Discorso di Minghetti del 13 marzo 1861

Discorso del 13 marzo 1861, tenuto alla Camera dal ministro Mighttti, per presentare i disegni di legge: Sulla ripartizione del regno e sulle autorità governative – Sulla amministrazione Comunale e Provinciale – Sui Consorzi – sull’Amministrozione regionale.

L’ONOR di presentare alla Camera quattro disegni di legge: il primo sulla Ripartizione del Regno e sulle Autorità governative; il secondo sull’Amministrazione Comunale e Provinciale; il terzo sui Consorzi; il quarto sull’Amministrazione regionale.
Ognuno di questi disegni di legge è accompagnato da una relazione, che ne adduce i motivi. Nondimeno io chieggo alla Camera il permesso di spiegare verbalmente il concetto unico che informa tutte queste leggi e il nesso che tutte le collega.
La formazione dell’unità d’Italia, con tanta mirabile rapidità, è un fatto così grandioso che non ha riscontro nella storia. Ma la varietà notevolissima e secolare delle leggi, delle tradizioni, delle abitudini che vi regnarono sino ad ora rende arduo il trapasso alla sua unificazione legislativa e civile. E ciò tanto maggiormente che non si opera mediante la conquista, non coll’arbitrio o con la dittatura, ma con la discussione e con la libertà. La quale dando ad ogni opinione una voce, ad ogni interesse una rappresentanza, moltiplica a primo aspetto gli ostacoli e le difficoltà. E nondimeno cotale libertà è pur quella che crea la nostra forza; imperocchè l’Italia intera riceverà volonterosa e reverente il giudizio che i suoi rappresentanti avranno pronunziato, e l’autorità del Parlamento, che delibera dopo ampia discussione, imporrà il silenzio a tutte le differenze ed ai dissensi.
Il problema che abbiamo a sciogliere fu indicato molto chiaramente nel discorso della Corona. Trattasi di accordare alle varie parti del regno le massime franchigie amministrative possibili, purché rimanga integra, anzi si consolidi la unità nazionale, che fra tanti pericoli e con tante fatiche abbiamo acquistata. Ora, queste franchigie, o, in altri termini, il discentramento amministrativo può operarsi in due modi, dando cioè ai comuni e alle provincie maggiori attribuzioni e maggior libertà di azione di quello che ebbero sinora, ovvero delegando alle autorità governative locali molte facoltà che sogliono serbarsi dal governo centrale. I disegni di legge che ho l’onore di proporvi hanno l’uno e l’altro di questi intendimenti.
Il Comune è la prima, fondamentale e più intima associazione delle famiglie. La legge 23 ottobre 1859, la quale è già promulgata nella massima parte del regno, è certamente una delle più liberali d’Europa; nondimeno noi abbiamo creduto che si potesse in molte parti migliorare.
Nella legge che vi è data ad esaminare voi troverete primieramente allargata la base della elezione. Noi proponiamo che il diritto elettorale sia concesso a tutti coloro i quali pagano una tassa diretta per qualsivoglia titolo. Ora, se voi considerate per una parte alle condizioni dell’agricoltura italiana, dove il colono partecipa in qualche guisa alla proprietà; se considerate, per altra parte, che un sistema dì tasse ben ordinato dovrà colpire tutti i rami della pubblica ricchezza, non solo terriera, ma eziandio mobile, o provenga essa dai capitali, o dall’industria, o dalle professioni, voi vi farete capaci che il diritto di elezione è effettivamente dato alla massima parte dei cittadini, a tutti coloro che, per una o per altra cagione, hanno interesse all’amministrazione comunale.
Le attribuzioni del Comune furono ampliate da quello che erano nella legge che ho testé citata; il magistrato esecutivo ed il suo capo furono dati alla elezione dei Consigli, finalmente fu resa più facile la riunione loro, più efficace la loro libertà.
La Provincia ha in Italia antiche origini ed ha per avventura una personalità più spiccata che in alcun’altra parte di Europa. Essa risale in molte parti della penisola a quella epoca nella quale ferveva la lotta tra l’elemento democratico della città e l’elemento feudale della campagna. Quando la città, trionfando, smantellò i castelli dei baroni, e questi costrinse a venire ad abitare entro le sue mura, quando accolse sotto la sua protezione i borghi minori, la città si formò intorno un contado, o un territorio col quale strinse vincoli intimi d’interesse e di affetto . A quell’epoca risalgono i grandi miglioramenti agrari e i grandi lavori idraulici, i quali, specialmente nella Lombardia, formano uno dei più splendidi argomenti di gloria per le sue città, Che se in alcune altre parti della penisola la provincia ebbe origine diversa, non fu però meno spontanea e meno distinta; e noi troviamo sino dal secolo xiv i nomi e le circoscrizioni quasi identiche delle provincie napoletane.
Pertanto il concetto, dal quale si partono le leggi che ho l’onore di proporvi, si è questo: che la provincia non sia un’associazione fittizia, ma sia in generale, e salvo poche eccezioni, un’associazione naturale, fondata sopra interessi comuni, sopra tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo. Laonde io respingo la massima della formazione di provincie artificiali più o meno grandi e create secondo le convenienze politiche e i calcoli dell’opportunità.
Ciò posto, io credo che la Provincia debba esercitare un ufficio molto importante nell’ordinamento amministrativo d’Italia; la libertà provinciale è, a mio avviso, insieme con la libertà comunale, la vera salvaguardia del regime costituzionale. Imperocchè, se in alcune parti d’Europa gli ordini costituzionali non fecero buona prova, egli è da attribuirsi principalmente a ciò, che il Comune e la Provincia non vi erano bene ordinati né abbastanza liberi; per la qual cosa, trovandosi l’individuo isolato di fronte alla oltrepotenza dello Stato, si corre non solo alla democrazia, ma alla dittatura e al dispotismo.
La costituzione normale della provincia è l’idea capitale del progetto che ho l’onore di sottoporvi . Voi scorgerete pertanto le attribuzioni della provincia aumentate grandemente da quello che sono nelle leggi presenti. La maggior parte delle strade, la difesa dei fiumi minori e dei torrenti, l’istruzione secondaria, la sanità e le terme, le discipline per la conservazione dei boschi e per gli usi agrari; quella parte di beneficenza che non è comunale né di amministrazione privata, gli ospizi per gli esposti e pei maniaci, la conservazione dei monumenti viene ad essa assegnata. Le è attribuito insomma quanto era possibile di dare a quella aggregazione.
Oltre a ciò la provincia avrà una amministrazione sua propria e totalmente indipendente, cosicché al prefetto, che oggi è il presidente nato nella deputazione provinciale, verrebbe tolta ogni ingerenza nella trattazione degli affari.


Solo rimarrebbe ad esso la superiore vigilanza, la quale non credo che mai in alcuno Stato bene ordinato debba venir meno. E questa vigilanza versa intorno a due punti: il primo è che le leggi siano osservate e nella sostanza e nella forma, e che comuni e provincie siano mantenuti nel limite delle loro competenze; l’altro punto riguarda quegli atti dei comuni e delle provincie che vincolino l’avvenire. E in questo caso ancora la vigilanza dee essere governativa, imperocchè chi rappresenta veramente la società tutta intera e le generazioni future, chi ha diritto d’impedire che le parti non ledano gl’interessi del tutto, si è lo Stato. Spetta dunque al Governo l’approvazione di questi atti; negli altri il comune e la provincia rimangono pienamente liberi della loro amministrazione.
Tale è il concetto dell’organizzazione comunale e provinciale. Ma, procedendo più oltre nell’esame del discentramento amministrativo, io chiedeva a me stesso se non fosse possibile di dare ancora altre facoltà all’iniziativa e all’azione dei privati e delle associazioni; e spontaneo mi veniva il concetto dei consorzi, i quali esistono in Italia ab antico, talvolta con regole fisse, più spesso con norme consuetudinarie; ma pure esistono e provveggono a molti interessi rilevanti, specialmente in materia di acque e strade. Ora io pensava: non potrebbero i consorzi ravvivarsi, retti da nuove leggi e ben accomodate, svolgersi ed estendersi ancora a maggiori uffici?… Perché, per esempio, certi istituti ai quali un comune o una provincia non basterebbero da sé soli, non potrebbero essere affidati a consorzi o facoltativi od obbligatorii?
E procedendo ancora in siffatto ordine d’idee, ed esaminando tutto ciò che, senza detrimento dell’unità politica dello Stato, si possa accordare di libertà amministrativa, perché, io diceva, l’istruzione superiore, perché le strade, che sono ora nazionali, non potrebbero anch’esse affidarsi ad un consorzio permanente di provincie aventi interessi comuni?
Di qui, o signori, nasceva l’idea di regione, la quale, secondo il mio concetto, è un consorzio permanente di provincie, il quale provvede alla istruzione superiore, alle accademie di belle arti, agli archivi storici, e provvede inoltre a quei lavori pubblici che non sono essenzialmente retti dallo Stato, né sono proprii dei consorzi facoltativi, o delle singole provincie.
Prima di giudicare di questa istituzione, io vi prego, onorevoli signori, a volerla esaminare nella sua essenza, ne’ suoi effetti, nei suoi rapporti con le altre istituzioni dello Stato; vi prego a voler dare ad essa il suo giusto valore, né più, né meno di ciò che le compete. Io sono certo allora che troverà presso di voi, se non immediata approvazione, certo benigno accoglimento. Quanto a me, io sono convinto che il discentramento amministrativo, nel senso liberale di accordare le massime franchigie ai comuni, alle province ed alle associazioni loro, sia di tal forma portato al più alto suo grado; e in pari tempo che non sia punto messa a repentaglio quell’unità politica che tutti propugniamo e vogliamo ad ogni costo conservare e difendere.
La seconda parte del discentramento ha luogo, come io diceva, per delegazione dell’autorità governativa.
Il prefetto è il rappresentante del Governo nelle provincie.
Pertanto, secondo il pensiero che io esposi da prima, propongo di dargli estese facoltà, per le quali la maggior parte degli affari abbiano da lui esito prossimo e spedito. Molti atti la cui definizione finora spetta al Ministero, molti che richiedono perfino decreti reali, voi li troverete semplificati nello schema di leggi che vi presento, per modo che essi, come hanno cominciamento, così possano aver termine nel breve giro della provincia stessa.
Ma, avendo io ammesso sulla norma delle leggi toscane il principio equo e liberale dei ricorsi, sorge spontanea una domanda: a chi si appella in caso di ricorso? Né ciò solo; ma vi sono alcune materie le quali interessano più provincie e dove il prefetto non sarebbe giudice competente: a chi la direzione di queste materie? Finalmente io credo che, se la parte regolamentare per l’applicazione delle leggi può togliersi senza pericolo al governo centrale, non può lasciarsi in balia di ogni singola provincia, senza creare troppa disformità, e direi quasi, una moltiplicità di giurisprudenze amministrative: come conciliare pertanto queste difficoltà? A chi attribuire l’approvazione dei regolamenti?
Ora, poiché abbiamo costituito un consorzio di provincie, e ne abbiam formato una regione, perché non potrebbe in quella risiedere un’autorità governativa, alla quale i ricorsi fossero portati contro il prefetto, che decidesse delle questioni che hanno attinenza con più provincie, che approvasse i regolamenti di esse, che avendo, direi così, il pensiero del ministro, esercitasse in quelle provincie collegate una comune vigilanza?
Il governatore sarebbe, secondo questo concetto, il rappresentante dell’autorità centrale nella regione, e in lui si compirebbe il massimo discentramento amministrativo per via di delegazione.
Se non che, o signori, male si apporrebbe chi credesse che il governatore, con le attribuzioni che ho indicate, detraesse alcuna cosa alla dignità e agli uffici del prefetto.
Parmi di aver già dichiarato che al prefetto sono date assai più facoltà di quelle che abbiano oggi gl’intendenti generali e i governatori, anzi tutte quelle che sono compatibili con la sua posizione. Similmente male si apporrebbe chi credesse che la regione detraesse alla provincia, e che le città
minori, che ne sono il capoluogo, potessero ragionevolmente muovere querela di dover rivolgersi ad un’altra città che non sia la capitale. Imperocchè non sarebbe già questo un togliere a loro nè la libertà di azione, né la facoltà di por fine a quanti affari si possano entro la cerchia del comune e della provincia; sarebbe solo un risparmiare loro i più lunghi e difficili rapporti col governo centrale, trasportandone l’azione in luogo più prossimo, e mettendola quasi alla portata di ciascheduno.
Ma poniamo che in un ordinamento stabile e definitivo d’Italia, compite tutte le vie di comunicazione, unificate le leggi e le abitudini, possa togliersi questa istituzione intermedia fra il governo centrale ed il provinciale. Io credo nondimeno che, considerata come espediente temporaneo, considerata come mezzo di transizione e di trapasso all’unità amministrativa, dalla condizione di paesi che furono soggetti finora a legislazioni, ad ordini ed abitudini diverse, tale istituzione non solo può essere di grande utilità, ma può divenire, in alcuni casi, una vera necessità. O si consideri adunque come uno stato di cose transitorio, o come una prova che la renda duratura, io spero che la Camera vorrà accogliere questa proposta con benevolenza.
Giunto a questo punto, io credo che, per farsi un concetto del lavoro che sono venuto delineando, il modo più semplice sia quello di prendere il bilancio dello Stato, ed esaminando le categorie che sono attribuite ai vari Ministeri, scernere quello che abbiamo loro tolto: quel che abbiamo loro lasciato. Al Ministero dell’interno abbiamo tolta la maggior parte delle sue categorie, tutto ciò che risguarda sanità, teatri, esposti, manicomi, opere pie, boschi, agricoltura. Al Ministero dell’istruzione pubblica abbiamo tolta l’istruzione inferiore data ai comuni, l’istruzione secondaria data alle provincie, l’istruzione superiore data alle regioni. Al Ministero dei lavori pubblici abbiamo tolta tutta la materia delle acque e delle strade.
Che rimane al Ministero dell’interno?
Rimane la categoria degli uffici governativi sì del centro che delle provincie, rimangono la sicurezza pubblica e gli agenti di quella, e le carceri giudiziarie. Io ho pensato lungamente, o signori, se anche questi due servizi avessero potuto discentrarsi, ma sono convinto che, nello stato attuale dell’Italia e nelle condizioni dell’opinione pubblica, essi debbano rimanere una prerogativa del governo centrale.
Che cosa rimane all’istruzione? Rimane la vigilanza e l’indirizzo per l’andamento migliore degli studi.
Che cosa rimane ai lavori pubblici? Rimangono le ferrovie, le poste, i telegrafi, la cura dei porti e delle spiaggie; cose tutte le quali interessano l’intiera nazione.
I bilanci degli altri Ministeri rimangono tutti a carico dello Stato. Gli ordini giudiziarii non possono non essere unificati.
Le leggi, o signori, tendono ad assimilarsi in tutta Europa ed in Italia sono sostanzialmente più unificate che non paia, perché quasi tutte le legislazioni vigenti prendono inizio dal Codice Napoleone, il quale è un’emanazione esso medesimo dell’antica legislazione romana. Io concedo che dalle leggi vigenti in Italia sorgerà un Codice nuovo che sarà diverso da quelle e ne riunirà il meglio; ma, qual che esso si sia, sarà uno per tutta la penisola.
Similmente io non potrei ammettere che si turbasse l’unità
nel sistema delle finanze. Consento di buon grado che, attesi gli ordini diversi che sono in pratica nelle varie parti del regno, sia necessario il ricorrere ad espedienti, a metodi transitorii, onde facilitare il trapasso dagli antichi sistemi al nuovo; consento si debba avere riguardo agli interessi creati ed alle antiche abitudini; ma sostengo parimenti che si debba pervenire, nel più breve termine possibile, all’unità nel sistema delle imposte. Imperocchè io credo che il modo d’imposizione abbia un immenso influsso, non solo sullo svolgimento della ricchezza, ma eziandio, in genere, su tutte le condizioni sociali; ed anzi oserei dire che, se alcuno mi presentasse un bilancio senza dirmi di qual nazione esso fosse, saprei, dalle qualità delle tasse che vi sono stabilite, argomentare quali sono le istituzioni politiche, quali sono le leggi civili che reggono quel paese.
Non parlerò dell’indirizzo politico, né degli affari esteri, né della guerra, né della marina; in tali cose una direzione unica è assolutamente e rigorosamente necessaria; qualunque discentramento sarebbe funesto, qualunque concessione fatta alla vita locale potrebbe mettere a repentaglio l’unità della Nazione.
Dopo avere, o signori, esposto l’ordine col quale le mie idee si sono venute svolgendo, mi rimane a trattare, se non abuso della vostra pazienza, del metodo che ho seguito nella proposta delle leggi . Prima però chiederei un momento di riposo.
(La seduta è sospesa per alcuni minuti).
Ora dirò, o signori, del metodo col quale queste leggi le une alle altre si susseguono.
Ma prima di tutto parvemi che alcune notizie di fatto potessero essere utili all’esame e alla discussione di queste leggi, e quindi procurai che fossero compilate due tavole.
L’una è la statistica della popolazione con la repartizione territoriale presente del regno; l’altra è un prospetto comparativo di tutte le leggi ora vigenti, o che recentemente vigevano, e che riguardano il Ministero che io ho l’onore di reggere. Queste due tavole saranno rimesse a voi, signori, come notizia di fatto, sulla quale potrete fondare il vostro esame.
Ciò premesso, la prima legge che ho l’onore di proporvi è quella sul reparto territoriale e sulle autorità governative. Il regno Italico e quello di Napoli ebbero due leggi distinte in questa materia, mentre nelle altre parti d’Italia il reparto territoriale e la gerarchia delle autorità governative sono determinati nella legge provinciale e comunale.
Io ho creduto di seguire il primo esempio e di fare di quelle materie una legge speciale.
Troverete qui adunque le attribuzioni dei governatori e quelle dei prefetti chiaramente divisate. E qui mi è d’uopo annunciarvi che fra le varie riforme che avrò l’onore di proporre al Parlamento essendo quella dell’abolizione del contenzioso amministrativo, poteva parere, a prima giunta, logico togliere il Consiglio di prefettura. Ma considerando all’utilità che può derivare in certi casi dalle decisioni collegiali; considerando che i consiglieri di prefettura possono utilmente giovare il prefetto nelle molte sue attribuzioni, ed insieme essere i capi dei vari servigi pubblici, mi risolsi a mantenere nella proposta i Consigli di prefettura.
Bensì avrei voluta l’abolizione del circondario, siccome circoscrizione la quale, se nella parte rappresentativa è dimostrato essere d’impaccio o almeno superflua, non lo è meno nella parte governativa. Ma mi sovenne che in alcune parti del regno i distretti che compongono una provincia non sono ancora collegati fra loro da vie ferrate, e talvolta neppure da comode strade comuni, e mi sovvenne ancora che certe popolazioni hanno grandemente in pregio di avere un rappresentante del Governo in alcuni centri secondari di popolazione, e per ciò mi risolsi a mantenere il viceprefetto; ma tolsi da esso le attribuzioni che gli danno autorità propria amministrativa; e seguii invece l’indole delle leggi napolitane, le quali dànno al sotto-prefetto solo un’autorità delegata dal prefetto, per vigilare ed accelerare l’esecuzione de’ suoi ordini.
Quanto agli uffici, stimai dover introdurre quella partizione, che era già in uso nella Lombardia e che mi sembra logica ed atta al buon servizio pubblico, voglio dire la partizione degl’impiegati di concetto da quelli d’ordine. Con che non è esclusa la carriera superiore, come nelle leggi sarde è stabilito, la quale richiede più ampie cognizioni, ed è, per così dire, il vivaio degli alti funzionari governativi.
La seconda legge è quella dell’ordinamento comunale e provinciale. Io non m’intratterrò su di essa avendo già dato alcuni cenni delle idee principali che la informano; inoltre ne parla lungamente la relazione che l’accompagna; accennerò solo che essa è al tutto indipendente dalla costituzione delle regioni.
La terza legge è quella sui consorzi.
Questa legge è nuova, e non ha il suo riscontro in nessun’altra legislazione d’Europa. Come già accennai, esistono i consorzi, e trovano regole a loro stabilite in varie leggi speciali; ma una legge, la quale riunisse insieme queste regole, determinasse le norme per costituirli, i casi nei quali fossero o no facoltativi, i loro diritti e i loro obblighi, il modo di loro amministrazione, e ciò facesse in forma così liberale da favoreggiarne lo svolgimento e la moltiplicazione, questa legge non esisteva ancora, signori, ed io mi compiaccio di presentarne una alle vostre discussioni.
La quarta legge è quella dell’amministrazione regionale.
Dissi che, a mio avviso, la regione è un consorzio obbligatorio di provincie. Ora, se il consorzio è un ente morale, anche la regione dovrà essere un ente morale; se il consorzio ha una rappresentanza, anche la regione dovrà avere una rappresentanza delegata dai suoi mandanti, cioè dalle provincie che la compongono. Se non che nell’amministrazione regionale stimai bene di adottare il principio che ora prevale nell’organizzazione provinciale, tanto nelle antiche leggi napoletane e sarde, quanto nelle leggi francesi, il principio cioè di dare la potestà esecutiva ai rappresentanti del Governo; laonde se le deliberazioni relative ai lavori e agli istituti regionali appartengono alla Commissione, il mettere in atto siffatte deliberazioni appartiene al governatore.
Così stimai d’ovviare a tutte le apprensioni che la formazione di Commissioni regionali potesse mai in nessuna guisa suscitare negli animi; quelle dico di rinnovare piccoli Stati e piccoli Parlamenti . Imperocchè quando le materie di loro competenza sono precisamente definite e limitate; quando la rappresentanza che ne delibera non è una rappresentanza diretta, ma di secondo grado e delegata; quando l’esecuzione delle deliberazioni è data al potere governativo;
quando sono ancora aggiunte altre cautele che troverete nella legge medesima, io non ho alcun dubbio che i pericoli che da alcuni si temono possano mai verificarsi.
Finalmente, ammettendo il consorzio delle provincie in regioni, non intendo d’escludere il concorso governativo ad alcune opere le quali naturalmente ad esse apparterrebbero.
Vi hanno delle provincie le quali o per malignità dei Governi passati, o per infelicità di fortuna, o per difetto di naturale ricchezza si trovano in una condizione troppo manifesta di inferiorità verso le altre. Ora io credo, che non sarebbe equo il lasciare intieramente a loro carico certi lavori ed instituti, prima che lo Stato le abbia, direi quasi, collocate in un grado simigliante a quello delle altre regioni sorelle.
Io credo che in generale lo Stato debba lasciare il più che sia possibile alla iniziativa dei privati, dei comuni, delle provincie e delle associazioni; credo che il proprio e perenne suo ufficio sia il mantenimento della giustizia e la tutela dei diritti; ma credo ancora che in certi tempi ed in certe opere esso abbia un dovere d’integrazione; che a lui spetti di compiere, di supplire, a quelle parti nelle quali i comuni, le provincie e le regioni per sé sole non bastassero.
Questa è la quarta delle leggi che io vi annunziava. Anch’essa, come vedete, fa parte di un tutto, ed io la raccomando vivamente alla vostra disamina: pure non può dirsi così necessaria e collegata alle altre, che dal non ammetterla pericolasse il generale sistema.
Quanto al modo di compilare le leggi predette, io ebbi sempre nell’animo due pensieri: l’uno fu quello di fare leggi che fossero nella forma più generale, e più breve possibile;
l’altro di scegliere il meglio in tutte le legislazioni esistenti presentemente in Italia e anche fuori.
La prima legge, come vedrete, è di pochi articoli; non può esser tale quella dei comuni e delle provincie, tanto più in un governo costituzionale, dove all’arbitrio non si deve lasciare cosa alcuna, ma si debbono determinare i limiti delle rispettive facoltà. Però, fatta questa avvertenza, la legge comunale e provinciale è di gran lunga inferiore, per numero di articoli, a quella che oggi vige nella maggior parte del regno. La terza e la quarta sono pur esse, come vedrete, leggi brevi di mole, e, se io non m’inganno, chiare abbastanza per poter essere discusse con facilità.
Quanto ai punti speciali, nei quali io diceva di aver seguito piuttosto l’ una legge che l’altra, sarebbe troppo lungo il discorrerne, e ne vedrete alcun cenno nelle relazioni.
Certo, ciò che si riferisce a guarentigie liberali non poteva togliersi d’altronde fuorché dalla legge sarda, perché qui soltanto era la libertà; ma in quanto a tutte le altre parti sì
dell’ordinamento regionale che dell’ordinamento comunale e provinciale io mi studiai, lo ripeto, di raccogliere dalle varie legislazioni vigenti in Italia il meglio che mi poteva tornare dinanzi alla mente.
A compiere questo disegno, altre quattro leggi mi rimangono da presentarvi: l’una sulle opere pie, la quale già
ebbi l’onore di proporre al Senato; la seconda quella sulla sicurezza pubblica, parendomi urgente e necessario coordinare questo ramo importantissimo del servizio pubblico coi principii che hanno prevalso nelle altre leggi, delle quali finora vi ho tenuto parola. La terza sul contenzioso amministrativo; imperocchè, trattandosi di abolire una istituzione, la quale è vigente in molte parti della penisola, occorre in pari tempo dare la regola pei giudizi di quelle materie, e stabilire i modi del trapasso . Finalmente la legge sulle pensioni e sul passaggio degli impiegati da governativi a provinciali o regionali. Egli è naturale che dando ampie attribuzioni alle provincie od alle regioni, e togliendole allo Stato, una parte di quegli impiegati che finora erano governativi debbano passare al servigio di questi corpi morali; né la loro sorte può essere abbandonata, ma deve al contrario con gran cura regolarsi secondo le norme della giustizia e della equità.
Io non dirò che con queste leggi sia compiuto tutto l’ordinamento amministrativo: altre leggi speciali occorreranno su
varie materie; ma esse non sono urgenti, né rigorosamente richieste dall’unità del sistema.
Bensì rimarrà da stabilire quella dell’Amministrazione centrale e quella del Consiglio di Stato; ma è egli evidente che queste dipenderanno dal risultato delle deliberazioni che il Parlamento avrà preso sulle proposte leggi, imperocchè non sono la base, ma il fastigio dell’edifizio.
Quando io proposi, o signori, alla Commissione presso il Consiglio di Stato le principali idee che son venuto svolgendo, ed invocai sovra di esse la pubblica discussione, io mi sentii accusato d’avere in alcuni punti mostrata una cotale esitazione. La grandezza dell’opera, la pochezza delle mie forze, la brevità del tempo concesso ne erano naturale cagione. Laonde, lungi di accogliere quest’accusa come un biasimo, io la riguardai come un argomento d’onore, e mi parve che bene acconcie tornassero quelle parole del poeta:

Ma chi pensasse al ponderoso tema
E all’omero mortal che se ne carca,
Nol biasmerebbe se sott’esso trema.

Noi, o signori, siamo tutti concordi sovra due punti, se mi è lecito dir così, negativi. Non vogliamo la centralità
francese. Per quanto siano grandi i pregi della centralità, per quanto utili risultamenti abbia dato nella Francia ed altrove, per quanto vi sia oggi in Europa incontrastabilmente una tendenza verso di essa; nondimeno tali sono gli inconvenienti che generalmente seco adduce, e che recherebbe più specialmente in Italia, che io credo sia opinione comune in questa Camera e fuori che noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema. Dall’altra parte non vogliamo neppure un’indipendenza amministrativa come quella degli Stati Uniti dell’America, o come quella della Svizzera; anche in ciò io credo che nessuno oserebbe di discentrare la amministrazione a tal grado che può mettere a repentaglio l’unità politica e civile. Ma fra questi due punti estremi l’intervallo è grandissimo; e possono esservi molti e varii sistemi, dei quali taluni pendano più verso questa che verso quella parte. Ora chi sa dirmi quale è il punto nel quale precisamente deve fermarsi e costituirsi il sistema necessario alle condizioni presenti e future dell’Italia?
Questo, o signori, uscirà dai vostri studi, uscirà dalle discussioni del Parlamento: la affermarlo a priori sarebbe sembrato a me grande presunzione e temerità.
E questo sentimento non fu solo mio proprio, ma eziandio dei miei colleghi, e non solo esercitò un influsso rispetto alle decisioni del Ministero, ma deve esercitarlo eziandio sulla Camera.
Il Ministero, al quale io svolsi lungamente prima che a voi le mie idee, fu unanime nell’accettarle; ma nello stesso tempo riconobbe che non si doveva, nella massima parte dei casi, farne quella che chiamasi una questione ministeriale; imperocchè le questioni ministeriali allora soltanto sono legittime, quando si tratta dell’indirizzo politico dello Stato, o quando il convincimento sopra un dato tema non solo è formulato e preciso, ma immutabile.
Questi sentimenti avranno influsso anche sulla Camera, inquantochè renderanno la discussione delle presenti leggi al tutto calma, pacata e fratellevole. Io ho ferma fiducia che, se ciascuno di voi viene a questa discussione disposto a transazioni e concessioni reciproche, breve sarà il tempo che la Camera porrà ad intendersi e deliberare. Il che tornerà di sommo vantaggio, perché veramente urge di dare alle varie parti d’Italia un assetto unico e comune, avvalorato dall’autorità del Parlamento.
Se io avessi temuto che queste proposte potessero essere fomite di passioni politiche, o suscitare comecchessia gare municipali, io avrei preferito, o signori, di lacerarle, e disperdere il frutto dei miei studi. Ma questo dubbio non poteva allignare nel mio cuore, anzi io sono certo che la discussione vostra sarà degna del primo Parlamento italiano.
I nostri nemici, dopo la pace di Villafranca, vollero far credere che l’Italia non avrebbe saputo mantenere l’ordine interno, ma che necessariamente sarebbe stata travolta nell’anarchia. I popoli dell’Italia centrale mostrarono che, in mezzo alle rivoluzioni, sapevano mantener salvo ed intemerato l’ordine pubblico da qualunque violenza e verso qualunque seduzione.
I nostri nemici sostennero che la Toscana, Napoli e Sicilia non avrebbero mai voluto riunirsi ai popoli che abitano la valle del Po; ma la Toscana e Napoli e la Sicilia risposero con voti unanimi di voler fare l’Italia Una sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele.
Ora l’ultima accusa dei nostri nemici ci sta ancora sul capo; essi dicono che più facile è il distruggere, che l’edificare; che l’opera più ardua consiste nell’organizzazione di questo regno, e che nell’attuarla rinasceranno le dissenzioni, i contrasti, che per tanti secoli funestarono l’Italia; che ivi sarà disperso quello che con tanta fatica abbiamo acquistato.
Ora, o signori, voi proverete all’Europa che anche questa volta essi s’ingannano. Come il popolo italiano ha saputo mostrare un mirabile senso politico in ogni circostanza, così voi mostrerete che si rinnova nel Parlamento il senno che fece gloriosi i nostri padri, quando furono Legislatori del mondo. (Applausi prolungati nella Camera e dalle gallerie).

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