Politiche sociali nel fascismo italiano

Titolo originale: Social policies in Italian Fascism. Authoritarian strategies and social integration
Autrice: Chiara Giorgi
Come citare l’articolo originale: Giorgi, Chiara (2019). «Social Policies in Italian Fascism. Authoritarian Strategies and Social Integration»;Historia Contemporánea, 61, 907-932. (https://doi.org/10.1387/hc.20259).

Indice

Categoria: Saggi tradotti

Politiche sociali nel fascismo italiano. Strategie autoritarie e integrazione sociale

Fino agli anni ’80, gli storici avevano un interesse alquanto incerto nelle politiche sociali che il fascismo attuava e si sviluppava negli anni ’20 e, soprattutto gli anni ’30[1]Per un’analisi più approfondita vedere Giorgi, 2012, pp. 55-64; Id., 2014, pp. 93-107.. Tuttavia, questo interesse è cresciuto dall’inizio del nuovo millennio, grazie a contributi che ci hanno permesso di riconsiderare più nel dettaglio l’impatto che il regime ha avuto a lungo termine in termini di politiche sociali nazionali[2]Alcuni degli studi più significati pubblicati negli anni ’80 includono: Preti, 1980; Id.,1987; Mazzini, 1980; Melis e F. Bonelli, 1989..
Ci sono stati vari fattori alla base di questo cambiamento storiografico, a partire da un più generale mutamento delle linee interpretative del fascismo.
Ciò aveva portato a un consolidato pregiudizio che tendeva a sottovalutare il impatto che è stato determinato in questa zona dal fascismo in fase di superamento, come il suo unico scopo era l’organizzazione del consenso e il raggiungimento del controllo sociale. Allo stesso tempo, una nuova consapevolezza dei fondamenti storici del “welfare” nazionale ha guidato la ricostruzione storica, ponendone le caratteristiche originarie proprio negli anni del consolidamento del regime.
Dai primi anni ’90 la percezione della centralità del l’esperienza fascista in relazione alle caratteristiche e alle dimensioni del welfare state italiano ha orientato molte ricostruzioni in campo storico[3]Salvati, 1994, p. 24. Alcuni degli studi più rilevanti, o uno che contiene preziose indicazioni, effettuato negli anni ’90 include: Bonelli, 1993; Preti, 1994; Degl’Innocenti, 1995; … Continue reading. Rispetto a ciò, due ulteriori fattori sono stati decisivi. Uno è connesso a la ‘scoperta’ dell’importanza assunta dal Partito Nazionale Fascista nelle politiche di welfare e sicurezza sociale; l’altro riguarda il più generale dibattito sulla questione del consenso[4]Per considerazioni critiche e una analisi dei problemi del consenso vedere: Corner, 2002; Pergher, Albanese, 2012..
Ciò non ha solo portato all’emergere del fatto della centralità dell’esperienza fascista, ma anche quella relativa alla continuità. Grazie a numerosi approfondimenti d’analisi interdisciplinari, la ricerca storica si è concentrata sull’indagine dell’eredità che le politiche sociali del fascismo hanno avuto sul “sistema” di welfare del secondo dopoguerra, colmando un deficit che, più in generale, Gerhard A. Ritter ha lamentato a metà degli anni novanta nella premessa all’edizione italiana della sua Storia dello Stato sociale[5]Ritter, 1996..
In particolare, è stato evidenziato come l’epoca fascista pose “i fondamenti del sistema di welfare ‘particolaristico-clientelistico’ che si sarebbe poi sviluppano e intensificano dopo la seconda guerra mondiale”[6]Ferrera, 1984, p. 36. Vedere anche Ascoli e Paci, 1984. In aggiunta, Ferrera, Fargion, Jessoula, 2012. e rappresentano il tratto più distintivo dell’esperienza italiana.
Sulla base dei suggerimenti sviluppati nel campo delle scienze sociali, finalizzato a effettuare un’analisi comparativa dello sviluppo del welfare nel mondo occidentale, nel caso italiano, il fascismo si è rivelato un momento decisivo, volto a stabilire le basi per il successivo welfare state nazionale. Soprattutto negli anni ’30, la notevole espansione della sicurezza sociale – per quanto riguarda l’estensione delle forme di protezione sociale, il numero di persone coperte e soprattutto dal punto di vista organizzativo e della sistematizzazione – è stata perseguita dal regime attraverso “una fitta regolamentazione e stratificazione che ha differenziato meticolosamente i diritti dei vari gruppi”[7]Ferrera, cit.. Nell’operazione fascista di centralizzazione dell’amministrazione della previdenza sociale in tre grandi enti pubblici (INPS, INAIL, INAM), il tratto di differenziazione può infatti essere riconosciuto come il più prevalente.
Recenti ricerche sono andate aumentando in questa direzione, analizzando le connessioni locale/nazionale, approfondendo il settore del welfare[8]Vedi in particolare Inaudi, 2008; Id., 2010; Catalan, 1992; Vezzosi, 2004; Minesso (a cura di), 2007; Bettini, 2008; La banca, 2008; Id., 2014; Id., 2013. Vedi anche Vinci (a cura di), 2012., concentrandosi sulle questioni di genere (in particolare il ruolo svolto dalle donne nelle diverse politiche sociali nazionali, la forza del familismo e della politicizzazione e professionalizzazione di tutti i soggetti coinvolti in ambito previdenziale e assistenziale)[9]Nunin, Vezzosi (a cura di), 2007. Vedi anche Vezzosi, 2000, e Id., 2012..

2. Politiche sociali degli anni Trenta in Europa e Stati Uniti d’America

Sulla base di queste premesse, questo saggio tenterà di inquadrare gli eventi relativi alle politiche di sicurezza sociale fasciste nella “grande trasformazione” (come la definì Karl Polanyi) degli anni ’30, per cogliere i punti di crisi del sistema istituzionale liberale e le nuove strategie adottate per governare la società (in tutto il mondo). Come potrebbero, ci si potrebbe chiedere come provocazione, Polanyi o Gramsci trovare somiglianze tra i nascenti regimi del fascismo e il New Deal?
Come è noto, la Grande Depressione del 1929 ha avuto un enorme impatto sulla riformulazione della struttura economica e sociale in ogni contesto nazionale, soprattutto in relazione alle nuove politiche sociali che sono state lanciate sia da stati totalitari che dai democratici. Le gravi difficoltà che hanno colpito l’economia di mercato hanno portato alla problematizzazione, in nuovi termini, del ruolo dello Stato nella vita economica e sociale delle comunità nazionali. Come ha osservato lo stesso Polanyi, c’era una grande somiglianza tra “i regimi emergenti di fascismo, socialismo e New Deal”[10]Polanyi, 1957, p. 252., uniti dal loro abbandono dei principi del laissez-faire e dalla adozione di nuove politiche sociali.
Tuttavia, nonostante le somiglianze, c’erano evidenti differenze tra il paradigma fascista autoritario-totalitario e quello democratico, sia in Europa che negli USA (nelle due versioni socialdemocratica e liberaldemocratica). Insomma, c’era una differenza in quello che Pietro Costa ha definito “direzione dei rispettivi” esperimenti[11]Costa, 2001, p. 431.. In un caso, quello dei contesti autoritari e fascisti, il lancio di innovative politiche sociali e nuovi sistemi assicurativi e previdenziali nazionali fu determinante per i progetti di espansione nazionalista e imperialista, e “Alla difesa dell’integrità razziale del popolo”. In altri casi, in contesti liberaldemocratici e socialdemocratici, era, almeno in teoria, sostenuto “da un principio di libertà”, capace di utilizzare “il potere interventista dello Stato per sostenere l’individuo in un processo di emancipazione “[12]Ibidem..
In questo senso, il tentativo di individuare tratti comuni nei nuovi approcci emersi in termini di politiche sociali e soluzioni anticrisi adottate dai vari governi non può e non deve portare ad annullare le differenze che anche la storiografia più propensa verso l’analisi comparativa ha da tempo riconosciuto.
Nell’Italia fascista (come nella Germania nazionalsocialista) le politiche sociali e gli interventi di sicurezza sociale avevano l’obiettivo di indurre una devozione attiva, in grado di assorbire l’individuo nelle istituzioni statali e quindi di sostituire i vecchi regimi autoritari del diciannovesimo secolo ed eliminare la sfera dei diritti e delle libertà individuali[13]Mannori, Sordi, 2001, pp. 484-89..
Ma sarebbe utile iniziare ricordando rapidamente il loro comune tratti. È in questo senso che Gramsci, già ‘testimone’ dell’epoca, nei suoi Quaderni del carcere, ci fornisce una valida chiave di interpretazione delle somiglianze tra americanismo e fascismo[14]Gramsci, 1975, pp. 2139..
Secondo Gramsci, entrambi hanno cercato di rispondere alla crisi del sistema liberale con la gestione corporativa del conflitto e l’avvio di un economia pianificata. Il fascismo e l’americanismo (“il nuovo industrialismo americano”) erano caratterizzati da una natura regressiva, che non induceva una progressiva evoluzione del sistema sociale in entrambi ma, al contrario, aveva la funzione di stabilizzare, di rimanere ancorati alla struttura data, cambiata dalla crisi. Tuttavia, sebbene il fascismo fosse assolutamente avverso, ha introdotto modifiche più o meno profonde nella struttura economica dell’Italia del dopoguerra per accentuare l’elemento di il piano di produzione.
Quindi, non un quadro statico, né privo di elementi razionali di per sé, come il panorama sociale ed economico offerto dallo studio del fenomeno americano non era né statico né irrazionale. Una caratteristica comune a entrambi i fenomeni era l’ambivalenza costitutiva verso la modernità borghese, dove arcaismo e innovazione coincidevano. L’ambivalenza e l’ambiguità tipiche della modernità e in particolare del modernità nella fase di crisi organica. Sia nel fascismo che nell’americanismo c’erano elementi razionali (progressisti) che operavano all’interno del quadro di un fenomeno socio-politico che ha avuto un impatto di natura assolutamente regressiva. Lo scenario è quello della crisi generale dell’autorità scoppiata nel dopoguerra, segnato da una crisi di egemonia, o piuttosto da una crisi dello Stato nel suo insieme. È qui che la crisi del sistema liberale ha lasciato spazio all’attività delle “potenze oscure” rappresentate in Italia da uomini provvidenziali e carismatici che hanno diretto il processo[15]Id., Quaderno 13, pp. 1603 e 1619 e seguenti. Al riguardo di questo, vedere Burgio, 2003; Id., 2014.. Un denominatore comune a tutti questi poteri oscuri condividevano era la loro appartenenza al quadro delle forze dominanti della vecchia società che era stata sfidata dalla crisi così come la loro avversione alla dimensione democratica della modernità. Il legame tra queste forze e il regime di Mussolini era la base dell’esperimento corporativistico. Era un esemplare programma top-down di trasformazioni reso inevitabile dalle obiettive evoluzioni dei processi materiali. Le modifiche introdotte sono state governate quindi per preservare l’essenza del modo di produzione e del rapporto sociale capitalista.
In questo senso il fascismo e l’americanismo furono risposte difensive simili alla crisi del sistema liberale (in termini di rivoluzione passiva), finalizzate alla stabilizzazione di una forma sociale ormai priva di potenzialità evolutive.
Senza dubbio, oltre alle differenze, che comunque Gramsci non ha trascurato[16]Lo stesso Gramsci riconoscerebbe allo stesso tempo le differenze (a differenza dell’americanismo, il fascismo si è stabilito per volontà di una forza, legata all’ordine delle caste … Continue reading, il confronto tra Italia e Stati Uniti permette di comprendere alcuni elementi importanti in cui le politiche del welfare fascista possono essere contestualizzate. Cioè, a causa dell’inadeguatezza delle politiche economiche e sociali liberali, una più generale propensione ad adottare nuove politiche di intervento statale, così come la sostituzione dello stato sociale del diciannovesimo secolo.
L’idea stessa di corporativismo costituiva il punto più significativo di intersezione tra i programmi fascisti e quelli dell’America di Roosevelt. La propensione all’adozione di un sistema di governo basato sul “coordinamento funzionale degli interessi economici sotto la supervisione statale”[17]Per un resoconto più dettagliato si veda M.Vaudagna, Corporativismo e New Deal. integrazione e conflitto sociale negli Stati uniti (1933-1941), Torino, 1981. Cfr. anche Kessler Harris, M. Vaudagna … Continue reading, per realizzare un nuovo tipo di integrazione sociale è stata simile in entrambi i casi. La propensione alla concentrazione economica, alla cartellizzazione e all’intervento finanziario di medio e lungo termine dello stato nell’economia attraverso nuove istituzioni (IMI, IRI italiano e RFC americano, per citarne solo alcune) e l’aumento di spesa pubblica come freno alla diffusione della disoccupazione nel contesto di grandi programmi di infrastrutture pubbliche volti ad assorbire la forza lavoro disoccupata era simile in entrambi i casi; come è stata la spinta a deviare la spesa pubblica a favore del fabbisogno della produzione di armi.
La grande depressione ha quindi spinto entrambi i paesi ad adottare misure di ampliamento dei sistemi di sicurezza sociale, nonostante la sostanziale differenza tra le politiche sociali rooseveltiane ispirate – almeno in teoria[18]Sui limiti dello stato sociale negli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda le donne, vedi l’importante volume di T. Skocpol, Protecting Soldiers and Mothers. The Political Originsof … Continue reading – dal concetto universalistico di sicurezza sociale, e da quelle italiane molto particolaristiche e categoriali[19]Sul New Deal vedi Katznelson, Fear itself. The New Deal and the origins of our time, New York, 2013; K. Klaus Patel, The New Deal. A Global History, Princeton NJ, 2016; J. Cowie, The Great Exception. … Continue reading.
È possibile trovare tendenze simili nel resto d’Europa. C’era una “Rifusione dell’Europa borghese” avvenuta sotto “un decadimento dell’influenza parlamentare” e dell'”evoluzione verso il corporativismo”. Come evidenziato da Charles S. Maier, il passaggio a un sistema di governo che era incline a cercare il consenso è stato raggiunto nel periodo tra le due guerre “meno attraverso l’approvazione occasionale di un pubblico di massa che attraverso una continua contrattazione tra interessi organizzati”[20]Maier, 1975, pag. 9 e segg. Come dice Maier, la rifusione dell’Europa borghese avviene sotto una nuova economia politica descritta come corporativista. “Ciò ha comportato lo spostamento … Continue reading.
È significativo che questo sia avvenuto anche nel contesto italiano, dove il fascismo ha dato vita a forme concrete di corporativismo, nella misura in cui è arrivato a una “colonizzazione delle decisioni politiche […] per interessi categoriali” direttamente coinvolti in uffici pubblici[21]Legnani, 1995, p. 441.. È stato con questi nuovi interessi che una strategia di mediazione è diventata sempre più necessaria, che ha cambiato le modalità di governo politico e istituzionale nazionale in senso strutturale. Il declino della forma tradizionale di rappresentanza politica e l’eclissi della rappresentanza parlamentare classica, i cambiamenti in atto nell’economia e le trasformazioni complessive che ha colpito una società in via di modernizzazione (soprattutto se noi consideriamo la ridefinizione dei rapporti tra poteri pubblici e privato), ha portato a un nuovo sistema di governo in rete, basato su nuove forme di consultazione tra nuove componenti sociali, che, con le loro proprie organizzazioni, sono diventate progressivamente più coinvolte nel governo del paese e, allo stesso tempo, in grado di colonizzare le decisioni politiche complessive con le proprie petizioni di categoria. Nuovo era anche il modo in cui venivano prese le decisioni riguardanti il contesto nazionale: ha assunto le caratteristiche di una “trattativa”, spesso non pubblicizzata tra i vari attori (élite economico-finanziarie, alti funzionari pubblici, i rappresentanti dei vari enti pubblici, funzionari del Partito Nazionale Fascista, amministratori sindacali e lo stesso Duce). In questo paesaggio generale, gli enti pubblici aumenterebbero in termini di importanza e il numero delle loro funzioni, diventando sempre più settori strategici. Hanno permesso al fascismo di riprendersi dalla crisi economica globale, e, per di più, attaccarsi agli interessi economici e sociali precedentemente distanti dai canali della politica pubblica, che, attraverso gli enti pubblici, hanno quindi potuto trovare un modo per integrarsi nelle politiche pubbliche del fascismo. Gli enti pubblici non sono stati solo confermati e rafforzati come mezzo per mobilitare e allocare il risparmio, ma erano utilizzate come istituzioni centrali per la gestione delle risorse e per il direzione strategica dello sviluppo economico (sia negli anni ’30 che nel periodo repubblicano).
È chiaro che in Italia (come in Germania) la “rifusione più o meno esplicita del contratto sociale” imposta dalla crisi del dopoguerra e da quella tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 fu raggiunto attraverso la repressione, “lo smantellamento dei sindacati e dei partiti operai”[22]Girotti, 1996, p. 218, con un esplicito riferimento alla analisi di Pierre Rosanvallon, e la divisione della classe operaia. Tuttavia, le complesse pratiche di governo e controllo sociale dell’Italia fascista, intese a offrire una soluzione alla crisi già in atto, in termini di razionalizzazione finalizzata alla stabilizzazione, oltre che di una nuova dimensione nazionale e sociale e all’integrazione sono tutt’altro che insignificanti.
Gli anni Trenta furono caratterizzati, seppur in modi diversi, dalla progressiva affermazione delle moderne politiche di welfare. L’avvento dello “stato pluriclasse” (per usare la nozione di Massimo Severo Giannini), segnano anche la crescita di nuove amministrazioni, ovvero quelle della “previdenza sociale” e della “gestione dell’economia”. Queste amministrazioni erano nuove perché la nozione che caratterizzava le loro attività era nuova. Già esistevano nel diciannovesimo secolo istituti di previdenza sociale concepiti principalmente come enti pubblici di beneficenza; tuttavia, nel corso del XX secolo, con le “classi inferiori che partecipano al potere”, è stata raggiunta una nuova nozione di sicurezza sociale[23]Giannini, 1979, p. 392.. In questo senso Giannini lo spiega, in tutti i paesi, con pochissime variazioni, gli itinerari coincidevano: cioè vi è stato un allontanamento dalle forme di assistenza che erano riservate a certe categorie di lavoratori (principalmente dall’industria), e relative ad alcune aree, a forme sempre più “ampie e complete, in termini di aspetti soggettivi e oggettivi”[24]Ivi, p. 394.. E questo era anche il caso nei contesti in cui era presente una caratteristica occupazionale della sicurezza sociale e i livelli delle prestazioni sociali sono stati mantenuti bassi.
Le basi comuni per la successiva evoluzione delle politiche sociali europee del secondo dopoguerra, centrate sul modello di welfare di Beveridge e sulle politiche keynesiane di gestione della domanda, si può quindi dire compaiono negli anni ’30. I problemi posti dal processo di modernizzazione in corso, e l’inadeguatezza delle soluzioni liberali che venivano proposte, portarono alla sperimentazione di soluzioni che erano ben lontane dalle visioni tradizionali. Al centro di tutto questo c’era l’allontanamento dall’ortodossia del libero mercato e l’adozione di politiche incentrate su uno “stimolo della domanda attraverso i deficit di bilancio”, o meglio, su una “forma più drastica di regolamentazione dell’economia nazionale da parte dello Stato”, che in seguito divenne noto come Keynesismo[25]Gourevitch, 1984, p. 229 In termini generali a questo proposito vedere ancheConti, Silei, 2005, pp. 71 seg., farvi riferimento anche per quanto riguarda una bibliografia aggiornata … Continue reading. Il lancio di misure di spesa in deficit, accompagnato da ampie riforme del welfare, ha fornito le condizioni necessarie per il controllo della crisi economica e per le richieste di integrazione nazionale.
Come è già stato detto, i risultati sono stati diversi: il modello di uno stato assistenziale particolaristico e corporativistico che asseconda interessi speciali quello emerso in Italia era molto diverso da quello che era nato in Scandinavia.
Nonostante fosse comune l’intenzione di andare oltre le forme di assicurazione nazionale e di welfare del diciannovesimo secolo; andare oltre il modello bismarckiano e quello dell’assistenza pubblica liberale.

3. Politiche sociali durante il fascismo

3.1. Iniziative per pensioni e welfare: il ruolo dell’INFPS

In questo contesto, le principali caratteristiche delle politiche sociali italiane sono quelle riconducibili a un modello “particolaristico-corporativista”, “particolaristico-clientelistico”[26]M. Ferrera, 1984; U. Ascoli, 1984; Gozzini, 2000. L’emergere del sistema pensionistico italiano condivide le caratteristiche generali del modello di welfare italiano, che si basa su … Continue reading. Frammentazione occupazionale e categoriale; la corrispondenza tra il parziale riconoscimento della sicurezza sociale e la totale negazione dei diritti civili e politici; la permeazione di logiche clientelari nella fornitura dei servizi di assistenza statale erano tutte delle sue caratteristiche.
Come nella Germania nazista, c’era un forte richiamo al senso di appartenenza a una comunità, oltre che a un movimento politico; a strutture di tipo partitico e sindacale, capaci di perfezionarsi la tutela dei lavoratori al di fuori del campo dei rapporti di lavoro.
È la politica che ha assunto un ruolo centrale nella strutturazione e nella gestione della sicurezza sociale nazionale. In Italia è stato il Partito Fascista a diventare il co-gestore delle misure di sicurezza sociale e assistenziale[27]Pombeni, 1984, p. 261..
L’utilizzo strumentale fatto dal regime delle risorse previdenziali, con una forte enfasi a livello propagandistico, aveva l’obiettivo di consolidare il proprio sistema di potere e forza egemonica, soprattutto in alcuni specifici settori strategici della società[28]Corner, 2002.. Lo sviluppo del welfare negli anni tra le due guerre, quindi, consentirono un sostegno “passivo” al regime da rafforzare in alcuni strati della popolazione nazionale, verso i quali i benefici sociali erano strumentalmente diretti.
Il regime ha dato la propria impronta agli “strumenti” della sicurezza sociale: sul più grande ente previdenziale italiano, l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS), e sull’agenzia preposta alla gestione del welfare (EOA), organo del Partito Nazionale Fascista. Il welfare, spesso confinante con gli aiuti caritativi, non è stato concepito come una funzione pubblica, ma come espressione del partito unico, del governo, che ha usato il proprio potere discrezione nella scelta dei campi e dei soggetti di intervento attraverso interventi mirati di natura politica e clientelare. Non va quindi trascurato il ruolo stesso del welfare nei confronti delle classi più svantaggiate, soprattutto in relazione alla penetrazione del Partito Fascista e delle sue propaggini nella sfera privata, e in relazione alla possibilità che il regime doveva conseguire una maggiore accettazione sociale derivante dall’avvio di alcune misure in campo assistenziale[29]Inaudi, 2008..
È proprio questo carattere strumentale impresso nella nuova legislazione sociale nazionale ai fini del controllo sociale che ha portato ad ana presenza capillare del partito unico nello sviluppo delle istituzioni sociali di sicurezza e welfare, confermando la sua natura fondamentale di intermediario tra i cittadini e il sistema istituzionale in generale. Se ciò che è stato appena detto è vero, cioè che gli anni del fascismo coincisero con il periodo storico più incisivo per la crescita del nuovo sistema sociale delle amministrazioni di protezione, non sorprende che lo stesso INFPS fosse uno degli aspetti principali della modernizzazione nazionale. L’istituto davvero ha rappresentato il punto di riferimento per la domanda di sicurezza sociale e benessere che era caratteristico durante le trasformazioni che stavano avendo luogo nel periodo tra le due guerre, espressione dello sviluppo stesso delle funzioni sociali pubbliche.
La grande importanza assunta dall’istituto[30]Iniziando come Fondo nazionale di previdenza sociale per la vecchiaia e la disabilità peri lavoratori (Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai) (1898), … Continue reading è, ad esempio, attestata dal solo fatto che esso divenne, per la sua struttura amministrativa e le risorse che gestiva, il più grande organismo dopo lo Stato stesso.
Definito da Mussolini un “ente fascistissimo”, anche la struttura amministrativa dell’istituto è cambiata e le sue attività si sono ampliate, sotto l’impulso di obiettivi fissati da input esterni derivanti da la nuova legislazione sociale fascista.
Così l’Istituto, anche grazie ad una capillare rete periferica, ha svolto un ruolo fondamentale nell’Italia fascista nella costruzione di un sistema di controllo articolato su tutto il territorio nazionale. Ha avuto un ruolo strategico nel controllo del territorio nazionale, diventando con le sue numerose filiali uno dei più grandi sistemi di comunicazione amministrativa del regime e partecipando sia alla costruzione di ottenere il consenso per se stessa e nelle politiche di coinvolgimento sociale a livello locale. Le pensioni venivano raccolte presso gli uffici provinciali dell’Istituto, propagandate come la creazione del regime e del Duce; l’Istituto è stato coinvolto nelle varie attività culturali e sociali del regime; l’Istituto ha partecipato a significative operazioni finanziarie a livello nazionale; l’Istituto possedeva ospedali e cliniche in tutto il territorio pronte ad accogliere i bisognosi.
E, soprattutto, le azioni dell’Istituto erano subordinate alle esigenze del regime, rispondendo alle pressioni e alle richieste provenienti dal partito e le sue federazioni provinciali e lasciandosi utilizzare, soprattutto nelle sue filiali su tutto il territorio, come strumento di controllo sociale e politico della periferia del Paese[31]A tal proposito si fanno considerazioni simili a quelle di Giorgi, 2012, pp. 131-48. Infine, con particolare attenzione al ruolo del Partito vedi Id., 2017.. Come istituzione più importante che doveva attuare le politiche previdenziali, l’INFPS fu “soggiogato” dagli obiettivi delle politiche sociali fasciste, perdendo alcune delle sue caratteristiche originarie che miravano a tutelare gli interessi dei beneficiari. L’Istituto finisce così per perdere la sua autonomia e funzione specifica come istituzione finanziaria. La nuova espansione organizzativa e finanziaria visto negli anni ’30 era dovuta a uno slancio esterno rispetto alle decisioni e all’iniziativa della direzione dell’Istituto, a testimonianza che il più importante ente di previdenza sociale nazionale aveva poi assunto un ruolo strumentale nella progettazione della politica sociale del regime.
Un esempio è la “crescita senza limiti” dell’Istituto – come ha detto il direttore generale dell’INFPS, soprattutto dalla seconda metà degli anni Trenta. Tale crescita includeva un’enorme espansione amministrativa, spesa che è passata da 58 a 258 milioni di lire tra il 1933 e il 1941; nel 1939 la spesa totale per le pensioni di vecchiaia è stata di 188 milioni e le spese per invalidità sono state di 249 milioni.
Le note del direttore generale rivelano una preoccupazione per i nuovi compiti assegnati all’Istituto che hanno comportato un aumento delle spese, e un tentativo di giustificare questa crescita con i valori sociali che ispirano l’attività dell’INFPS, in obbedienza “alle direttive della politica sociale del Regime”[32]Relazione del direttore generale, INFPS, Rendiconti, 1937..
In questa trasformazione generale, anche la struttura amministrativa è cambiata. Dalla natura essenziale e “leggera” di altri enti pubblici economici e istituzioni finanziarie, è diventato un sistema più complesso, simile a quello del servizio civile.
Da fornitore di pensioni, INFPS è diventato un grande ente che si occupa di affari con gestione e assistenza oltre che sanitaria, avendo ospedali e anche cliniche[33]Per maggiori dettagli vedere Giorgi, 2004. Vedere anche Melis, 1989; Bertini, 2001..
Aumentano le responsabilità dell’Istituto, le competenze e il potere di intervenire in ambiti spesso esterni della sua missione originaria: ad esempio, immobiliare, medico-sanitario e legati alla politica demografica del regime.
Dopo le riforme del 1935, anno in cui fu avviata un’importante riorganizzazione della sicurezza sociale, emerse un nuovo testo legislativo che ha definito le responsabilità dell’istituzione non solo in materia di sicurezza sociale, ma anche nel campo dell’assistenza, della cultura e della propaganda. Gli aspetti importanti in questo frangente erano la maggiore centralizzazione dei poteri nella figura del presidente e del direttore generale dell’istituto, il cambio degli uomini nelle sue alte sfere (sempre più homines novi del fascismo) e in particolare l’introduzione di nuove disposizioni sull’attività finanziaria, sul bilancio e sull’uso dei fondi dell’Istituto.
In questi anni l’INFPS doveva implementare, come una pubblicazione interna ha rivelato, un numero crescente di “grandi iniziative di ispirazione sociale”[34]INPS, 1970, p. 256..
Il fascismo ha utilizzato la grande concentrazione di risorse della sicurezza sociale nell’Istituto per finanziare le opere di bonifica, gli interventi di riqualificazione industriale, le conquiste in Africa, parcellizzazione dei terreni nelle colonie, comunicazioni, alloggi sociali e così via. Sempre durante i vent’anni del fascismo, l’Istituto diede un forte impulso alla sua attività sanitaria, favorendo la creazione di case di convalescenza, terme e resort, ampiamente propagandati dal fascismo in ogni manifestazione collettiva in termini di provvidenziali creazioni del regime[35]Vedere Pavone, 1993, p. 214..
Nella logica del fascismo di attrarre settori sociali sempre più grandi e strategici e fare dell’INFPS uno strumento capace di rafforzare l’adesione al regime, l’Istituto ha subito un processo di burocratizzazione e crescita senza precedenti. Ha perso autonomia ed efficienza a causa dell’assunzione di una sempre maggiore gestione dell’assicurazione nazionale. Le prestazioni di sicurezza sociale fornite erano per la maggior parte inferiori rispetto ai contributi versati e le prestazioni dell’Istituto sono progressivamente peggiorate, venendo influenzate da operazioni finanziarie svantaggiose che minavano la sua missione originaria di fornitore di assicurazioni sociali (come istituto di finanziamento, istituto di previdenza).
Solo all’indomani della seconda guerra mondiale, di fronte al processo inflazionistico, quando le riserve dell’Istituto – investite nella grandi operazioni politiche del regime – ha subito una grave svalutazione, il risultato delle politiche di sicurezza sociale fasciste diventa chiaro[36]L’INFPS, come altri istituti di previdenza sociale, si basava sui rendiconti finanziari utilizzando la capitalizzazione, che ha permesso l’immobilizzazione di grandi risorse economiche … Continue reading.
Nel 1946 quasi sessanta diversi sistemi di gestione erano stati affidati all’INPS; il prodotto di un processo iniziato quindici anni prima. In effetti, è negli anni ’30 che l’Istituto si espande oltre misura; assumendo un numero crescente di operazioni assicurative, impiegando sempre più personale (il numero di dipendenti tra il 1937 e 1941 aumentò da 6.000 a 8.000), accumulando sostanziali attività finanziarie, fornendo servizi (nel periodo 1920-29, ad esempio, essi ammontavano a soli 948 milioni di lire contro 5.340 miliardi di ricavi, mentre tra il 1930 e il 1939 i contributi furono complessivamente 11.168 miliardi di lire e sono stati pagati 8.971 miliardi di lire) [37]Ibidem. e infine venendo coinvolto in nuove attività.
Particolare è stato il processo di “burocratizzazione” dell’Istituto evidente nei primi anni quaranta. Le enormi risorse che possedeva vennero sempre più facilmente incanalate in attività pericolose per la qualità e il livello delle prestazioni di servizi di sicurezza sociale, rendendola funzionale a soddisfare le specifiche esigenze politiche e clientelari dell’Italia fascista.
Esigenze che hanno svolto un ruolo fondamentale nella strutturazione del sistema di sicurezza sociale e nell’organizzazione dell’organo preposto alla sua gestione. L’Istituto si è trovato ad affrontare problemi sempre più diversi e numerosi, andando al di là delle caratteristiche assicurative sociali e finanziarie originarie di quando è stata fondata.
Da un’analisi dettagliata della struttura dell’INFPS emergono due elementi di lungo periodo della politica previdenziale italiana: uno sono gli squilibri tra le varie strutture gestionali, cosa che spesso comportava trasferimenti di fondi in corso tra le diverse strutture gestionali, con il risultato che alcune strutture hanno pagato per servizi i quali avrebbe dovuto essere pagati da altri. Il secondo riguarda la confusione dei confini tra i ruoli del Tesoro e la gestione delle pensioni, in quanto l’INFPS, invece di utilizzare il mercato finanziario per le proprie esigenze, ha visto i suoi fondi utilizzati direttamente dal Tesoro e in altre iniziative di investimento[38]L’Istituto quindi apparteneva, insieme all’INA e alla Cassa depositi e prestiti (CDP), al circuito finanziario alternativo al Tesoro. Vedi Bonelli e Melis, 1989. Sul ruolo degli enti … Continue reading.
In questo contesto è chiaro come l’INFPS abbia svolto un ruolo fondamentale nel finanziamento dello Stato, cioè della spesa pubblica italiana tra le due guerre. L’ente ha liberato, in virtù dell’utilizzo del sistema della capitalizzazione, significative risorse per la realizzazione di investimenti infrastrutturali e di edilizia residenziale pubblica (sia finanziando direttamente opere di questo tipo o attraverso la fornitura di risorse allo stato, a province e comuni). Allo stesso tempo ha assunto il ruolo di braccio operativo del governo nel finanziamento di iniziative strategiche[39]Beltrametti, Soliani, 2000. Per una dettagliata analisi delle politiche finanziarie, dei bilanci, dei saldi finali e delle politiche del personale dell’INFPS vedere Giorgi, 2004.. L’Istituto è stato così progressivamente impegnato in un’enorme operazione di soccorso e rideterminazione dell’assetto proprietario dell’economia italiana degli anni ’30. Proprio nel ridisegno, in un senso senso dichiaratamente statalista e dirigista, del sistema industriale e finanziario [nazionale][40]De Cecco and Toniolo, 2001, p. XL, il ruolo dell’INFS, insieme a quello assunto dalla Cassa depositi e prestiti, diventa essenziale. Particolare attenzione meritano i saldi finali, che consentono di comprendere la situazione finanziaria di questo mastodonte della sicurezza sociale.
I tre principali patrimoni che l’Istituto aveva nel proprio bilancio per quanto riguarda la gestione dei fondi di invalidità e vecchiaia erano costituiti da rendite statali, titoli e prestiti. Nel complesso, il totale delle attività operative sono passate da 7.783 milioni nel 1933 a 18.658,8 milioni nel 1941. In termini di sussidi di disoccupazione, la risorsa più significativa era quella corrispondente ai titoli; seguono le somme investite per le varie iniziative volte a combattere la disoccupazione sotto il duplice aspetto della partecipazione finanziaria e delle attività direttamente svolte dall’INFPS. Investimenti molto importanti per le attività di colonizzazione demografica furono intrapresi dall’Istituto in Libia negli anni ’30. Inoltre, le anticipazioni all’Ente Colonizzazione Puglia d’Etiopia, al Consorzio di Bonifica del Burana, aveva l’esclusiva partecipazione finanziaria. Nell’assicurazione contro la tubercolosi, il peso del patrimonio immobiliare dovuto allo sviluppo di edifici sanitari era considerevole. Anche nel campo dell’assicurazione maternità (divenuta poi assicurazione matrimonio e nascita) la crescita del patrimonio è stata significativa, così come nel settore degli assegni familiari. Dai dati disponibili emerge che le rendite statali costituivano l’elemento più cospicuo dei bilanci dell’Istituto negli anni Trenta. Questo fatto assume particolare rilevanza se si considera che questa costituiva una forma “segreta” di finanziamento fornita dall’INFPS allo Stato, in quanto le rendite non appaiono come debito pubblico. Quest’ultimo era quindi molto più alto di quello dichiarato nei dati ufficiali, dal momento che il “finanziamento di opere pubbliche e le opere di bonifica erano da tempo utilizzate per prevenie il sistema delle dilazioni di pagamento, mediante rendite trentennali pagabili dallo stato, che sono stati scontati in alcuni grandi corpi statali e parastatali”, come l’INFPS “per somme al momento molto elevate.”[41]Guarnieri, 1988, p. 352. Come visto, si trattava di “debiti pagati a rate derivanti dal fatto che alcuni pagamenti da parte dello Stato erano suddivisi in rate annuali scadute negli anni successivi a quello in cui la somma dovrebbe, come usuale, da estinguere.”[42]Salvemini, Zamagni, 1993, pp. 195 seg. Lo scopo era proprio quello di far apparire il deficit pubblico meno grave. Questa pratica, già utilizzata come “espediente contabile” per le spese della guerra di Libia[43]Per maggiori informazioni vedere Répaci, 1962, pp. 21, 137, 313; Id., 1934., è stata utilizzata ancor di più dalla fine del 1935 e in connessione con l’economia di guerra, instaurata a partire dalla conquista dell’Etiopia, fino agli anni della guerra mondiale, con la guerra civile spagnola e l’occupazione dell’Albania nel mezzo.

3.2. I siti periferici di controllo sociale

Analizzando le dinamiche del territorio, troviamo che l’articolazione periferica dell’INFPS è stata di grande importanza negli anni tra le due guerre mondiali, in relazione ai canali di controllo del fascismo.
La sede provinciale dell’INFPS ha svolto un ruolo cruciale nei contesti di governo locale e in relazione a determinati equilibri di potere in città. È stato un importante intermediario nella gestione delle risorse economiche del Paese, nelle operazioni di offerta di aiuti sociali che il regime aveva messo in pratica, divenendo il referente di numerose richieste di intervento pubblico provenienti da varie realtà nazionali e contesti locali. Le diverse soggettività interessate ad attingere al flusso di risorse attraverso l’Istituto rafforzano così il proprio potere di influire con richieste di specifiche categorie su decisioni più complesse.
Quindi, mentre i sistemi di welfare universalisti venivano implementati in alcuni contesti europei, estesi a tutti i cittadini, indipendentemente dalla posizione ricoperta sul mercato, e dai contributi, o dalla situazione occupazionale, in Italia le misure adottate dal fascismo erano discrezionali, e rivolto a singoli settori e categorie di lavoratori.
Ciò era strettamente connesso al fatto che il regime giocava la carta della concessione di alcune prestazioni sociali (che erano però molto ben definite), a fronte del riconoscimento dei diritti politici. Le politiche del fascismo si esprimevano in forme di incentivi economici e di reti di sicurezza sociale anche per sopperire alla mancanza di libertà fondamentali.
Anche queste erano concessioni e come tali sanzionate da uno Stato con una vocazione totalitaria intenta a “neutralizzare” i suoi oppositori politici, lo stesso conflitto sociale e politico e l’intenzione di coinvolgere determinati gruppi sociali rimasti relativamente fuori dalla portata dello stato[44]Corner (citato in Tim Mason), 2002, p. 396. Vedi anche Id., 2015. Si trattava quindi di concessioni, e non di conquiste legate alla cittadinanza, questo può essere inquadrato in un progetto di governo che mirava a prefigurare l’ente unico ma fortemente differenziato della nazione, il cui “Bisogni maggiori” – come affermava uno dei tanti opuscoli dell’INFPS – tutti i lavoratori dovevano obbedire[45]INFPS, 1942, p. 10..
D’altra parte, i dipendenti sono stati coinvolti in questo sistema perché hanno versato contributi obbligatori e non come soggetti aventi diritto.
Tuttavia, non tutti i lavoratori avevano accesso alla sicurezza sociale (braccianti e lavoratori domestici sono stati esclusi) e sono stati sottoposti a una serie di procedure piuttosto vincolanti e disciplinari se ne facevano richiesta. Per esempio – come ha osservato Corner[46]Corner, 2002, pagg. 398-99. L’autrice spiega come il giudizio dei visitatori fosse vincolante rispetto alla possibilità per le donne di accedere alle cliniche dell’Opera nazionale … Continue reading – per ottenere l’indennità di disoccupazione era anche necessario passare il controllo di comitati di funzionari specificamente competenti e di potentati locali, compresi i rappresentanti del locale PNF (Partito Nazionale Fascista) e dell’amministrazione comunale. Così come, oltre a presentare un resoconto dettagliato della salute e della situazione finanziaria di tutta la famiglia di chi ne ha fatto richiesta, occorreva anche ottenere il consenso di figure morali e strategiche: i “visitatori fascisti”. Quest’ultimo aveva il compito di redigere un rapporti sulla persona o la famiglia interessata, che aveva un peso significativo nella decisione se concedere la previdenza sociale richiesta, e soprattutto di carattere morale e di natura politica.
Con il carattere di concessioni, la previdenza sociale era quindi condizionata dall’approvazione del regime, dalla ‘risposta’ dei beneficiari (in termini di adesione e integrazione), dalla discrezionalità della moltitudine di istituzioni finalizzate a trattare con l’assicurazione nazionale, sistema sociale di sicurezza e welfare.
Un altro esempio significativo è quello relativo alle pensioni di invalidità. La concessione della pensione rispondeva infatti ad una logica non strettamente previdenziale, che ha portato l’ufficio provinciale dell’INFPS a concessioni pensionistiche ingiustificabili. In termini generali, a partire da anni ’30, il numero delle pensioni di invalidità è progressivamente aumentato rispetto al numero delle pensioni di vecchiaia, superandole alla fine del decennio (le pensioni di vecchiaia sono aumentate dallo 0,06% del PIL nel 1930 allo 0,08% nel 1939; quelle per invalidità sono aumentate dallo 0,03% allo 0,11% nella stessa periodo). In questo senso, la pensione di invalidità ha cominciato ad assumere una diversa funzione durante il fascismo; uno che non era direttamente collegato al suo scopo originale. La grande “popolarità” delle pensioni di invalidità è dovuta alla maggiore facilità con cui potrebbero essere ottenuti e la maggiore indulgenza con cui sono state concretamente concesse, anche grazie alla pressione delle federazioni del partito unico (spesso in contrasto con le risposte fornite a livello di salute). Le analisi condotte a livello dei singoli cittadini attestano questa dinamica[47]Per maggiori dettagli sulle analisi a livello territoriale vedi Giorgi, 2004..
Un altro esempio è relativo agli opuscoli sulla previdenza sociale[48]Per ulteriori dettagli sugli opuscoli sulla sicurezza sociale, vedere Corner, 2002..
Questi libretti, proposti da una parte per evitare duplicazioni, spreco, abuso e disorganizzazione, sono diventati uno strumento importante per il partito nel monitoraggio della popolazione; uno strumento efficace per il controllo sociale; uno dei veicoli della propaganda politica. La pensione stessa, piuttosto che essere, per così dire, il prodotto dei contributi versati, sarebbe “camuffato” da premio dato direttamente da e per bontà del Duce.
In tutti gli esempi, l’accesso alla sicurezza sociale era vincolato dall’opinione di varie autorità fasciste o vicine al fascismo[49]Come giustamente osservato in Ivi, p. 399.. L’intento era quello di arrivare ad un’adesione generalizzata allo Stato, mentre allo stesso tempo tempo che sfugge ai tradizionali allineamenti di classe e fa riferimento a quello sociale collaborazione, su cui l’apparato propagandistico del regime ha puntato con forza crescente[50]Vedere De Grazia, 1981..
Non sorprende quindi che, oltre al desiderio di creare un’opinione pubblica favorevole al regime e attenuarne gli effetti della grande crisi economica del 1929, i motivi ispiratori della legislazione sociale fascista erano anche funzionali alle politiche di espansione imperialistica del fascismo[51]Gaeta, 1996, p. 238..
La conseguenza più notevole di quanto detto finora è che infine le caratteristiche della legislazione sociale nazionale non hanno mai raggiunto una dimensione universalistica. Al contrario, hanno dato vita a un sistema simile a una specie di trapunta patchwork[52]Vedere Preti, 2002, p. 695., in cui ogni singola categoria professionale era rappresentata dalle proprie rivendicazioni. Frammentazione dei soggetti investiti da prestazioni di sicurezza sociale, particolarismo e discriminazione erano ampiamente prevalenti nelle politiche di sicurezza sociale del regime, che le intendeva sopra tutto come mezzo per proteggere e attrarre le categorie più vicine[53]Vedere Mazzini, 1980, p. 521..
Il fascismo, che si vantava di aver creato uno dei più avanzati sistemi di servizi sociali in Europa, utilizzava un sistema in cui la concessione di benefici (ai dipendenti e non ai cittadini) rispondeva principalmente ai criteri del proprio consolidamento politico piuttosto che a quelli della giustizia sociale e ad alleviare situazioni di povertà o bisogno. Il fascismo avrebbe propagandato la sua realizzazioni in ogni modo possibile, come un debito che il paese aveva nei confronti capo; utilizzando i programmi di assistenza per una moderna ingegneria del controllo sociale, regolando quali beneficiari “ammettere”.

4. Conclusioni

Emergono tre punti. Il primo è che l’Italia è riuscita a recuperare quantitativamente rispetto alla media europea, aumentando la spesa per la sicurezza sociale e il grado di copertura assicurativa. Tuttavia, il modo che il regime ha utilizzato per plasmare il sistema di welfare nazionale influenzerebbe gli sviluppi successivi, facendo emergere la centralità dell’esperienza fascista in relazione alle caratteristiche (e dimensioni) di quest’ultimo.
In secondo luogo, la riorganizzazione avvenuta in ambito assicurativo e previdenziale sotto il fascismo – per quanto riguarda l’estensione delle forme di protezione sociale, il numero di persone coperte e soprattutto in termini di sistematizzazione – riguardavano principalmente gli aspetti gestionali. La politica di differenziazione dei diritti è stata continuata e persino accentuata e utilizzata dal regime per ottenere il controllo sociale. Il fascismo, infatti, ha moltiplicato le forme e i regimi assicurativi, differenti e differenziati in termini di ampiezza, qualità e durata.
Infine, l’ultimo punto riguarda le dinamiche molto più complesse e ambivalenti per l’affermazione del welfare state contemporaneo.
Come è stato recentemente sottolineato, “le esperienze ‘welfariste’ non possono essere ricostruito come una “declinazione” di un’unica entità statale compatta. Se lo stato è il risultato di un intreccio di strategie politiche e rapporti di potere e, allo stesso tempo, una pedina nell’interazione socio-politica, se è il momento e il veicolo dell’azione governativa, l’espressione “Welfare State”si riferisce meno a un tipo o una forma dello stato, piuttosto che evocare un insieme di pratiche, conoscenze, apparati e istituzioni che convergono nel “trattare” i processi vitali della popolazione. Da qui, in termini più generali, l’opportunità di una prospettiva metodologica – indicata soprattutto da Michel Foucault – capace di leggere le dinamiche riguardanti il welfare state, come “oggetto complesso e sfaccettato”, nella “rete dei rapporti di potere e di sottomissione”, all’incrocio tra “governamentalità” e “biopolitica” con tutti i “dispositivi disciplinari e biopolitici”. Gli stessi legami di continuità e discontinuità tra il liberalismo ottocentesco, e i successivi stati totalitari e le democrazie costituzionali del dopoguerra sembrano così illuminati da una lettura capace di cogliere “l’intreccio ambiguo e la tensione essenziale tra le rivendicazioni di libertà e il controllo della “sicurezza” dei processi vitali[54]Ibidem..

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2 Alcuni degli studi più significati pubblicati negli anni ’80 includono: Preti, 1980; Id.,1987; Mazzini, 1980; Melis e F. Bonelli, 1989.
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4 Per considerazioni critiche e una analisi dei problemi del consenso vedere: Corner, 2002; Pergher, Albanese, 2012.
5 Ritter, 1996.
6 Ferrera, 1984, p. 36. Vedere anche Ascoli e Paci, 1984. In aggiunta, Ferrera, Fargion, Jessoula, 2012.
7 Ferrera, cit.
8 Vedi in particolare Inaudi, 2008; Id., 2010; Catalan, 1992; Vezzosi, 2004; Minesso (a cura di), 2007; Bettini, 2008; La banca, 2008; Id., 2014; Id., 2013. Vedi anche Vinci (a cura di), 2012.
9 Nunin, Vezzosi (a cura di), 2007. Vedi anche Vezzosi, 2000, e Id., 2012.
10 Polanyi, 1957, p. 252.
11 Costa, 2001, p. 431.
12, 37, 54 Ibidem.
13 Mannori, Sordi, 2001, pp. 484-89.
14 Gramsci, 1975, pp. 2139.
15 Id., Quaderno 13, pp. 1603 e 1619 e seguenti. Al riguardo di questo, vedere Burgio, 2003; Id., 2014.
16 Lo stesso Gramsci riconoscerebbe allo stesso tempo le differenze (a differenza dell’americanismo, il fascismo si è stabilito per volontà di una forza, legata all’ordine delle caste premoderne alleate con le suddette forze oscure e la borghesia rurale, pronte per una guerra di sterminio. È il vecchio moribondo che non fa un passo indietro; è il mix di innovazione e arcaismo).
17 Per un resoconto più dettagliato si veda M.Vaudagna, Corporativismo e New Deal. integrazione e conflitto sociale negli Stati uniti (1933-1941), Torino, 1981. Cfr. anche Kessler Harris, M. Vaudagna (a cura di), Democracy and Social Rights in the “Two Wests”, Torino, 2009.
18 Sui limiti dello stato sociale negli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda le donne, vedi l’importante volume di T. Skocpol, Protecting Soldiers and Mothers. The Political Originsof Social Policy in the United States, Cambridge 1992
19 Sul New Deal vedi Katznelson, Fear itself. The New Deal and the origins of our time, New York, 2013; K. Klaus Patel, The New Deal. A Global History, Princeton NJ, 2016; J. Cowie, The Great Exception. The New Deal and the Limits of American Politics, Princeton-Oxford, 2016.
20 Maier, 1975, pag. 9 e segg. Come dice Maier, la rifusione dell’Europa borghese avviene sotto una nuova economia politica descritta come corporativista. “Ciò ha comportato lo spostamento del potere dai rappresentanti eletti o da una burocrazia di carriera alle principali forze organizzate della società e dell’economia europee, a volte contrattando direttamente tra di loro, a volte esercitando influenza attraverso un parlamento indebolito, e occasionalmente cercando vantaggi attraverso la nuova autorità esecutiva. In ogni caso il corporativismo significava la crescita del potere privato e il crepuscolo della sovranità”. Per altri punti di vista vedi Santomassimo, 2006; Stolzi, 2007; Pasetti, 2016. Infine, un aspetto di interesse è legato alle relazioni (e l’atteggiamento ambiguo, un misto di ammirazione e inquietudine, verso il corporativismo fascista) tra l’Organizzazione internazionale del lavoro e il fascismo, per il quale si rimanda a Gallo, 2013; Id., 2017.
21 Legnani, 1995, p. 441.
22 Girotti, 1996, p. 218, con un esplicito riferimento alla analisi di Pierre Rosanvallon
23 Giannini, 1979, p. 392.
24 Ivi, p. 394.
25 Gourevitch, 1984, p. 229 In termini generali a questo proposito vedere ancheConti, Silei, 2005, pp. 71 seg., farvi riferimento anche per quanto riguarda una bibliografia aggiornata dell’argomento. Più in generale, nella vastissima letteratura sull’emergere di diversi modelli di welfare, si veda in particolare Flora e Heidenheimer, 1983; Esping-Andersen, 1990; Baldwin, 1990; Pierson (a cura di), 2001; Saraceno, 2013.
26 M. Ferrera, 1984; U. Ascoli, 1984; Gozzini, 2000. L’emergere del sistema pensionistico italiano condivide le caratteristiche generali del modello di welfare italiano, che si basa su occupazioni, corporativismo, frammentazione. Tuttavia, come sostenuto da Franco Bonelli (1989, p. 133), “Una spiegazione delle caratteristiche di un sistema pensionistico può essere raggiunta non attraverso una tipologia […] delle versioni nazionali dello stato sociale, ma piuttosto attraverso l’obiettiva analisi delle situazioni risultanti dai fattori che operano in ciascun paese in un dato momento”.
27 Pombeni, 1984, p. 261.
28 Corner, 2002.
29 Inaudi, 2008.
30 Iniziando come Fondo nazionale di previdenza sociale per la vecchiaia e la disabilità peri lavoratori (Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai) (1898), divenuto poi Cassa nazionale per le assicurazioni sociali in età liberale, e quindi ereditato dal regime, l’istituzione assunse questo nome negli anni ’30 (1933), rimanendo tale fino ad oggi, ad eccezione della F per fascista.
31 A tal proposito si fanno considerazioni simili a quelle di Giorgi, 2012, pp. 131-48. Infine, con particolare attenzione al ruolo del Partito vedi Id., 2017.
32 Relazione del direttore generale, INFPS, Rendiconti, 1937.
33 Per maggiori dettagli vedere Giorgi, 2004. Vedere anche Melis, 1989; Bertini, 2001.
34 INPS, 1970, p. 256.
35 Vedere Pavone, 1993, p. 214.
36 L’INFPS, come altri istituti di previdenza sociale, si basava sui rendiconti finanziari utilizzando la capitalizzazione, che ha permesso l’immobilizzazione di grandi risorse economiche che erano “controllate e gestite dallo Stato”. In questo senso, il regime ha tratto un vantaggio nel lasso di tempo tra il momento in cui è stato fornito il contributo e il momento in cui è stato eseguito il servizio, utilizzando la concentrazione del sistema di sicurezza sociale per finanziare le sue attività. Vedere Mazzini, 1980, p. 509.
38 L’Istituto quindi apparteneva, insieme all’INA e alla Cassa depositi e prestiti (CDP), al circuito finanziario alternativo al Tesoro. Vedi Bonelli e Melis, 1989. Sul ruolo degli enti pubblici e sulla loro centralità nell’economia italiana si veda Cassese, 1985; De Cecco, 1997. Per ulteriori informazioni sugli enti pubblici durante il fascismo vedi Melis, 1988; Cassese, 2010; Giorgi, 2008; Ferretti, 2014.
39 Beltrametti, Soliani, 2000. Per una dettagliata analisi delle politiche finanziarie, dei bilanci, dei saldi finali e delle politiche del personale dell’INFPS vedere Giorgi, 2004.
40 De Cecco and Toniolo, 2001, p. XL
41 Guarnieri, 1988, p. 352.
42 Salvemini, Zamagni, 1993, pp. 195 seg.
43 Per maggiori informazioni vedere Répaci, 1962, pp. 21, 137, 313; Id., 1934.
44 Corner (citato in Tim Mason), 2002, p. 396. Vedi anche Id., 2015
45 INFPS, 1942, p. 10.
46 Corner, 2002, pagg. 398-99. L’autrice spiega come il giudizio dei visitatori fosse vincolante rispetto alla possibilità per le donne di accedere alle cliniche dell’Opera nazionale maternità e infanzia. Per ulteriori informazioni su questo argomento vedere Saraceno, 1995. Così come Minesso (a cura di), 2007 e più in generale vedi De Grazia, 1993. Per un altro caso istituzionale vedi Vigilante, 2014
47 Per maggiori dettagli sulle analisi a livello territoriale vedi Giorgi, 2004.
48 Per ulteriori dettagli sugli opuscoli sulla sicurezza sociale, vedere Corner, 2002.
49 Come giustamente osservato in Ivi, p. 399.
50 Vedere De Grazia, 1981.
51 Gaeta, 1996, p. 238.
52 Vedere Preti, 2002, p. 695.
53 Vedere Mazzini, 1980, p. 521.

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