistica e la cellula della nuova ricostruzione sociale. Il pernio del riformismo è lo stato, il nostro è il sindacato. I riformisti vogliono conquistare lo stato, il potere centrale, per potere dettare dall’alto di esso le loro leggi di uguaglianze sociale; noi, servendoci del sindacato come di catapulta, vogliamo distruggere l’organismo statale. L’antitesi non potrebbe essere più perfetta.
Nel riformismo, vi è velato la stessa psicologia del blanquista. Gli uni credevano al miracolo parlamentare, gli altri al miracolo insurrezionale. Gli uni e gli altri sono nemici sostanziali delle organizzazioni operaie. Giulio Guesde non affermò forse che il sindacalismo uccide nel proletariato lo spirito rivoluzionario? I riformisti non hanno capito mai che solo il sindacato, di mestiere può dare al proletario la capacità tecnica della produzione e la capacità morale della gestione di essa. Solo nel sindacato il socialismo sta quotidianamente divenendo Per i riformisti la lotta di classe è un hors d’oeuvre ed il sindacato appena un’agenzia elettorale alla quale si permette di organizzare qualche scioperetto, ma tout doucement, educatamente e senza rompere quella certa armonia con quella parte della borghesia che entra nel complicato gioco del riformismo elettorale. Ed eccoci quindi a scagliare fulmini addosso ai sindacalisti, imputati da gente sia messa di condurre il proletariato alla rovina perché gli suggeriscono di non mai indietreggiare di fronte al nemico e di combattere da solo, con le proprie forze, le battaglie anticapitalistiche rifiutando la tutela interessata e non onesta dei partiti politici.
La lotta di Bologna e gli insegnamenti che se ne traggono: la solidarietà
Ma ritorniamo a Bologna. Mi ci indugio volentieri perché io credo profondamente che malgrado certe esteriorità che potrebbero avere ingannato qualche miope, la lotta che si combatte attualmente nel bolognese sia la lotta più sindacalista combattutasi fino ad oggi in Italia; se non nella forma almeno nella sostanza. Lotta poi nella quale lo spirito di solidarietà, bello ed alto come noi lo abbiamo sognato, ha avuto modo di manifestarsi meravigliosamente.
E mi si consenta un po’ di dettaglio. I facchini presentano una tariffa dove chieggono sensibili migliorie. Gli industriali in trasporti nicchiano un poco e poi, di fronte allo sciopero si decidono a trattare. L’associazione Industriale Edile, a cui fanno capo tutte le associazioni padronali del bolognese, impone agli industriali di trasporti di rinunciare alle trattative e di desistere ad ogni costo; e ciò in ossequio a una deliberazione padronale in cui si impegnavano di non concedere migliorie a nessuna categoria operaia entro il 1912.
Dopo ciò gli industriali in trasporti esigono dai carrettieri lo scarico e carico di spettanza di facchini scioperanti. I carrettieri,, malgrado una ruggine inveterata con questi ultimi, che ha avuti anche episodi di sangue, rifiutano sdegnosamente di compiere opera di crumiraggio e si fanno serrare. Dopo la serrata gli industriali requisiscono in montagna una ventina di calmucchi, che scendono a Bologna a tradire scioperanti e serrati. Naturalmente vari krumiri andavano all’ospedale e parecchi facchini a S. Giovanni in Monte; ma non essendo tale metodo di completa efficacia, le organizzazioni all’unanimità deliberano di non far mettere in opera, nei cantieri e nelle officine, quel materiale che fosse trasportato dai krumiri.
Tale voto è stato rigorosamente attuato e dopo due o tre settimane, circa 4 mila operai, fra muratori, metallurgici, braccianti, ecc. ecc. erano sulla piazza in sciopero di solidarietà. I muratori han chiesto alla propria Federazione il sussidio di sciopero e la Federazione negò, aducendo a pretesto che tale sussidio viene elargito solo quando si combattono lotte per la difesa della tariffa e non per solidarietà. Tableau!
Le organizzazioni bolognesi, a tal punto, hanno dato alla Federazione Edilizia la risposta che si meritava: hanno riunito il Consiglio Generale e stabilito di tassare tutti gli organizzati del 10% del salario quotidiano da versare ad una cassa unica di resistenza.
Soffermiamoci su un tale atto che, a parer mio, può costituire un fatto risolutivo nella tanto vexata-questio della necessità di casse centrali nazionali di resistenza, tanto caldeggiate dagli organizzatori riformisti che da esse ritraggono un potere dittatoriale sulle organizzazioni.
Altri compagni svolgeranno nelle proprie relazioni questo assioma che io enuncio e di cui, d’altronde, l’esempio di Bologna può essere da solo valida dimostrazione senza bisogno di larga copia di ragionamenti.
Quando una categoria lotta contro i rispettivi padroni, tutte le altre categorie hanno l’obbligo assoluto di appoggiarla con tutte le loro forze finanziarie e morali. Esauriti i mezzi locali, le Federazioni Nazionali e la Confederazione del Lavoro obbligheranno i più direttamente interessati ad offrire la propria solidarietà e se ciò non fosse sufficiente tale obbligo verrà esteso a tutto il proletariato organizzato.
Ma semplifichiamo. A Bologna la serrata industriale ha gettato sulla strada 10.000 operai edili. Le risorse locali di tutte le categorie, per quanto rilevanti, non possono assolutamente far fronte ai bisogni più urgenti. Le casse federali, anche non essendo vuote come quelle dell’Edilizia, vedrebbero certo il fondo dopo un paio di settimane. E siccome la lotta durerà o dovrebbe durare, varie settimane, supponendo che la si voglia lasciare sul terreno della resistenza passiva, non vi è che un mezzo di solidarietà: tassare la categoria nazionale interessata – gli edili – di una quota settimanale che possa esser sufficiente a mantenere sul piede di lotta i diecimila edili bolognesi senza costringerli a gravi sacrifici. E se gli iscritti a questa ipotetica federazione sentissero fortemente il vincolo di solidarietà e quello di disciplina, se essi avessero fiducia nell’onestà e nel senno dei proprii dirigenti, non vi sarebbe nessuna ragione perché non avessero a compiere tutto intero il proprio dovere. In tal modo, oltre ad ovviare all’inconveniente delle casse centrali di resistenza che fanno degli impiegati i padroni delle organizzazioni, l’affratellamento degli organizzati sarebbe più visibile e tangibile. Ma sono rari i casi di lotta così estesa da dover ricorrere alla solidarietà nazionale. Invece per le lotte di minore importanza generale ma di grande interesse ambientale supplirebbero egregiamente le casse uniche locali di resistenza. Ammesso il principio che il compito delle federazioni consista nel disciplinamento della solidarietà nazionale, nella preparazione di lotte di portata generale, nell’opera di propaganda e di assodamento, lavori di statistica, incanalamento delle emigrazione interna ed esterna, lasciando pienamente autonome le organizzazioni federate in tutto ciò che ha attinenza al funzionamento amministrativo e alla resistenza locale, tali organizzazioni sarebbero portate dalla forza delle cose ad una alleanza offensiva e difensiva con le altre organizzazioni locali delle altre categorie per fronteggiare ed attaccare il capitale. E la necessità di una cassa unica di resistenza locale in cui si fondino gli sforzi di tutte le categorie, balzerebbe con lucidezza alla mente di ogni organizzato. E così, in caso di battaglia di una categoria, la certezza di potere attingere nella pingue cassa comune raddoppierebbe il coraggio e la speranza di vittoria. E poi sarebbe questo il miglior modo per fare delle mille anime corporative, una sola bella, fulgida smagliante anima di classe.
Non faccio della poesia e tanto meno della retorica. A Parma la cassa unica funziona da quattro anni. Ebbene dal 1908 in poi sono stati combattuti più di 100 scioperi, alcuni dei quali rilevantissimi, senza che mai si sia presentata la necessità di strozzarne qualcuno per mancanza di fondi di resistenza.
Invece la storia delle Federazioni a cassa accentrata è tutta una storia di smazzamento… E non si dica che le casse uniche locali, suppongono le basse quote. Quei cicloni parmensi fanno pagare ai contadini la bassissima quota di due soldi settimanali, mentre i contadini del bolognese pagano la quota altissima di un soldino. Oh! quanta facile ironia potrei stillare alle spalle dei padre zappata del riformismo italico! E che il mio modo di concepire e disciplinare la solidarietà sia perfettamente realizzabile anche nel caso di grandi lotte di interesse nazionale, lo dimostro con un semplicissimo esempio che tutti sono in grado di controllare. Lo scorso anno, durante lo sciopero di Piombino, strozzato così miseramente dalla fame e dal piombo regio, la Camera del Lavoro di Bologna tassò i suoi 26.000 organizzati — i lavoratori della terra ne erano virtualmente fuori — di una quota settimanale che fruttò nel corso dello sciopero ben 40.000 lire. Non è molto, ma se i trecentomila organizzati alla confederazione avessero fatto altrettanto, gli eroici lottatori di Piombino avrebbero vinto gloriosamente malgrado la feroce violenza del governo.
Io non so che cosa ci riservi il congresso sulla questione più importante, e cioè sulla opportunità o meno di far casa per nostro conto; ma se il senno della maggioranza dei rappresentanti decidesse in tal senso, io opino che sarebbe errore non iniziare la nuova vita, con il sopra descritto sistema che ha per base la cassa unica locale di resistenza e di propaganda, lasciando come compito alle Federazioni ed alle Confederazioni quanto sopra abbiamo accennato. Chiudo con la non inutile dichiarazione e torno ab evo.

Altre forme di boicottaggio

Il boicottaggio si può anche presentare sotto forma più vasta ed impressionante. La borghesia con la sua sapiente organizzazione finanziaria e sociale ci costringe a servirci dei suoi generi alimentari e di vestiario, delle sue case, dei suoi divertimenti, dei suoi giornali e delle sue scuole. E questo se ha un segno di potenza, può anche costituire un elemento di debolezza. Si consideri che in tutte le forme suaccennate di attività borghese ed in altre che non monta contare, vi è una condizione essenziale; che noi tacitamente le si appoggi o se ne fruisca. Prendiamo un teatro: Esso ha come regola un pubblico misto di operai e di borghesi. Sono rarissimi quei teatri che possono concedersi il lusso di un pubblico non operaio. Ora chi non sa che nella gran parte di essi oggi giorni è di moda dare spettacoli che gettano il ridicolo sulle nostre idee e sui nostri uomini? Non parlo dei cinematografi. Essi sono dei veri e propri covi di pervertimento morale e son essi che hanno reso popolare l’orribile guerra libica. Ebbene: se li si boicottassero? se si negasse ad essi il soldino del popolo? In certe plaghe come l’Emilia, ogni ordine che parta dall’organizzazione viene attuato con tanta fermezza, che se ad esempio, la Camera del Lavoro di Parma e quella di Bologna si prendessero la briga di boicottare un cinematografo perché produce le film della guerra, si costringerebbe dopo una settimana il proprietario a venire a patti.
Meglio ancora per i giornali. Non vi è in Italia un sol quotidiano che veda di buon occhio il movimento operaio: alcuni poi sono feroci nel denigrarlo e combatterlo. E come mai fino ad oggi nessuno è ancora stato messo all’indice? Alcuni mesi fa adottai per l’Almanacco de “L’internazionale” un esempio tipico di boicottaggio svoltosi in Isvizzera contro un giornale che in quella nazione aveva l’importanza che in Italia ha il Corriere della Sera; intendo parlare della Tribune de Genève. Detto giornale aveva una tiratura complessiva di 50.000 copie in tre edizioni; aveva una rèclame lucrosissima e costituiva in conclusione uno splendido affare per i suoi proprietari.
Un bel giorno ebbe la malaugurata idea di attaccar briga con i propri tipografi, che vennero licenziati e sostituiti con krumiri. Le organizzazioni Ginevrine e poi quelle svizzere in generale, proclamarono il boicottaggio più assoluto contro detto foglio. Gli organizzatori non lo comprarono più ed imposero agli esercenti dei quali erano clienti di disdirne l’abbonamento e rinunciare a fare in esso la rèclame alle proprie mercanzie. Gli esercenti per non perdere la clientela annuirono. Ma ciò non parve sufficiente.
Le organizzazioni, non badando a spese, pur di mortificare solennemente l’avversario, crearono un giornale ad hoc: Il Boicottatore, detto giornale, di cui si tiravano 25.000 copie settimanali e che veniva diffuso gratuitamente, seguiva passo passo il deperimento del foglio boicottato, ne scopriva i trucchi per accaparrarsi la rèclame, metteva a nudo tutte le furberie amministrative che tendevano a simularne il disfacimento e nel contempo denunciava alla classe operaia, gli industriali, commercianti e negozianti che gli affidavano ancora la rèclame. In tal modo senza che gli operai si prendessero la briga di spendere un soldo per seguire l’agonia del nemico, ne venivano settimanalmente informati appuntino. In conclusione dopo tre anni di boicottaggio, La Tribune de Genève, esce in una sola edizione ed ha la miseria di 5.000 copie di tiratura con mezza paginetta di reclame!
La violenza operaia: Il sabotaggio
Però lo sciopero ed il boicotaggio richiedono un grande spiegamento di forze ed una enorme copia di energie e di sacrifici. E la lotta operaia, se devesi combattere senza esitanze, deve anche combattersi con intelligenza in modo da potere raggiungere il fine prefisso con la maggiore economia di energie fisiche e psichiche. È la legge del minimo sforzo applicato alla lotta di classe. Ora in infinite occasioni si può debellare il nemico capitalista con la maggiore facilità di questo mondo e senza bisogno di ricorrere a grandi mezzi.
L’industria ha oggi giorno al proprio servizio degli ordigni di una cotal delicatezza che ognuno di essi, per quanto sempre munito del dono dell’eternità, ha infiniti talloni d’Achille per i quali lo si mette fuori di combattimento in un batter di ciglio.
Un po’ di smeriglio in un oliatore ed eccoli una potentissima e costosissima fresatrice universale inservibile; un po’ di smeriglio in un cilindro e dopo due settimane si rende invalida una locomotiva; un allentamento di una vite e si fa deragliare un treno del Sempione; una negligente una negligente puntellatura e si allaga una mina; un corto circuito e si lascia Roma al buio; un sapiente taglio di un tubo e si lascia Milano senz’acqua; una puntura con una siringa e si inocula l’afta epizootica o il carbonchio ad un allevamento di buoi: qualche litro di acido solforico e si manda alla malora degli immensi depositi di cereali.
Ma le forme di sabottaggio sono infinite come è infinita l’intelligenza umana ed il sabotaggio diventerà in un avvenire prossimo l’arma di lotta per eccellenza.
Però perché possa formarsi tra il proletariato una forte schiera di sabottatori, è necessario rialzarne i valori morali oggi impressionantemente depressi. Per il gregge si trascura troppo l’individuo. Ed è un grande errore. È più facile trovare una massa di popolo disposto a scioperare per un anno, a patire la fame ed il freddo, a far soffrire le proprie creature, che un uomo capace di assestare un pugno solenne ad un mascalzone o di collocare una cartuccia di dinamite sotto un ponte o nelle fondamenta di uno stabilimento. Si trascura troppo l’educazione eroica del proletariato. Con dei poltroni, con dei senza sangue non si farà mai nulla di positivo. Vi è una donna che da cinque anni fa apostolato di eroismo e dà la sua vita – libertà, salute, ricchezza, tutto! — come esempio, eppure è considerata come pazza dall’universalità. Ciò è un indice della torpidità delle nostre anime, per non dire qualche cosa di più amaro. E non insisto.

La violenza operaia: Lo Sciopero Generale espropriatore

Lo sciopero di categoria, il boicottaggio, il sabottaggio, se smantellano ed abbattono qualche torrione della città borghese non hanno la capacità di metterci dentro le mura. Tali forme di lotta hanno la funzione di inasprire il dissidio di classe e di porre la borghesia nella condizione di dovere tentare le difese estreme per fronteggiare le esistenze della classe operaia, la quale non contenta del profitto attenta anche al capitale generatore.
La lotta di classe, per deduzione logica, è costretta ad allargarsi sempre più mano mano che la borghesia si organizza, si munisce e presenta più estese difese. La resistenza operaia, lo ripeto, concentra, monopolizza, trustizza il capitale e la produzione e obbliga il proletariato ad abbandonare le piccole lotte provinciali di categoria per attaccare nazionalmente.
I bottigliai ed i vetrai, dopo aver costretti i propri padroni a trustizzarsi per difendersi più validamente, si son visti poi dai trust provocare a battaglia campale e se ne sono usciti malconci non hanno meno dimostrate che le future lotte tra capitale e lavoro si combatteranno in quel terreno e così ampia base. Chè se in Italia la lotta dei vetrai è un fatto unico nella storia operaia, negli Stati Uniti ed in Inghilterra da qualche anno le battaglie mastodontiche sono frequentissime. Lo sciopero dei minatori inglesi dello scorso anno, che ha durato più di 50 giorni, ha costato all’economia del regno unito più della guerra boera.
Mai il mondo ha avuto una prova più dimostrativa di ciò che sarà domani lo sciopero generale espropriatore.
I minatori inglesi, che né vinsero né persero, la prossima battaglia la faranno per impadronirsi delle miniere. Han promesso e manterranno. E chi li tratterà, chi li domerà? Dalla loro fronte irradia la luce ideale del sindacalismo, perché essi son dei nostri, quei prodi. E se al momento della loro novella lotta, i ferrovieri, i lavoratori del mare e dei porti, i metallurgici, i tessitori scenderanno in campo, noi avremo il primo solenne esperimento della rivoluzione sociale.
Dinanzi ad uno sì splendente quadro, con il cuore pieno di fede e l’anima incatenata dalla visione di un imminente nostro grande avvenire, noi sentiamo una spasimante passione per quegli illusi che si soffermano ancora dinanzi agli spacci e agli spacciatori di cabale parlamentari. Ma coraggio! La verità è in noi, intimamente, e noi la imporremo anche ai più vecchi ed ai più refrattari. L’avvenire è sacrato al sindacalismo.
Ed ecco le mie conclusioni:

Il Congresso

considerato che in Italia, fino al momento attuale, le lotte fra capitale e lavoro hanno avuto in gran parte un esito poco soddisfacente per il pessimo disciplinamento della solidarietà, frutto dell’illogico ordinamento degli organismi di resistenza;
considerato che il sistema a base di cassa accentrata, lusinga e sviluppa lo spirito corporativo a tutto detrimento della solidarietà e dell’affratellamento fra categoria e categoria;
considerato che tale affratellamento può raggiungersi solo affidando agli organismi locali le attribuzioni federali e confederali per la resistenza;
ritiene che sia matura l’istituzione in ogni Camera del Lavoro di una cassa unica di resistenza e di propaganda nella quale si fondano tutti gli sforzi finanziari di ogni categoria, prelevando da essa l’importo degli impegni federali e confederali; ciò statuito in linea di tecnica sindacale, in linea di azione;
Il Congresso afferma
che soltanto con la più rigorosa ed assoluta lotta di classe, combattuta direttamente dal sindacato di mestiere, il proletariato può conquistarsi la propria emancipazione dalla schiavitù del capitale salariatore; riconosce come armi transitorie di lotta del Sindacato lo sciopero di categoria, il boicottaggio ed il sabotaggio, con l’ausilio delle quali si strappa alla borghesia grado a grado il profitto capitalistico riducendolo alle estreme difese del capitale generatore;
e giudica lo sciopero generale di tutti i lavoratori addetti a qualsiasi ramo di produzione, l’unico mezzo efficace ed idoneo alla definitiva espropriazione della classe borghese.

Filippo Corridoni: sindacalista, rivoluzionario e interventista

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