Risposta di V.E. Orlando al manifesto di Wilson

Risposta del Presidente del Consiglio V.E. Orlando al messaggio del Presidente degli Stati Uniti d’America W. Wilson dell’aprile 1919

Mentre la Delegazione italiana si trovava riunita per discutere una contro-proposta fatta pervenire dal Primo Ministro inglese allo scopo di cercare un modo di possibile conciliazione fra le varie tendenze che si erano manifestate intorno alle aspirazioni territoriali, italiane, i giornali di Parigi pubblicavano un messaggio del Presidenti, degli Stati Uniti, signor Wilson, nel quale era espresso il pensiero di lui intorno alla più importante tra quelle questioni sottoposte al giudizio della Conferenza. L’uso di rivolgersi direttamente ai popoli costituisce certamente una novità nei rapporti internazionali, di cui non intendo dolermi, ma di cui anzi, con questo atto, seguo l’esempio, poiché questo nuovo sistema giova senza dubbio a quella più larga partecipazione dei popoli alle questioni internazionali, che anche io ho voluto fosse un carattere dei tempi nuovi. Bensì se questi appelli ai popoli debbono considerarsi come farri dal di fuori, se non contro i Governi che li rappresentano, io avrei ragione di grande rammarico ricordando che, mentre questo procedimento era stato sinora applicato ai Governi nemici, venga ora applicalo per la prima volta ad un Governo che è stato e vuol essere lealmente amico della grande America, cioè al Governo italiano; e potrei altresì dolermi come tale messaggio diretto al popolo sia avvenuto nel momento stesso in cui le Potenze alleate, ed associate trattavano col Governo italiano, con quello stesso Governo il cui concorso ed appoggio era stato ricercato e gradito in molte e gravi questioni sinora trattate con perfetta solidarietà.
Ma sopratutto io avrei ragione di dolermi se le dichiarazioni fatte nel messaggio presidenziale avessero il significato di contrapporre il Governo al popolo italiano.
Dappoiché, in tal caso, si verrebbe a disconoscere e a negare l’alto grado di civiltà che il popolo italiano ha raggiunta con forme di reggimento democratico e libero, per cui esso non è secondo a nessun altro popolo del mondo. Contrapponendo infatti il Governo al popolo italiano, si ammetterebbe che questo grande popolo, libero e civile, possa subire l’imposizione di una volontà ad esso estranea ed io dovrei vivamente protestare contro questa ipotesi che sarebbe ingiustamente offensiva per il mio Paese.
Venendo poi al contenuto del messaggio presidenziale, esso è tutto diretto a dimostrare che le rivendicazioni italiane al di là di quei limiti che il messaggio indica, offendono quei principi su cui deve fondarsi il nuovo ordinamento di libertà e di giustizia tra i popoli. Non ho mai negato quei principi e il signor Presidente Wilson nella sua lealtà ha già riconosciuto che nei lunghi colloqui da me avuti con lui io non mi sono mai appellato all’autorità formale di un trattato, che ben sapevo non lo obbligava. Io, in quei colloqui, mi sono valso soltanto della forza della ragione e della giustizia, sulle quali credevo e credo si fondino le aspirazioni italiane. Non ho avuto la fortuna di convincerlo e me ne duole, ma lo stesso Presidente Wilson ha avuto la bontà di riconoscere, nel corso di quei colloqui, che la verità e la giustizia non sono privilegio di alcun uomo e che per tutti l’errore è sempre possibile, ed io aggiungo che ciò è tanto più possibile quanto più complessi sono i problemi cui i principi si applicano.
L’umanità è troppo immensa cosa ed i problemi che la vita dei popoli solleva sono così indefinitamente complessi che nessuno può credere di trovare in un certo numero di proposizioni un mezzo così semplice e sicuro per risolverli, come con varie unità di misura si può determinare l’estensione, il volume, e il peso delle varie cose materiali. Se io constato che più volte la Conferenza nell’applicare i principi suddetti ha dovuto mutare radicalmente il suo giudizio, non credo con ciò di mancare di deferenza verso quell’alto consesso: al contrario ciò può avvenire ed avviene in ogni umano giudizio. Voglio dire soltanto che l’esperienza diretta ha dimostrato tutte le difficoltà che s’incontrano nell’applicare un principio, per sua natura astratto, a casi concreti di infinita complessità e varietà. Così io, con ogni deferenza, ma con grande fermezza non ritengo giusta l’applicazione che il messaggio presidenziale fa dei suo principi alle cose italiane.
Io non posso, in un documento di questo genere, ripetere le dimostrazioni analitiche che già furono date con grande larghezza, dirò soltanto che non tutti potranno accettare senza riserva la affermazione che lo sfacelo dello Impero austro-ungarico importi una riduzione delle aspirazioni italiane. Sarà lecito invece di creder il contrario; e cioè che, proprio nel momento in cui tutti i vari popoli, di cui quell’Impero constava, cercano di coordinarsi secondo le loro affinità etniche e naturali, il problema sostanziale che le rivendicazioni italiane pongono, potesse e dovesse completamente risolversi. Questo è il problema adriatico in cui si riassume tutto il diritto del-l’Italia, l’antico ed il nuovo; tutto il suo martirio nei secoli, tutto il bene che essa è destinata a recare nella grande convivenza internazionale.
Il messaggio presidenziale sente la necessità di affermare che, con le concessioni che esso contiene, l’Italia abbia raggiunto la muraglia delle Alpi che sono la sua difesa. È questo un riconoscimento di una grande importanza, quando, tuttavia, di questa muraglia non si lasci aperto il lato orientale e si comprenda nel diritto dell’Italia quella linea del Monte Nevoso che separa le acque che corrono verso il Mar Nero, da quelle che scendono verso il Mediterraneo; di quel monte che fin da quando la prima nozione d’Italia passò dalla geografia nel sentimento e nella coscienza dei popoli, fu dai latini stessi appellato il «Limes italicus». Senza di ciò si lascerebbe in quella mirabile barriera naturale delle Alpi una breccia pericolosa e si infrangerebbe quella indiscutibile unità politica, storica ed economica che è la penisola dell’Istria. Ed io penso ancora che proprio colui il quale può vantare come sua legittima ragione di fierezza di avere proclamato al mondo il diritto di autodeterminazione dei popoli, questo diritto abbia a riconoscere a Fiume, antico comune italico, che proclamò la sua italianità prima ancora che le navi italiane approdassero a Fiume, esempio mirabile di coscienza nazionale nei secoli. Se questo diritto si nega soltanto perché si tratta di una piccola collettività isolata, sarà lecito osservare che il criterio di giustizia verso i popoli non muta in proporzione della loro entità territoriale. E se lo si vuole negare per riguardo al carattere internazionale di quel porto, non sono forse Anversa, Genova, Rotterdam porti internazionali che servono popoli e regioni diverse senza che questo privilegio sia duramente pagato con la coercizione della loro coscienza nazionale?.
E può dirsi eccessiva la aspirazione italiana verso la costa dalmata che fu nei secoli baluardo d’Italia, fatta nobile e grande dal genio romano e dall’attività veneziana e di cui l’italianità, resistendo alle implacabili persecuzioni durate circa un secolo, ha ora fremiti di passione che è passione di tutto il popolo italiano? Si proclamò, a proposito della Polonia, il principio che la snazionalizzazione dovuta alla violenza ed all’arbitrio non può creare diritti: perché questo medesimo principio non si applica alla Dalmazia?
Che se poi a questa rapida sintesi del nostro buon diritto nazionale si vuol dare un riscontro della fredda constatazione statistica, io credo di poter affermare che delle varie ricomposizioni nazionali che la Conferenza della pace ha già determinato o si avvia a determinare, nessuno dei popoli ricostituiti conterebbe entro le sue nuove frontiere un numero relativo di gente di altra razza, inferiore a quello che all’Italia sarebbe attribuito. Perché dunque proprio le aspirazioni italiane debbono essere sospettate di imperialistica cupidigia?
Ebbene, malgrado tutto ciò la storia di queste trattative dimostrerà che una doverosa fermezza da parte della delegazione italiana non fu disgiunta da grande spirito conciliativo nel ricercare quel generale accordo che essa vivamente ha desiderato.
Il messaggio presidenziale conclude con una calda dichiarazione di amicizia dell’America per l’Italia. Io rispondo in nome del popolo italiano, rivendicando fieramente questo diritto e questo onore che spettano a me come colui che nell’ora più tragica di questa guerra gittò al popolo italiano il grido della resistenza ad ogni costo, e questo grido fu raccolto con un coraggio ed una abnegazione che hanno pochi riscontri nella storia del mondo; e l’Italia coi più eroici sacrifici e col più puro sangue dei suoi figli, poté sollevarsi dall’abisso della sventura alla fulgida cima della più clamorosa vittoria.
È dunque in nome dell’Italia che io esprimo a mia volta il sentimento di ammirazione e di profonda simpatia che il popolo italiano professa verso il popolo americano
VITTORIO EMANUELE ORLANDO

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