Lettera di Mazzini a Napoleone

Lettera di Mazzini a Napoleone presidente della Repubblica francese

A LUIGI NAPOLEONE, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESE.

“Jusqu’à présent, je né suis qu’un simple volontaire; mais….. je me meltrai avec satisfaction sous vos ordres, si vous me jugez utile à la cause sacrée que j’embrasse avec ardeur, et à laquelle je rève depuis dix ans, – (Napoléon, Lettre au gén. Sércognani. Terni, 28 lévrier 1831.)
Moi aussi, banni de ma patrie, je gémis souvent sur la loi d’exil qui frappe ma famille; mais cependant, lorsqu’on voit qu’aujourd’hui lout ce qui a l’amenoble est chassé de la terre na tale cu persécuté par le pouvoir, alors on est fier d’elre dans les rangs des opprimés et des proscrits. – (Napoléon Louis C. Bona parte. Adresse aux réfugiés Polonais. Arnenberg, 17 aoûl 1833.)
Nos armes ont renversé à Rome cette démagogie turbulente qui, dans loute la Péninsule italienne, avail compromis la cause de la vraie liberté, et nos braves soldats ont eu l’insigne bonneur
de reineltre Pie IX sur le trône de St. – Pierre.” – (Message du Président de la République. 12 novembre 1850.)

SIGNORE.
Quando vostro fratello scriveva da Terni le parole che stanno in capo al mio scritto, voi eravate al suo fianco. La causa sacra per la quale egli e voi eravate presti a combattere, era la stessa ch’oggi chiamate demagogia. Il governo agli ordini del quale voi ambivate sottomettervi era, come il nostro, governo d’insurrezione; decretava, come il nostro, l’abolizione del potere temporale del Papa. Non sorse in voi un ricordo di quei giorni, mentre scrivevate le linee calunniatrici di Roma nel vostro Messaggio? Non vedeste levarsi, come un rimorso, la pallida faccia del fratello vostro tra voi e quella bandiera di popolo sotto la quale voi militavate vent’anni ad dietro, sémplice volontario, con lui e alla quale oggi voi, Presidente di Francia, insultate? Io era allora prigione in una fortezza, in Savona dove un papa fu confinato da vostro zio; e giurava a me stesso che né terrore di persecuzione né seduzione d’egoismo m’avrebbero sviato mai d’un sol passo dalla bandiera che voi pure abbracciavate con ardore. Ho speso intorno a quella promessa le forze, le gioie e le speranze individuali della mia vita; ma posso guardare con occhio sicuro attraverso quei vent’anni passati senza che un solo ricordo venga a cozzare coll’oggi, senza che una sola immagine di congiunto o d’amico si levi a dirmi: tu hai falsato il giuramento dell’anima tua; lo hai travolto nel fango e calpestato con orma violenta il Dio de’ tuoi anni più puri!
E quando nel 1833, sopra una terra repubblicana, confortavate l’esiglio col nobile orgoglio d’aver compagni i migliori di tutte contrade perseguitati dai loro governi, voi stringevate una seconda volta il patto di fratellanza cogli uomini ai quali oggi il vostro Messaggio vorrebbe porre in fronte il marchio di demagoghi. Repubblicani erano e chiamati demagoghi dai loro oppressori i cinquecento Polaccchi ai quali voi mandavate le amiche parole: repubblicani e ribelli al Papa gli esuli d’Italia ch’erra vano tra le valli svizzere, adocchiati, com’oggi dalle vostre, dalle spie di Luigi Filippo.
Non ripensate al vostro linguaggio di diciassette anni addietro, mentre osavate chiamare libertà vera quella di ch’oggi godono, mercé vostra, gli abitanti delle terre Romane?
Non vi sentiste il rossore salire alla fronte mentre dicevate onore cospicuo l’atto che condannò all’esiglio migliaia d’uomini salutati dal loro popolo liberatori? Io era, quando voi parlavate in Arnenberg, tra quei proscritti nelle cui file eravate allora altero di connumerarvi; ed anch’oggi son tale e perseguitato, come i miei fratelli di Polonia e Germania, di note confidenziali dai vostri satelliti interpreti del Messaggio.
Ma posso levar sérena la fronle davanti agli uomini senza temere che un solo de’ miei antichi compagni d’esilio mi dica: tu hai tradito il patto stretto nella sventura; tu hai aggiunto il tuo al nome dei proscrittori.
In nome degli esuli di Roma e di tutta Italia, io vi ringrazio, Signore, delle parole scritte su noi nel vostro Messaggio. Per esse noi séntiamo insuperbirci, conforto su
premo, nell’anima la coscienza di combattere per una causa che non ci costringe a contradirci e a mentire. La nostra parola d’oggi è quella dei primi giorni della nostra carriera politica: voi date forzatamente una mentita a vent’anni della vostra vita.
Noi, militi della fede repubblicana, non invochiamo a vincere sé non il libero suffragio del popolo: voi, amministratore d’una repubblica, mutilate il suffragio in patria, lo cancellate coll’armi al di fuori. Noi a mantenere il nostro governo in Roma non avevamo bisogno d’esilii, di proscrizioni, ma d’una bandiera e e d’un grido al popolo, perché in nome di Dio la proteggesse siccome sua: voi a mantenere in Roma il governo che affermale voluto dalla maggioranza, dichiarale aver bisogno che si pro lunghi il soggiorno dell’armi francesi; a mantenerlo in Francia, avete bisogno di continue destituzioni, di numerosi imprigionamenti, di sciogliere in cento località le milizie cittadine, di’ perpetuare in più dipartimenti lo stato d’assedio, d’introdurre limitazioni alla stampa, alle associazioni, alla universale rappresentanza. Noi ristampiamo le sédute della vostra Assemblea, le parole del vostro Messaggio: voi ponete per quanto è in voi divieto sulle nostre difese; la vostra polizia contende la frontiera all’Italia del Popolo; la vostra Assemblea non osa leggere le nostre proteste. Noi accusiamo: voi calunniale. Giudichino gli uomini onesti d’Europa da qual parte stia: il Vero e la coscienza del Dritto. Giudichino dove stia la fazione, Alle parole del vostro Messaggio, il Comitato Nazionale ITALIANO ha contrapposto la protesta che precede queste mie pagine. La vostra maggioranza, Signore, ha cercato.
soffocarla taceodone: Dai popoli ai quali voi tenete la spada di Brenno alla gola, essa non accetta che petizioni. I sélvaggi delle foreste d’America sospendevano le torture per rispettare nel prigioniere il diritto di conchiudere il suo inno di morte, e d’oltraggio ai tormentatori: i vostri non hanno il coraggio di dire: lasciamo passare il grido delle nostre vittime. Essi votano la rovina d’un popolo nel silenzio: la mort sans phrases.
E nondimeno, voi non soffocherete quel grido, Signore. Finché rimarrà un’angolo dell’Europa capace di contenere una stamperia pubblica o ségreta – finché vivrà un’uomo, sorte d’amore e di sdegno, incapace di dimenticare, perché caduta, la patria e incapace di tacere la verità all’oppressore, perché potente quel grido sorgerà a turbare i vostri sonni presidenziali. Quell’angolo di terreno esiste ancora, Signore; e quell’uomo anch’egli: io oggi, un’altro qualunque de’ miei compagni domani. Io v’ ho promesso che evocherei di tempo in tempo lo spettro di Roma a ricordarvi, a ricordare alla Francia, il delitto che fu commesso e tuttavia dura e manterrò la parola. I nostri padri credevano che, ridesto al passo dell’assassino, l’assassinato sporgesse fuor del terreno rigida e sanguinosa la mano per accusarlo agli uomini e a Dio. Io sarò per voi, pei vostri, quella mano, Signore. Scriverò Roma sulla punta delle mie cinque dita, e le solleverò a dirvi: voi avete sull’anima l’assassinio d’ un popolo amico, d’un popolo che amava la Francia, d’un popolo pel quale voi, convinto che la sua causa era sacra, volevate combattere vent’anni addietro.
Ed è sacra, Signore: sacra pei luoghi, che furono culla d’incivilmento all’Europa; sacra per le memorie dell’antica libertà repubblicana che costituiscono per noi tradizione di quello ch’è per altri popoli recente e combattuta conquista: sacra pei caratteri del nostro progresso che non esci mai dall’elemento monarchico o aristocratico, ma sémpre, per virtù provvidenziale, dall’iniziativa del popolo: sacra per oltre a tre sécoli di patimenti durati sotto occupatori stranieri e papi corrotti e corrompi lori e principi inetti o tiranni e caste sacerdotali intolleranti, cupide, avverse a ogni libertà di pensiero, senza che siasi spenta la potente scintilla di vita animatrice della nostra razza: sacra per la lunga série di martiri che in ogni angolo d’Italia hanno ségnato la fede col sangue: sacra per l’indomita, instancabile costanza dei tentativi:
sacra per la clemenza usata nella vittoria, per l’assenza di dottrine ingiustamente sovvertitrici, per la concordia di tutti i cittadini in un solo volere: sacra per Roma e per gli eroici fatti di Milano, di Venezia, di Brescia, di Bologna e della Sicilia: sacra per la Francia ségnatamente, alla quale noi diemmo largo tributo del nostro sangue e dalla quale avemmo sémpre promesse, tradite sémpre e fatali; poi, per opera vostra, Signore, quasi compenso alle migliaia di vite italiane spese per accrescere onore alla bandiera di vostro zio, il sagrificio d’alcune migliaia di soldati francesi caduti nell’impresa di spegnere il primo alito della nostra libertà nascente!
Voi avete, Signore, sagrificato quei soldati di Francia, falsato le vostre promesse, tradito l’obbligo che v’imponeva la Costituzione, assalito chi non v’ offendeva, rovesciato un governo pacifico, messo la bandiera francese allato di quella dell’Austria e dell’oppressore di Napoli, ucciso il fiore de’ nostri giovani ufficiali colle vostre palle coniche, dato per bersaglio ai vostri cacciatori d’Africa le camiciuole rosse ch’essi, i nostri, avevano valorosamente indossato quasi a dirvi: eccoci, e condannato migliaia di famiglie alla miseria, alla persecuzione, al lamento su’ spenti e sugli esuli, per rovesciare — son parole del vostro Messaggio quella irrequieta demagogia che in tutta la penisola italiana aveva posta a pericolo la causa della vera libertà. Aveva! La causa della vera libertà è dunque salva oggi in Italia. Le vostre armi rovesciarono il solo ostacolo che s’attraversava. E lasciando da banda il dominio Austriaco, dimenticando Napoli e la Sicilia, le leggi organiche pubblicate o da pubblicarsi dal Papa costituiscono libertà vera. La repubblica è per voi dunque sinonimo di demagogia. E la storia dei tempi registrerà che un’assemblea repubblicana udiva con approvazione quelle vostre parole. Ma io non debbo discuter con voi di repubblica o monarchia. Il buon sénso ha insegnato e insegnerà più sémpre alla mia nazione che libertà non può esistere per essa sé non fondata sulla repubblica e che il grido di Roma ha in sé l’avvenire Italiano. Pur noi non imponemmo repubblica; l’avemmo, lieti e plaudenti, dal popolo, da una Assemblea Costituente. Libertà vera per noi fu allora ed è tuttavia quella ch’esce ordinata dal libero suffragio della nazione. perché non la interrogate? Una irrequiela audace fazione toglieva allora séppo e libertà di giudizio al popolo? Ma quella fazione oggi è spenta o lontana. Io vi scrivo dall’esiglio.
L’esiglio, la prigione o la sépoltura hanno tutti i miei compagni. perché non restituite al popolo il libero volo? perché, dopo diciotto mesi, siete costretto a conchiudere le vostre parole dichiarando che il soggiorno del vostro esercito è tuttavia nécessario al mantenimento dell’ordine in Roma?
Voi potete, Signore, ravvolgervi a vostro séndo di menzogna e sofismi: potete trovare un’assemblea repubblicana che applauda per breve tempo alle vostre parole; ma il giudizio dell’Europa stà irrevocabilmente per noi. Tra noi e voi la contesa è ridotta a a termini troppo sémplici per ammetter dubbio. Il principio repubblicano è sancito per noi dal decreto non rivocato dalla nostra Assemblea: vive nel dritto, le gittimo per lo meno quanto il vostro governo; e noi possiamo chiedere alla Francia e all’Europa di restituirci Roma qual era prima del luglio 1849. E nondimeno stiam paghi a chiedervi — tanto siam certi dell’animo delle moltitudini – di rifare onesta mente la prova. Noi siamo più assai potenti di voi, Signore. A voi, perché trionfi la libertà vera, bisogna un’ esercito; a noi basta un’urna. Noi vi cacciamoa guanto di sfida ciò che gli agenti vostri promettevano prima della vittoria: sgombrale e Ren DETECI IL Voto; e voi non osate raccoglier quel ganto!
lo ho già confutato vittoriosamente altrove l’obbliqua accusa data ai repubblicani d’Italia d’aver posto a pericolo, per soverchia esigenza, non la libertà che i principi non pensavano a dare: ma la causa dell’indipendenza che molti sognavano – e si, pentono amaramente del sogno – potersi dividere dalla causa della libertà. Cessato il clamore d’upa stampa comprata dai nostri padroni, i documenti hanno provato che i i repubblicani, convinti che né da un papa, né da un principe, né da un’accordo fra principi potea venir salute all’Italia, cessero nondimeno al voto della maggioranza del paese che inchinava all’esperimento; tacquero, non rinegarono, le loro dottrine, e s’astennero da ogni maneggio politico negli anni 1846 e 47: – che nel 1848, insorta l’Italia a scacciar lo straniero, accettarono il programma proposto dal principato « che solamente finita la guerra, il paese fosse chiamato a a decretare i propri fati politici » e non s’occuparono che di guerra:
che, violato dalla parte regia il programma, essi protestarono virilmente ma aborrirono dall’armi civili e non tentarono resistenza:
che perduta per ignoranza, per rifiuto degli aiuti popolari e per tradimento la guerra, rinnegata da principi e papa la causa della Nazione, essi raccolsero il vessillo abbandonato e lo innalzarono in nome di Dio e e del Popolo sulle mura di Venezia e di Roma a riconquistare, sé non la vittoria, l’onore d’Italia contro gli Austriaci e contro l’armi vostre, Signore: – che riescirono a riconquistarlo. Ma dacché tra voi e me non può essere intelletto comune di libertà, io non debbo dir qui quale concetto né avessero i repubblicani, ma solamente séguirvi sul vostro terreno, e ricordare alla Francia qual sia la libertà vera per voi.
Il 26 aprile 1849, la libertà che voi venivate a a tutelare fra noi era, Signore, la Il nostro scopo libertà fondata sulla sovranità del paese.
dichiarava in un proclama dettato da voi il generale Oudinot – non è quello d’esercitare una influenza che opprima, né D’IMPORVI UN GOVERNO CHE SAREBBE OPPOSTO AL VOSTRO VOTO…. Noi giustificheremo il titolo di fratelli. Noi rispetteremo le vostre persone e i vostri beni…
noi ci porremo di concerto colle AUTORITÀ ESISTENTI, perché la nostra occupazione –
non mova inciampo di sorta alcuna.
Il giorno in cui, caduta Roma, voi scrivevate la lettera a tutti nota all’ufficiale Edgard néy, la libertà che voi promettevale alle popolazioni dello Stato Romano non era più quella del voto; era la libertà che scende come beneficio dall’autorità regia non contrastata, non limitata; e consisteva in un governo fondato e e avviato su norme liberali, in una amministrazione laicale, in una legislazione desunta dal Codice Napo leone, in una ampistia generale o quasi. Era programma meschino, illegale, di con quistatore. E Roma, s’anche la parola vostra avesse potuto ridursi in alto, avrebbe sprezzato dono e donatore ad un tempo. Pure,, la vera libertà di ch’oggi parlate è la libertà forse del vostro sécondo programma?


Quando – e sia sollecito per l’onore della specie umana quel giorno avremo una politica religiosa e la parola del vero suonerà franca e spontanea tra popoli e capi di popoli, gli uomini non vorranno credere che da un Preside di Repubblica potesse escir mai linguaggio così sfacciatamente menzognero come quello del Messaggio, e che un’Assemblea d’eletti dal popolo di Francia l’ascoltasse paziente. Libertà in Roma, Signore! Ma quale? libertà di stampa? d’associazione? di parola? di voto? d’insegnamento? di persona? protetta da milizia cittadina? da rappresentanze inamovibili fuorché dal popolo? perché nel diceste? perché vel chiesero? Fu ignoranza, codardia, in differenza? Fu da parte vostra un’insulto cacciato alla vittima?
La libertà di Roma, Signore – io ricapitolerò cose note per la Francia che dimentica facilmente – la libertà di Roma è lo scioglimento della guardia civica, mantenuto in onta al decreto del 6 luglio che diceva nell’articolo secondo essa sarà IMMEDIATAMENTE riordinata secondo le sue basi primitive: – il divieto d’ogni circolo e d’ogni associazione politica – il sequestro d’ogni arme che lascia l’onesto indifeso dal ladro e dal masnadiere: la soppressione di tutti i giornali dai governativi infuori la Commissione istituita, in onta alle vostre promesse, il 23 agosto 1849 per rintracciare e punire gli attentati commessi contro la Religione e i suoi ministri sotto il governo della Repubblica: – le vessazioni contro i forestieri, le denunzie di locandieri, le condizioni al soggiorno in Roma riordinate dalla notificazione del 31 agosto: le disposizione del 3 settembre colla quale ogni stamperia deve, sotto pena di gravi multe e prigione, consegnare al governo l’elenco preciso e progressivo de’ suoi tipi e de’ suoi – la commissione di censura istituita per tutti gli impiegati della rapubblica, operai: – la destituzione pressochè generale e da sette cento famiglie cacciate nella miseria: la dispersione dell’esercito e l’esilio di quasi tutti gli ufficiali: – la sospensione di lutti i maestri d’ogni categoria pronunziata il 17 ottobre: – il richiamo degli uffici di polizia e nella sbirraglia di tutti gli uomini della reazione e del fecciume dei sicari di Gregorio XVI: – il ristabilimento dell’inquisizione e del vicariato. La libertà di Roma è, Signore, la carta monetala ridotta del 35 per 100 – la tassa di barrera e le multe di bollo portate al decuplo ripristinata mani morte – l’incarimento del sale la restituzione dei beni alle il rinovamento della tassa sul macinato l’aumento del 15 per 100 sulle imposte — la miseria visibilmente crescente in ogni angolo e in ogni ordine dello Stato. La libertà di Roma è un’amnistia che esclude i membri del Governo provvisorio, il triumvirato, i componenti i ministeri, i rappresentanti del popolo, i presidi delle provincie, i capi dei corpi militari, gli amnistiati del 1848 colpevoli d’una parte qualunque alla rivoluzione e ch’ebbe per conse guenza immediata una nuova emigrazione – un motu -proprio che cancellando quello del 1848, riordina il despotismo temperato da una Consulta di Stato eletta dal papa su terne presentate dai consigli provinciali senza intervento dei Comuni, accresciuta di membri nominati a capriccio da lui, e condannata al silenzio sé non quando al governo piace richiederla di consiglio – una istituzione di consigli provinciali i cui membri sono scelti su terne dei municipii del papa purché abbiano età di trenta anni, domicilio da dieci anni nella provincia, beni del valore almeno di séi mila scudi e con dotta religiosa e politica riconosciuta buona, e le riunioni dei quali possono essere sospese o sciolte ad arbitrio governativo poi, una persecuzione d’ogni giorno, d’ogni ora: piene zeppe le carceri nuove, quelle del Castello, del Santo Officio, della Galera di Termini, d’uomini strappati per sospetto alle loro famiglie e lasciati a giacersi fra i ladri e gli accoltellatori senza processo finché piaccia al governo o alla morte di liberarli: i non imprigionati ma invisi per opinione repubblicana additati ai soprusi, agl’insulti, alle ferite dei birri arbitri oggimai dello stato; e conseguenza inevitabile di condizioni siffatte, l’aumento dei delitti, le vie mal sicure, i paesetti di campagna invasi e derubati da malfattori.
Questa, Signore, è la libertà, la libertà vera, di Roma, frutto delle vostre armi e documentata dal Giornale Officiale del Governo per voi restaurato. Cancellate, in nome della Francia, la linea del Messaggio che chiamava l’invasione fatto glorioso e arrossite pel nome che il caso v’ha dato. Il nipote di Napoleone può esser tiranno, ma non dovrebb’esserlo bassamente. Uccidete, finché l’altrui fiacchezza ve lo consente; ma non sollevate il lenzuolo dei morti per le vostre mani a farvene manto di gloria.
Gloria! I pochi vostri adulatori possono, a mercare i guadagni del favore d’un giorno, sussurrarvi quella parola all’orecchio; ma essa v’è contesa per sempre. Da quando i popoli si sono ridesti, gloria e virtù sono sinonimi.
Principe Luigi Napoleone! un nome in oggi è piccola cosa. L’onda collettiva delle moltitudini spinte a nuovi fati da Dio sommerge, salendo, nomi e individui. E non di meno, a voi, giunto per meriti non vostri al potere quando ancora l’onda non ha raggiunto il vertice della piramide e i popoli cacciano, prima d’abbandonarlo per sempre, un guardo di riverenza tradizionale al passato, la storia poneva innanzi una bianca pagina, e voi potevate riempirla. Capo d’una forte e grande nazione, erede d’un nome, ultimo potente in Europa, e ammaestrato dalla sciagura, voi dovevate leggere nelle parole che vostro zio proferiva morente in Sant’Elena, nel grido recente di Parigi e negli insegnamenti dell’esilio, la vostra missione. Voi potevate, compiendola, confondere tra i posteri più remoti su quel nome che v’era’ trasmesso l’aureola delle cento battaglie e la luce pura confortatrice della libertà: Napoleone e Washington. Bastava per questo un affetto di virtù, un pensiero d’amore; e sé l’amore e la virtù non allignavano nell’anima vostra, bastava un savio calcolo dell’intelletto, un guardo che s’addentrasse nel passato e spiasse il futuro. Voi non potevate, quand’anche aveste sentiti a fremervi dentro il suo Genio, ricominciare Napoleone: sé l’Era dei popoli non fosse stata che sogno, egli era tale da non morir che sul trono. Voi non potevate che trasformarne il concetto: ricordarvi che s’egli sorgeva per propria potenza e sugli ultimi stanchi giorni d’una repubblica, voi sorgevate per elezione di popolo in una repubblica nascente e pregna di fati: ricordarvi che sé Napoleone aveva, conscio o inconscio, preparato colla eguaglianza civile, coll’armi e colle leggi europee il terreno alla novella unità, era -e i popoli ve né avvertivano col sorgere spontaneo per ogni dove – impresa compita: ricordarvi che avevate incontrato e salutato fratelli nell’esilio, Polacchi, Italiani, Alemanni rappresentanti la stessa fede e dire: io inizio, in nome del Popolo, l’epoca nuova: porto, io proscritto d’ieri, sul seggio di Preside della Repubblica, il pensiero de’ miei fratelli, e dichiaro: la Francia non vuole ch’esistano da oggi innanzi proscritti. La vita è sacra: sacra nel pensiero, sacra nei popoli. Si riveli, s’espanda, si dia forme proprie come nella creazione di Dio. La spada della Francia conquistatrice giace per sempre nella tomba di Napoleone; ma il popolo ha dato un altra spada alla Francia e questa spada proteggitrice si stenderà dovunque sorga vita vera in un popolo, tra quella vita nascente e chi s’attentasse di soffocarla.
Non eravate da tanto. Impotente a ripetere la parte di Napoleone, voi avete tra vestito i suoi concetti gigantescamente ambiziosi in sogni d’un’ambizioncella tre mante, pigmea, in disegni di rivoluzioni consolari o imperiali ideate la sera, svanite il mattino davanti all’agitarsi d’una Commissione di permanenza o a un’aspra minacciosa parola di un soldato geloso. Incapace di trasformarne il pensiero e senza idee vostre, senza amore nell’anima, e buia d’intelletto dell’avvenire la mente, voi, d’incertezza in incertezza, di codardia in codardia siete sceso a ricopiare la parte immorale, dissolvente, atea di Luigi Filippo. Vi circondano, ispiratori, dominatori or l’uno or l’altro, gli uomini di Luigi Filippo. Vi pende sul capo, inevitabile, fatale, la sentenza di Luigi Filippo.
Colla spedizione di Roma voi intendeste a propiziarvi a un tempo la parte cattolica, l’esercito e l’Austria: la parte cattolica piegando il ginocchio davanti al Papa: nel quale voi non credete: l’esercito accarezzandone l’orgoglio e gli spiriti irrequieti: l’Austria, alla quale la paura v’ha fatto complice, aiutandola a soffocare nel centro d’Italia l’elemento temuto e insegnando a tutte le popolazioni italiane ch’esse non devono illudersi a sperare cosa alcuna da voi. Colle leggi repressive imitate da quelle dell’ultimo regno intendeste a conciliarvi gli abbienti tremanti del socialismo perché lo giudicano nelle esagerazioni che falsano quella santa tendenza. Col programma di neutralità ch’oggi, prima di avere ritirate le vostre truppe da Roma, sostituite al programma d’azione della Francia, voi sperate rendervi favorevoli gli uomini della pace. Diseredato d’iniziativa, voi, ponendo in luogo della politica dei principii che poggia sul Vero, sul giusto, sull’onore e sull’elemento dotato di maggiore vitalità nel futuro, la trista meschina impossibile politica degli interessi e di concessione che cozzano l’una coll’altra, v’illudeste ad essere quel ch’oggi chiamano uomo di stato.
Ma quel misto di scetticismo e d’orgoglio, d’analisi cadaverica e d’ignoranza della vita che sorse con quel nome quando in Europa mancarono le forti credenze e si ruppe ogni vincolo d’unità, andò digradando da Machiavelli, storico e giudice, fino a Talleyrand copista meschino e briccone. Luigi Filippo è morto in esilio. Metternich vive in esilio. Ora, uomo di stato è colui che pensa e pratica il bene. Proscritto anch’oggi, ei riescirà senza fallo domani.
La parte cattolica vi sa ipocrita incredulo: ipocrita anch’essa e senza fede, essa ha accettato, promettendo, l’aiuto vostro: ma i suoi odii vanno oltre la tomba, le sue speranze stanno nei governi dispotici, ed essa vigilerà l’anatema il primo giorno in cui essa crederà non aver bisogno di voi.
L’esercito sa in oggi che voi lo spingeste all’assassinio di Roma perché non osa vale combattere l’Austria invadente né lasciarla sola; e arrossirà della macchia di disonore che voi avete messa sulle sue bandiere e e della parte di gendarmeria pretesca alla quale voi lo condannate. I soldati di Francia intenderanno che lo stendardo dato ad essi dalla nazione è simbolo d’un principio o cencio senza senso e valore ch’essi tengono in deposito l’onor della Francia — che dovunque il principio repubblicano, vita e speranza della Francia, è violato per opera loro, essi tradiscono la nazione – che il giuramento del milite nel XIX secolo non è giuramento di medio -evo, giura mento d’uomo servo a un Signore, ma giuramento di libero a chi rappresenta – e e fino a quando la rappresenta – la missione della sua Patria.
L’Austria sa il perché scendeste in campo con essa, e non si giova, sprezzando, di voi che per logorare ogni influenza morale francese in Italia e e togliere un’alleato alla vostra illusa nazione.
I proprietari, i detentori della ricchezza di Francia, imparano rapidamente le vere idee degli uomini che studiano i segni della inevitabile trasformazione sociale e cercano le vie per le quali possa pacificamente compirsi. Essi s’avvedranno che in questi uomini oggi ancora fraintesi è riposta mallevadoria, più potente che non quella delle vostre leggi repressive e seminatrici di guerra implacabile, contro gli agitatori violenti e e i sofisti sovvertitori d’ogni ordine.
Gli uomini della pace v’abbandoneranno come abbandonarono Luigi Filippo, appena un nucleo d’arditi scenderà nelle vie delle città francesi a provare che non v’è pace senza giustizia.
Per lutti questi elementi voi non siete che una transizione ad altro. Essi vi hanno conosciuto debole e nessuno lega a quelli del debole i propri fati.
E la Francia, la Francia-popolo, la vera Francia, che noi amiamo e non confondiamo, Signore, con voi e coi vostri, la Francia che geme e freme sotto un’obbrobrio non meritato, sentirà un di o l’altro, ma di certo entro un breve cerchio di tempo, il rimprovero che pesa sulla sua fronte, e d’un de’ suoi moti di Lione lo scolerà via da sé. La Francia intenderà che la noncuranza colla quale essa concede ai governi che la dirigono di cancellare o falsare il principio europeo pel quale essa ha sparso sudori e sangue, non è una stanchezza momentanea dell’oggi, ma dura da lunghi anni e accumula sulla sua bandiera diffidenze e reazioni ormai gravi – che vigilano nell’Europa dei popoli contro l’amore ch’essa ispirava la rovina della libertà spagnuola nel 1823, le promesse fallite all’Italia nel 1831, l’isolamento colpevole del 1848, l’abbandono della Polonia, l’indifferenza davanti all’invasione russa nell’Ungheria, lo scredito che sparge per ogni dove sull’idea repubblicana la repubblica – menzogna immedesimata con essa, e il delitto di Roma – che la sua potenza d’iniziativa perisse – che a a farla rivivere è urgente ridestarsi; e si desterà.
In quel giorno, Signore, abbandonato, schernito, maledetto da quei ch’oggi s’avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete, vittima espiatrice di Roma, a morire in esilio.
Il culto dei nomi, esaurito nell’ultima formola, svanirà per la Francia, e per l’Europa. Il Popolo sarà papa in Roma, presidente in Parigi.
Principe Luigi Napoleone! il 14 gennaio 1848 io scriveva al ministro Guizot: («voi siete travolto oggimai dagli eventi che non potete più prevenire né dirigere. Voi siete ancora molto potente, Signor Ministro; ma noi saremo in ultimo più potenti di voi.»
Il ministro crollava, sorridendo, il capo. Ma dov’era egli in febbraio?
Londra, dicembre.
Gius. MAZZINI.

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