Dell’Unità Italiana di Mazzini

Dell’Unità Italiana

“L’Italie est une seule nation. L’unité de meurs, de langage, de littérature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, nir enfin tous ses habitants dans un seul gouvernement.”
NAPOLÉON, Italiam Italiam. (VIRG.)

1.

La questione se l’Italia emancipata debba ordinarsi in lega di repubbliche confederate, o costituirsi repubblica una, vorrebbe forse più lungo discorso che non concedono i limiti dell’Italia del Popolo. Non che per noi si credano egualmente convalidate di forti argomenti le due sentenze. L’opinione che predica il sistema federativo ci sembra generata da una strana confusione di idee e di vocaboli che forse non dura se non perché pochi la discussero freddamente e vergini di pregiudizi, poi da quel senso di sfiduciamento che s’è coi secoli di servaggio inviscerato negli Italiani e li indugia sui confini del nuovo stato in continue transazioni col vecchio che pur vorrebbero struggere. Ma è questione che vezzeggia e sollecita l’individualismo potentissimo anch’oggi in Italia; questione che si nutre di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città, di provincie, di municipii, passioncelle abiette e meschine che brulicano nella penisola come vermi nel cadavere d’ un generoso; che cinquecento anni di debolezza, e cinquanta di predicazione non hanno potuto spegnere; e che la grande esplosione rivoluzionaria potrà sola sperdere nella manifestazione solenne dell’unità nazionale.
E a deciderla converrebbe scendere coi libri delle nostre storie alla mano in un campo d’ingratissima realtà a tesser gli annali delle mille influenze e e ambizioni provinciali, aristocrazia di località più tremenda assai dell’aristocrazia dell’oro e del sangue, perché dove queste si rivelano esose ed assurde, quella assume aspetto di spirito generosamente patrio – risalire alla sorgente comune, la divisione dell’Italia in più stati – poi seguirne lo sviluppo inseparabile dalle nostre sciagure e mostrare come da più secoli la tendenza frazionaria e il decadimento italiano camminino su due parallele – e svolgere le conseguenze favorevoli al commercio, all’industria, all’arti e alle lettere che verrebbero dal concetto unitario – ed esporre intero il piano d’ordinamento sociale per cui la vita e l’impulso allo sviluppo progressivo e la direzione armonica dei lavori hanno a propagarsi dal centro alle menome parti senza incepparne la libertà, senza violarne l’indipendenza, senza isterilirne le potenze speciali: tesi vasta ed organica che le angustie del tempo ci vietano, e che noi non tratteremo che a cenni. Ma a qualunque intende a fondare, la parte critica, comecchè incresciosa e nelle apparenze sterile, riesce pure inevitabile a trascorrersi. Però a questa è volto il presente scritto. Purgato dagli inciampi il terreno e svincolata la questione dai pregiudizii e dalle paure ond’oggi è impedita, sarà facile cacciarvi le basi degli ordini futuri.
Quando nei primi anni della gioventù, irritati delle basse tirannidi che s’esercitavano nelle scuole di tutta Italia a a mortificare gli ingegni o a nudrirli di misantropia, frementi una patria che nessuna contrada d’Italia ci offriva, ma senza pur sospettare che il fremito individuale potesse convertirsi in azione, ponemmo il pensiero all’Italia, fummo unitari. Vergini di studiata scienza, liberi d’ogni servitù di sistema, insofferenti delle lunghe disamine e delle applicazioni pazienti, il vero stava per noi nella prima idea che ci balzasse improvvisa da vanti, grande, vasta, solenne, raggiante di poesia, di potenza, d’amore – e quest’idea ci s’affacciava nell’Italia una ricinta dall’alpi e dal mare; in una parola di volontà onnipotente uscente da Roma, dalla Roma dei Cesari e valicante l’alpi ed il mare: in una missione di civiltà universale assunta da noi fin dai giorni della potenza romana coll’armi, continuata cogli esempi di libertà dalla prima metà dell’evo medio, colle lettere diffuse all’Europa dalla seconda, e fremente dopo i miracoli dell’impero nell’Italia del XIX° secolo. Ma questa idea ci sorrideva come una musica d’anime, come un raggio di sublime poesia che ci mandava il cielo d’Italia, perché nel nostro cuore s’ ergesse un’altare al concetto puro, santo, incontaminato, senza meditarlo, senza verificarne la possibilità, senza rintracciarne la verità politica per entro ai costumi, alle abitudini, alle credenze dei nostri concittadini. Era il sogno di Dante, di Petrarca, di Machiavelli, e si venerava da noi come l’idea della libertà greca e romana dai cospiratori Italiani del XV secolo, per istinto, per entusiasmo, non per convinzione ragionala e come frutto di studi severi.
Poi venne la fredda, la calcolatrice, la dotta politica: vennero voci d’uomini gravi, nei quali il dubbio perpetuo riveste aspetto di profonda e arcana dottrina: d’uomini che professando non sottomettersi che all’alta immutabile ragione dei fatti sorridono a quante ipotesi s’appoggiano direttamente sui principii generali, e ci dissero: “L’unità italiana è brillante utopia, contrastata dai fatti che vi s’affacciano a ogni passo che voi moviate nella Penisola. Eccovi storie, e cronache, e documenti de’ vostri maggiori. Ognuna di quelle pagine gronda sangue fraterno. Ogni palmo del vostro terreno è infame per risse civili. Le inimicizie di molti secoli hanno lasciato ad ognuna delle nostre città Un legato d’ odio e di vendetta che il servaggio comune cancella nelle apparenze, ma che il grido di libertà, farà rivivere più tremendo. Vario il clima, varia la topografia, varie le abitudini e e le tendenze. Potrete spegnerle con un’ idea? Potrete confonderle con una formola di legge? Le leggi esprimono, non creano fatti. Le razze non si conciliano colla violenza. E quando, crederete averle fuse per via di decreti, quando v’illuderete ad avere statuita unità, troverete anarchia. Abbiamo elementi eterogenei: affrettiamoci a riconoscere i diritti e i bisogni diversi, perché non irrompano a rivendicarli coll’armi e colla rivolta. I popoli, non si governano ad illusioni. Quando un fatto è, non giova il dissimularlo, giova ammetterlo anzi tratto, poi moderarne le conseguenze dannose e trarre da quel fatto il miglior partito possibile. In Italia il governo federativo è il solo compatibile col fallo delle divisioni e delle differenze esistenti. Se vorrete il più, avrete il meno. Il concetto della fede, razione è concetto primitivo in Italia. Afferratelo. Con quella forma avrete libertà dentro, e forza al di fuori. Vedete la Svizzera e le repubbliche Americane. E le autorità d’uomini sommi, Montesquieu, Sismondi ed altri, convalidano gli argomenti dei fatti. Poi col sistema, unitario avrete presto tirannide, se d’una capitale, d’un consesso, d’un unico centro o, d’un re, poco monta. La centralizzazione uccide la libertà delle membra. Da ultimo, republica in una piccola estensione di terreno può stare; ma le vaste proporzioni la fanno, impossibile.”
E quelle voci che ci parevano concordi ai fatti ci stillavano lentamente il dubbio nell’animo. Il pensiero di Dante e e di Machiavelli ci sfumava di mezzo a un caos di forme, di visioni, di sembianze individuali, diverse di costumanze, d’abitudini, di tendenze, e tutte ostili, rivali, nemiche, che le formole di quei politici evocavano dinanzi a noi. Il medio evo colle sue mille guerre, dall’urto scambievole delle razze nordiche fino alle fazioni lombarde, dalla battaglia di Monteaperti fino a quella della quale suonavano come l’ultimo gemito d’Italia l’estremo parole di Francesco Ferrucci al Calabrese: Tu vieni ad uccidere un morto, sorgeva gigante a frammettersi tra noi e il concetto unitario, a protestare tremendamente contro quel sogno affacciatosi nello spazio di tre secoli a due grandi anime che forse, morendo, lo rinnegavano.
E forse ciò che costituiva il Genio e lo differiva dalle razze umane era il tormento d’un idea solitaria, inapplicabile, condannata a starsi in perpetuo nei dominii dell’astrazione. La mano scarna della dottrina ci sfrondava l’albero delle illusioni giovanili e v’innestava sistemi architettati studiosamente e complicatamente sugli antichissimi esempi greci e su nuovissimi americani. E quelle difficoltà superate apparentemente, quella intricata discussione intorno al modo di stringere un vincolo di unione fra più Stati liberi e indipendenti, ci sembrava argomento d’altissima scienza in chi l’assumeva. L’unità, semplicissima fra tutte le idee, s’affaccia istintivamente all’umano intelletto ne’ suoi primi sviluppi e filosoficamente negli ultimi: e v’è fra queste due un epoca intermedia comune agli individui e alle nazioni nella quale l’intelletto traviando nella folla di sistemi che gli si parano innanzi, si compiace pelle astruse combinazioni e inorgoglisce nelle oscurità metafisiche. È l’epoca dei governi misti, delle teoriche costituzionali, delle due camere, della bilancia dei poteri, dell’ecclettismo, delle federazioni. Ma il vero è semplice per essenza. Il genio è unitario. Quando i tempi non erano maturi, cercava l’unità nel dispotismo, oggi la cerca nella libertà e e nella creazione di vaste e grandi repubbliche.
Quell’epoca d’incertezza pseudo -scientifica, d’errore rivestito del manto della sapienza, e la trapassammo. Fummo federalisti e lo diciamo francamente perché crediamo che molti dei nostri concittadini abbiano corso quello stadio di gradazioni perché rivelando i dubbi che ci tennero incerti, intendiamo mostrare come il simbolo unitario noi la subimmo ch’or predichiamo e sosterremo energicamente sia nostro non per ardore d’utopia giovanile, ma per lento e maturo convincimento perché vinto quel periodo di scetticismo e superale le difficoltà che pareano attraversarsi, noi siam lieti della nostra credenza e non corriamo oggimai pericolo di mutarla.
Siamo unitari – e staremo. Troppe cose si contengono in questo simbolo d’unità, troppi vincoli lo connettono alla libertà italiana che noi cerchiamo, perché da noi si possa scender più mai al pensiero gretto, pauroso e funesto d’una federazione. Certo noi non infame remo la contraria opinione, com’oggi e forse a torto! – gli unitari di Francia infamano gli uomini della Gironda. La libertà può fondarsi in una federazione come in uno stato unitario: concepita anzi in siffatto modo, la quistione è ridotta al nulla. Nessuno ostacolo vieta tranne pochissimi e dei minori gli uomini della Gironda non parteggiarono teoricamente e assolutamente pel sistema federale. L’accusa data ad essi dalla Montagna dura tuttavia accettata senza esame dai più, forse perché la condanna e il supplizio tennero dietro all’accusa, e i più danno giudizio sul fatto, non sul diritto. Ma la loro non fu opposizione di sistema, bensì opposizione di circostanza.
A molti di quei che oggi ancora si citano col nome di federalisti il pensiero di rompere l’unità della Francia s’affacciava delitto capitale. La questione tra gli uomini della Montagna e della Gironda era ben altra. Due sistemi diversi di rivoluzione cozzavano in essi, e il federalismo non fu che un arme di quella guerra. I Girondini contrastarono il dominio a Parigi, tentarono la sollevazione delle provincie; ma perché Parigi era a quei giorni la Convenzione, e la Convenzione era la Montagna, perché volendo pur combattere il sistema della Montagna, vinti in Parigi, non potevano che cercare un rifugio nell’influenza onde godevano tuttavia nei dipartimenti.
L’ordinamento federativo non vieta, e non inchiude la libertà, non ha che fare colla costituzione interna di ciascuna delle repubbliche unitarie che compongono la federazione. Dalla interna costituzione dipende la maggiore o minor libertà che spetta a ciascuna; dal sistema che le unisce tutte la maggiore o minor durata della libertà stabilita. La questione della libertà interna s’agita negli attributi della potestà centrale, nel diritto d’intervento accordato al governo negli affari spettanti ai singoli membri dell’associazione: questione che non può sciogliersi se non colla legge che provvede all’ordinamento dei comuni e dei municipii: questione estranea a questa del sistema unitario o federativo: che non tocca la costituzione interna. Le libertà comunali e municipali possono esser affogate o svincolate dalla centralizzazione in ognuno dei diversi Stati confederati. Soltanto quei che cercano nella federazione una più forte tutela a siffate libertà non s’avvedono che raddoppiano, in vece di scemarli, gli ostacoli. Ad ogni Stato membro della federazione è forza in fatti porsi in guardia contro gli abusi del governo centrale della federazione, e contro a quei del governo particolare a ciascuno, laddove uno almeno dei due nemici è soppresso dall’unità.
Giova notar fin d’ora la confusione che molti fanno di due questioni radicalmente diverse, quella della centralizzazione e quella dell’unità – e ne toccheremo più giu – alla libertà stabilirsi in un aggregato d’un milione d’uomini quando è è possibile stabilirla in uno di venti. Ma stabilirsi e durare sono due termini essenzialmente diversi, e per poi v’è impossibilità nelle presenti condizioni europee, perché una libertà fondata sull’unione federativa di molti piccoli Stati duri intatta e secura, impossibilità generata da due vizi radicalmente inerenti ad ogni federazione, interno l’uno ed esterno l’altro. Però la questione evitale per noi e immedesimata, come la questione repubblicana, con quella della libertà.

II. Cos’è il governo federativo? — D’onde traggono origine le federazioni? – Qual è l’elemento principale che le costituisce?

Ogni federazione trae evidentemente origine dalla debolezza degli stati che la compongono. La necessità d’una difesa che più Stati isolati non trovano nelle proprie forze li determina a collegarsi per reggersi l’un l’altro contro ogni nemico che s’affacciasse.
L’essenza del governo federativo è riposta nel patto che stringe gli stati confederati a proteggere e tutelare l’indipendenza di ciascuno colle forze di tutti. – L’altre son condizioni accessorie d’importanza secondaria, e sottomesse a modificazioni infinite.
Che cercano gli Stati confederati?
La forza.
Dove la cercano!
Nell’unione.
E quest’unione non la ristringono a ciò ch’è di pura necessità; ma l’ampliano d’ordinario a confini più larghi: non la fondano unicamente sul patto giurato della difesa, ma tentano cacciarne le basi sulla uniformità delle leggi interne, dei bisogni mutui, dell’utile commerciale; non s’acquetano a desumerla dall’istinto che guida gli Stati a crearsi per ogni dove sicurezze d’indipendenza, ma s’adoperano a darle sostegno la fratellanza. A quelle unioni che posano solamente sulla promessa di proteggersi scambievolmente è serbato il nome di Leghe; ma le federazioni procedono innanzi. I più tra gli stati cercano confederarsi con chi li somiglia. Son rare le confederazioni di repubbliche e monarchie. Un istinto politico insegna ai popoli che la conformità dei reggimenti interni fa le unioni durevoli. E le antiche e le nuove federazioni statuirono principii dichiarati e immutabili dai quali non fosse concesso partirsi. Le repubbliche greche spinsero tant’oltre gli obblighi di leggi uniformi che correvano ai confederati da mutare interamente la natura indipendente delle federazioni; e lo vedremo tra poco. Delle nuovissime basti l’America. Tuttetranne la Svizzera ch’oggi intende il suo vizio hanno cercato l’unione federale durevole nel riavvicinamento graduato all’unità delle leggi, degli istituti, dei principii fondamentali.
Da questi pensieri che s’affacciano spontanei al primo esame della questione e sgorgano dalla definizione del sistema federativo emerge un dubbio: perché se a più stati vicini, con molti punti di contatto, e collocati in simili circostanze giova l’unirsi, cotesta unione non toccherebbe gli estremi confini! – perché se il bisogno d’esser forti li stringe a confederarsi, la certezza dell’incremento di questa forza ch’essi tentano procacciarsi non li indurrebbe all’unità?
Perché se la uniformità di governo e di leggi fondamentali è bisogno sentito da quanti si stringono a federazione, non lo adeguerebbero essi creandosi un solo governo, una sola legislazione?
La questione, specialmente in relazione all’Italia, si ridurrebbe dunque a questione di possibilità o di impossibilità: teoricamente decisa a favore dell’unità, scenderebbe ai dominii della pratica, che spesso, dicono, cozza colla teorica, rifiutando inappellabilmente ciò che i principii vorrebbero.
Noi crediam poco a questo dissenso fra la teoria e la pratica che pur s’allega così sovente nelle questioni politiche. Generalmente parlando, i principii stanno per noi sommi sovra tutte cose e le dominano. Teorica e pratica sono indissolubilmente congiunte. La prima è il pensiero, la legge, l’idea: la seconda è il segno che rappresenta il pensiero, la formula scritta attraverso la quale è rivelata la legge, la forma che l’idea assume trapassando nel mondo sensibile. Se un principio è vero, le applicazioni hanno a riescirne più che possibili, inevitabili perché nessun principio può rimanersi sterile a lungo e senza conseguenza. E dei dieci casi, ne’ quali sembra manifestarsi questo dissenso, tre forse spellano ad una intelligenza parziale e frazionaria di quel principio che s’è tentato applicare senz’averlo scoperto tutto – sei ad un’applicazione falsa, incompiuta o paurosa – un solo a fatti reali che s’attraversano, dissonanze cacciate dalla natura, opposizioni inerenti alle umane cose che l’intelletto è certo di vincere, non di vincere a un tratto. Ma la scienza politica che riassume i gradi di progresso e presenta dopo le religioni e la filosofia la formola più estesa delle cognizioni acquistate dall’intelletto esce da poco d’infanzia. Le dottrine gesuitiche dei settatori della tirannide assumono quei casi, li moltiplicano e ingigantiscono e sviano gli animi dall’addentrarvisi: la presuntuosa ignoranza dei pedanti in politica che s’arrogano la dittatura perché han raccolto, senza discuterli, una collezione di fatti, avvalora l’arti della tirannide, e l’inerzia dei più vi s’acqueta.
Pur, poi che quell’unico caso si potrebbe verificare in Italia, giova accettar la questione tratta a que’ termini. Bensì l’obbligo di trovarlo esistente spetta a chi nega possibile l’italiana unità.
Or lo provano! e come?
I più nol provano: non allegano argomenti diretti; ma si richiamano alla storia. Mo strano nelle sue pagine alcuni esempi di repubbliche confederate, salite a potenza, e prospere interiormente: di repubblica unitaria su vaste proporzioni non una, e ne inducono senz’altro esame la conseguenza che per noi si combatte. Mutano così la questione. Dimostrano non l’impossibilità di costituire quando che sia la repubblica unitaria, in Italia, ma la possibilità di costituirla federativa. Pure stabiliscono a ogni modo una presunzione favorevole alla loro credenza e giova distruggerla. – Ma prima è necessario per noi l’accennare il come vorremmo si procedesse in politica e innalzarci apertamente contro l’abuso che si fa degli esempi, vera tirannide d’autorità che ove prevalesse distruggerebbe ogni indipendenza di raziocinio, vecchio sistema che non accettiamo momentaneamente se non per combatterlo, ma che noi rifiutiamo, e al quale in tesi generale non vogliamo sottometterci mai.
Un pregiudizio domina tuttavia la politica: il pregiudizio dell’esempio, l’imitazione servile. A qualunque dallo spettacolo della patria guasta, corrotta, inceppata da pessime istituzioni è suggerito il pensiero di porvi o proporvi rimedio si affaccia innanzi a tulle una via: quella di torlo altrove. I più dagli ordini che reggono la contrada nativa ritraggono lo sguardo all’Europa finché trovino una terra dove un principio contrario o diverso domini le istituzioni; trovato lo afferrano come ancora di salute: non guardano se quel principio spetti esclusivamente, per vigore di cagioni preesistenti al paese ove ha vita, e se trapiantato possa fruttare conseguenze uniformi: non s’addentrano a vedere se quel principio sia destinato a lunga vita nel futuro o covi la morte: se veramente da quello o da altre ragioni derivano i vantaggi che l’una nazione ha sull’altra: lo adottano e lo scrivono sulla bandiera e la turba vi corre, perché quando le moltitudini ineducate hanno sete di che innalzano mutamento s’affollano al primo stendardo che sventola, non curando se mutino in meglio, o peggiorino. Poi quando i danni d’un sistema accolto precipitosamente cominciano a sperimentarsi, gli ingegni più desti s’avvedono dell’illusione, ma tardi, quando la credenza in quel simbolo s’è radicata, quando il popolo anela riposo, quando quindici anni di delusioni e molte vittime bastano appena a risuscitarlo. La rivoluzione è compita, nè le rivoluzioni si maturano di giorno in giorno.
Quando affermiamo che questa gretta, esclusiva, superficiale, funestissima maniera di trattare le cose politiche ha esercitato dominio su tutti quasi i rivoluzionari dell’epoca in oggi consunta, e lo esercita tuttavia malgrado le molte esperienze sugli scrittori politici, noi diciam cosa che a a molti parrà frullo d’un ira mal concetta contro il passato: stolta accusa che oggimai non è da respingersi se non col sorriso. Noi veneriamo il passato quando è grande, ma né il consenso dei secoli può ingigantirlo ai nostri occhi quando l’intelletto ce lo affaccia meschino. Le nostre teoriche di progresso riabilitano il passato anziché gittargli l’anatema; ma noi sappiamo che la terra troppo calpestata diventa fango, e vogliamo prender le mosse dal passato, non insister sovr’esso.
La scuola politica del secolo XVIII fu tutta inglese. Montesquieu e Voltaire, il primo intelletto potente a evocare con venti parole l’immagine fedele d’un secolo di passato, ma cieco dell’avvenire; il secondo, ingegno vasto più che profondo, critico per eccellenza, e nella foga di distruggere che l’invadea avido più di trovare che di creare un tipo a cui attenersi, l’uno e l’altro tendenti all’aristocrazia, predicarono primi le istituzioni britanniche – e dietro a quei due la turba degli enciclopedisti, i filosofi, i mezzo-politici, e gli imitatori servili. Il sistema che reggeva gli Inglesi sgorgava dalla loro storia diversa affatto da quella dei Francesi. La loro aristocrazia era elemento della nazione traente origine dalla conquista. In Francia non v’era aristocrazia se non per abuso; ma un nuovo stato doveva sotterrarla inevitabilmente. Il popolo più che libertà anelava eguaglianza. Ma chi tra i Francesi scrittori guardava alla Francia? – Il solo che si ribellasse al torrente, fu Rousseau – e Rousseau fu greco, spartano: ideò repubbliche che avevano ad essere nuovissime e fu trovato che i loro titoli stavano in un angolo dell’Europa sotto la polvere d’uomini da venti secoli. La rivoluzione convocando il popolo, elemento eterno, sulle rovine della Bastiglia, scrisse il decreto di morte ad ogni privilegio monarchico aristocratico. Ma non valse.
Il sistema inglese che s’era fatto pigmeo in Mounier, Tollendal, Malouet per insinuarsi non visto nell’assemblea nazionale, dileguatosi sotto la mano ferrea dell’uomo del blocco continentale, ricomparve audacissimo a tentare la seconda prova nella Stael, in Benjamin Constant, Royer-Collard, e gli altri, che assisero il fantasma monarchico sul trono di Bonaparte.
Tornata in nulla per le tre giornate di luglio la seconda prova, tentò la terza: tenta oggi la quarta e, speriamo, l’ultima, prova. Il sistema inglese agonizza nel luogo stesso ov’ebbe la colla.
Il sistema inglese agonizza. Il sistema americano sorge collo stendardo repubblicano.
L’America fu l’arena che vide prima la lotta fra il principio monarchico-misto e il repubblicano. La repubblica ebbe la prima vittoria. Ciò basta alla politica imitatrice per dichiararsi americana esclusivamente. La scuola americana, ch’ebbe duce Lafayette, uomo di rara virtù, d’intelletto mediocre, domina anch’oggi parte dei repubblicani: invoca in Francia la libertà sola, come se la libertà fosse fine e non mezzo al moto sociale; e il governo a buon mercato, senza avvertire che l’economia nazionale non dipende dalla quantità del tributo, bensì dall’uso e dal riparto di questo: in Italia invoca la federazione. Perché non invoca anche gli schiavi, che nelle repubbliche americane costituiscono il settimo della popolazione?
È tempo che la politica s’emancipi da codesta tirannide degli esempi. È tempo che il secolo XIX tragga dalle proprie viscere, dai propri elementi, dai propri bisogni la politica che deve guidarlo. L’Italia del XIX secolo racchiude nel proprio seno le condizioni della sua futura esistenza e le forze per raggiungerle. Guardiamo dunque all’Italia, non al l’America o a Sparta. Non abbiamo noi intelletto nostro e basi di giudizio, e fatti presenti perché si debba da noi statuire a criterio, a principio politico, un’ esempio straniero o spettante al passato! – Un fatto è il prodotto delle mille cagioni, dei mille fenomeni che s’incontrano in un dato periodo, in un dato paese; e quei fenomeni e quelle cagioni s’incontreranno identiche sempre, perché s’abbia a volerne la conseguenza che ne fu tratta altrove? I principii prevalgono ai fatti, perché non dipendono da circostanze fortuite o singolari, ma dalla eterna ragion delle cose. Ogni nazione cova un principio che domina la sua storia, ch’essa è chiamata a sviluppare se non vuol perire. Il principio nazionale fra noi vive latente come vogliono i tempi, ma non tanto che l’indole degli abitanti, delle passioni, dei fatti concatenati che costituiscono la nostra storia, delle rivelazioni che emergono dalle lettere, dai bisogni e dai tentativi operati non lo esprimano a chi vuol rintracciarlo. Dissotterate quel principio. Poi se gli esempi stranieri verranno a convalidarlo, meglio.
Contemplateli; ma del guardo dell’aquila al sole, libero, indipendente, potente. Contemplateli; ma come termini d’una proporzione, il cui primo termine deve rappresentarvi. Non rifiutate un trovato straniero, se, applicato a voi, frutta incremento alla patria. Ma non lo accettate alla cieca unicamente perché già altrove accettato. Così facendo sarete Italiani e vi troverete, per legge di cose Europei. In altro modo, vi rimarrete servi o meschinamente ribelli al vero.
Ed ora scendiamo agli esempi.

III. I primi ci s’affaccian nella Grecia.

Chi disse la varietà nell’unità essere il tipo del mondo greco, disse cosa più vera ch’altri non pensa. La Grecia splende nella storia europea d’una potente unità; ma d’una unità vivente nel genio greco più che negli ordini greci; d’una unità che vegliava nelle religioni, nelle abitudini, nella missione che i destini fidavano alla Grecia nucleo primitivo del mondo europeo, nella opinione radicata, che tutti stranieri eran barbari, non nelle leggi e negli istituti politici interni. La greca missione di romper guerra in nome dell’Europa futura al genio orientale s’adempieva fatalmente per legge di razze, senza che fosse necessaria una forte e preordinata unità. E d’onde sarebbe sorta cotesta necessità quando la Grecia era sola in Europa? Però ne’ bei tempi delle greche repubbliche le confederazioni valsero contro i Persiani, come leghe formate a tempo, e volute dall’urgenza di combattere una guerra comune a tutela dell’elemento nazionale. Ma quando sorsero le ambizioni e le invidie do mestiche, e le leggi varie partorirono le varie tendenze, le federazioni non valsero a quetar la discordia e le guerre intestine, né a salvar la Grecia dalla dittatura d’un principe o d’una delle repubbliche, né a proteggerla dall’invasione straniera, quando quest’invasione venne d’Europa. La lotta fu varia, ostinata, perpetua. Durò continua fra Sparta ed Atene, fra l’elemento dorico e e l’elemento jonio. Né la lega anfizionica valse a indurre la pace. Fu simulacro, non esempio di lega. Fu nei tempi più quieti guerra tacita e quasi legale sostituita all’aperta. E la storia greca ai tempi amfizionici è storia di contrasti e d’usurpazioni al terne, nella quale ora Sparta, ora Tebe, or Atene fu dominatrice nel consiglio supremo. E mentre i deboli ne riconoscevano l’autorità, i forti la disprezzavano; sicché bastò che i Focesi, condannati sacrileghi e dichiarati passibili d’un’ammenda per aver lavorato terre consecrate ad Apollo, corressero all’armi, perché i Greci, divisi in due parti, combattessero tra dieci anni la guerra sacra. Poi venne, frutto di quelle battaglie, la potenza macedone, sé per e la lega diventò, regnanti Filippo e Alessandro, lega di servaggio comune. E quando il popolo romano, – il popolo Napoleone – cacciò sull’arena il guanto della universale dominazione, la lega achea riesci impotente a sottrarvisi. Le federazioni greche come tutte domina federazioni contro una potenza unitaria, si fransero contro la romana unità del popolo romano, Varchiamo d’un balzo tutto quel periodo nel quale Roma delineò coll’armi il programma dell’era moderna, che la pace dei secoli liberi svolgerà nel futuro. Varchiamo tutto quel lungo periodo di guerre virilmente difese contro il colosso romano, ma inefficacemente ordinate, e mal collegate, che strappò di bocca a a Tacito quella sentenza: che rara è la concordia di due o tre città nel combattere un comune pericolo. Dalle leghe italiche in fuori alle quali per domare la potenza romana non mancò che d’esser forti d’un vincolo unitario, nessuna lega apparisce, nessuna confederazione che meriti esser tolta a modello: leghe di schiavi, leghe di colonie e di municipii che Roma struggeva d’un cenno. L’unico tentativo di lega che meriti l’attenzione dei posteri è quello che escì dal concetto d’un gladiatore tracio: è il grido di Spartaco ai suoi fratelli di servitù. E il grido di Spartaco potente a far tremare la stessa Roma fu grido d’unione concentrata ed universale a quanti gemevano conculcati dalla romana aristocrazia: fu il programma dell’unità popolare come Roma fu dell’unità nazionale italiana.
Il primo esempio di federazione che ci s’affaccia nel mondo europeo moderno è la Svizzera: la Svizzera, federazione di fatto, di necessità, d’aggregazioni successive, che nessuno sceglierà mai a modello d’ordinamento politico: la Svizzera terreno neutro che la mutua gelosia delle grandi potenze salva dalla usurpazione straniera ogni qual volta l’equilibrio europeo turbato non trascini con sé l’invasione: la Svizzera, associazione d’elementi eterogenei, composta di cantoni d’indole, di religione, di politica, di credenze diverse, complesso di tutte forme d’istituzioni aristocratiche e democratiche, che non ebbe se non un secolo bello di pace, il XIV; e ch’oggi nel moto d’eventi che incalza l’Europa sente evidentemente bisogno d’avvicinarsi quanto è possibile all’unità o la condanna di rodersi nell’anarchia. Campo di guerre e stragi fraterne per intolleranza religiosa in un secolo, per pretesa d’aristocrazia in un’altro, e sempre per raggiri di gabinetti stranieri influenti nei consigli e nei vari governi; legata da un patto impotente a crear la concordia e violato sempre all’estero ed all’interno, unita talora davanti a una minaccia di principi, discorde sempre quando il pericolo s’allontanava, la Svizzera somministra nella sua storia ben altro che argomenti a favore del federalismo. Forte a principio dell’altrui debolezza, la Svizzera decadde rapidamente quando le monarchie ingigantirono nell’armi e nei mezzi: e nel secolo XVIII, Giovanni Müller disperava quasi della sua libertà”. L’esercito repubblicano francese, malgrado alcuni fatti di resistenza ostinata, in brev’ora la soggiogò. Napoleone, a cui le confederazioni porgevano occasione di protettorato e occorrendo pur di dominio, riconobbe nell’Atto di mediazione, l’indipendenza dei Cantoni. Ma il trarre argomento a favore del sistema federativo dal progresso ch’ebbe la Svizzera nei dieci anni durati sotto l’impero dell’atto di mediazione varrebbe lo stesso che voler desumere prove a danno dell’unità dalla condizione infelicissima della Svizzera durante l’unità statuita dalla francese repubblica. L’unità elvetica statuita violentemente dall’armi straniere durò brevissimo tempo; e quel tempo fu segnato d’oltraggi, d’angherie, di dilapidazioni, conseguenze inevitabili d’ogni intervento straniero: poi fu tempo di guerra continua che trasse sull’arena svizzera le torme russe e le teutone e le francesi. Ma i benefizi che vennero ‘nei dieci anni alla Svizzera non furono conseguenza dell’atto di mediazione, o dell’indipendenza data ai cantoni, bensì della libertà data al popolo, dell’emancipazione dei villici costituiti in eguaglianza di diritti coi cittadini, della soppressione delle leggi proibitive: escirono dalla libertà, non perché libertà di popoli confederati, ma malgrado gli inciampi che le federazioni frappongono allo sviluppo della libertà. Il solo effetto che venne dalla federazione fu l’ineguaglianza dello sviluppo d’incivilimento nei diversi cantoni, ineguaglianza che perpetua i semi della discordia.
Poi e questa è differenza essenziale le circostanze che formarono la confederazione svizzera furono totalmente diverse da quelle che presiederanno alla nostra rigenerazione.
Nella Svizzera l’associazione crebbe col tempo e colle cagioni che emersero a distanze considerevoli: quindi, impossibile l’unità. Solamente dopo la giornata di Morgarten, trascorsi quindici anni dalla prima lega di Schwitz, Uri ed Unterwald, Lucerna s’accostò ai tre Cantoni; poi Zurigo, poi Glaris, poi Zug e Berna, poi Soletta e Friburgo, e nel XV secolo Sciaffusa e Basilea, e nel XVI, duecento anni dopo quel primo nucleo, Appenzel. Noi sor geremo a un tempo, nella fratellanza dei pericoli e dell’intento, nell’entusiasmo comune, nella fusione d’una guerra molteplice, universale. Ifatti crearono la confederazione Svizzera: tra noi, non sarebbe che arbitrio di volontà.
Nel 1579, la lega d’Utrecht cacciò il germe d’un’ altra federazione in Europa. Un vin colo strinse l’Olanda, la Zelandia, la Frigia, Utrecht, la Gheldria ed Ove- Yssel. E le provincie Unite crebbero e fiorirono potenti e prospere; ma quando la politica europea era nell’infanzia, quando unità vera, libera, popolare, non era da trovarsi in Europa, e lo stringersi a federazione conteneva tanto omaggio al bisogno d’unione quanto oggi ne conterrebbe il concetto unitario: sofferta la dominazione di Carlo V e la tirannide di Filippo II, uomini di potere unico e concentrato all’estremo: dopo una lunga e sanguinosa rivoluzione che doveva per legge di tutte rivoluzioni fomentare l’istinto del popolo a crearsi uno stato contrario in tutto all’antico: in un paese che la configurazione geografica, l’isole, le lagune e le paludi disseminate invitavano all’ordinamento federativo: tra popoli che le abitudini frugali, economiche, operose e dedite esclusivamente al commercio salvavano da molti dei pericoli che ci minacciano, e facevano idonei a qualunque forma di reggimento tranne alla tirannide. L’aristocrazia era d’altra parte elemento in Olanda avverso per natura ad ogni unità. Popolo nel vero senso non esisteva.
Le moltitudini avevano cercato libertà di credenza religiosa, economia nelle amministrazioni, protezione e sviluppo al commercio – e l’ebbero; ma da quello in fuori null’altro.
Gli interessi comuni ai governati e ai governanti, procacciano ai primi buoni magistrati, tribunali equi e incorrotti: vantaggi di fatto, non guarentigie di diritto: benefici civili, non prerogative politiche; la costituzione buona in quanto s’adattava a quegli elementi, pessima in sé, non contemplava la massa della nazione: riconosceva un’aristocrazia ereditaria, era essenzialmente oligarchica. Però l’istituzione federativa esciva spontanea dalla necessità di dare sfogo alle diverse aristocrazie, dal pericolo di ridurle alla ribellione volendo per suffocarle tutte in un solo centro potente. Ma tra noi l’elemento aristocratico è tale da determinare una forma di reggimento? Le condizioni sociali ammettono oligarchia?
I ventiquattro milioni di cittadini sfumeranno davanti all’influenza ereditaria d’un piccol numero di famiglie? o faticheremo noi a fondare un’ aristocrazia – dacché in Italia aristocrazia come elemento sociale non esiste – unicamente per esser tratti da quella alla necessità d’un governo federativo? Ipotesi assurde tutte, pure a chi volesse dall’esempio delle Provincie Unite trarre un argomento a favore d’una federazione italiana, sarebbe forza l’ammetterle. Noi vogliamo libertà, libertà di popolo, libertà durevole, libertà eguale per tutti, e questa sola pretesa caccia l’immenso tra noi, tra l’Italia futura e l’Olanda del secolo XVII. La prosperità dell’Olanda, la potenza a cui salse non venne libertà di fatto e di diritto dalla federazione, ma dal commercio, dal commercio, nervo, forza, vita di tutte le provincie collegate: dal commercio che anche i capi facevano ed erano quindi costretti a promovere: dal commercio che fioriva e dava predominio europeo a quelle città anche anteriormente alla federazione?: dal commercio che cadde, viva la federazione, quando l’Inghilterra e la Francia accrebbero il loro, quando le guerre durate dalle sette provincie indussero aumento nelle tasse e nel debito pubblico, quando il monopolio prevalse nel commercio dell’Indie prosperità e rovina delle Provincie Unite derivano da cagioni evidentemente indipendenti dal vincolo speciale che le stringeva. Dalla federazione scesero ben altri effetti che quelli de’ quali or parlammo. Scesero i germi della disunione. Scesero le debolezze dell’Olanda da vanti le potenze straniere. Scese in somma che la indipendenza delle Provincie Unite riconosciuta nel 1609, fosse pressoché nulla e servile all’influenza francese poco più di mezzo secolo dopo, all’epoca della pace di Nimegue.
Scendiamo all’epoca nostra – scendiamo, poiché i passati non giovano, agli esempi novi o meglio sull’unico esempio su cui s’appoggiano i federalisti. Certo: la confederazione germanica non ha di che indugiarci tra via. Per quel cumulo inordinato di 35 stati il vincolo federativo non è un vincolo debole o difettoso; è un’illusione comprata a prezzo di sangue, e che sfumerà pel sangue; è un opera di stolta perfidia eretta dalla Santa Alleanza a a serbarvi, ov’arte umana potesse, il fantasma gotico dell’evo medio; è un regolamento militare, un istituzione di polizia ordinata a profitto di due sole potenze che forse dovranno un di o l’altro, se il popolo non sorge primo, sbranarsi sul campo medesimo ov’oggi dividono i frutti della tirannide.
Chi desume dalle repubbliche confederate degli Stati Uniti un argomento generale a favore del sistema federativo, non pensa che dei due vizi inerenti secondo noi ad ogni federazione, debolezza al di fuori ed aristocrazia inevitabile presto o tardi al di dentro, il primo è nullo in America – recinta com’è dall’Oceano e secura a un dipresso dagli assalti stranieri – l’altro, – se pur non comincia ad esercitarsi, come noi crediamo, negli Stati Uniti, ha bisogno di tempo lungo per manifestarsi evidente ed ostile alla libertà. L’aristocrazia di conquista si forma a un tratto nel riparto delle terre. Ma dove non esce da quella cagione, si forma lenta ed a grado sia coll’oro accumulato di padre in figlio, sia colla trasmissione del suolo entro dati confini e e delle influenze locali che si concentrano poco a poco nelle famiglie potenti. Due generazioni corsero dall’indipendenza dichiarata e due generazioni non son troppe a fondare un’aristocrazia in un popolo giovane non guasto dalle corruttele, lontano dai raggiri d’aristocrazie e tirannidi confinanti e sorto di mezzo ad una lunga e popolare rivoluzione. Ma noi siamo guasti, invecchiati nelle abitudini del servaggio, circondati da nemici potenti d’odio e – e riesciremo – a ringiovanirci, le abitudini della vecchiaia d’astuzia, e s’oggi aspiriamo – veglieranno gran tempo ancora a riconquistarci ove per noi si lasciasse un varco schiuso a quelle abitudini. Così siam noi: così è tutta Europa; né l’aristocrazia di finanza ha richiesto in Francia due generazioni per sottentrare a quella del sangue.
Ma chi tenta applicare esempio desunto dagli Stati Uniti più specialmente all’Italia viola ogni legge d’analogia, travede condizioni uniformi dove non sono, dimentica storia e topografia. A non guardar che alla carta dei due paesi, e paragonare una superficie di 1,570,000 miglia quadrate ad una di 95,000 al più, sorge naturale l’inchiesta qual relazione esista tra la immensa estensione che comprende quasi un intero continente re dell’oceano e la penisola mediterranea italiana. Chi direbbe che i due terzi o quasi d’Europa potessero formare una sola repubblica? o chi vorrebbe dalla impossibilità dell’ipotesi dedurre che la ventinovesima parte d’Europa nol può? proposizione stranissima e che lo diventa anche più se il guardo, scorrendo le due superficie, trovi la prima seminata di laghi vastissimi e d’immensi deserti, l’altra di laghi incomparabilmente minori, e popolata non interrottamente di città. Certo: qualunque sia per essere il destino futuro delle attuali repubbliche, gli Stati Uniti han terreno per molte repubbliche unitarie equivalenti l’Italia. Ma le ventiquattro che oggi compongono la confederazione dell’America settentrionale sorsero a un tempo? ebbero condizioni identiche, perché, se la vastità delle terre non avessero posto un ostacolo, potessero confondersi in una?
In altri termini, la scelta del governo federale fu scelta libera o voluta da prepotenza di cose? Noi vedemmo l’ordinamento federativo trascinato dall’impero dei falli nella Svizzera e nell’Olanda. Noi vediamo lo stesso impero esercitarsi sulla confederazione degli Stati Uniti. Le colonie che li compongono sorsero successivamente a tempi diversi per emigrazioni determinate da varie cagioni. Differirono di credenze religiose. Differirono di governo. Rimasero per molto tempo inegualmente sottoposte all’influenza dell’Inghilterra. Alcune avevano governatore e consiglio da Londra; altre governatore soltanto: d’alcune all’epoca della rivoluzione non fu bisogno di mutare che un nome, tanta era la libertà che in virtù di carte concesse dal governo godevano. Rhode Island si regge tuttavia colla costituzione accordatale da Carlo II. Connecticut non la mutò che pochi anni addietro nel 1818. Ma per l’altre fu questione di libertà esterna ed interna ad un tempo. Alle opposizioni derivate dai climi, dalle condizioni del suolo, dalle abitudini si aggiunsero le importantissime delle origini e delle interne risorse. La popolazione degli Stati del Nord è somministrata nella più grande parte dall’Inghilterra; quella degli Stati meridionali dai nativi della contrada discendenti dei primi coloni. Le piantazioni del Sud vivono per opera degli schiavi: le opinioni religiose tendono invece all’emancipazione del Nord e vietano gli schiavi alla nuova Inghilterra. E tutte queste differenze durarono nella loro azione anche consumata in comune la grand’opera dell’emancipazione e fu forza piegare davanti alla rivalità degli Stati edificando per le sedute del congresso una città neutra e durano tuttavia non aspettando a insorgere pericolose che un occasione. E udimmo non ha molto suonare nella Carolina alto il principio: che la sovranità popolare genera in ogni stato confederato il diritto di rinunciare ai beneficii ed ai carichi dell’associazione, e ritrarsene, quando il proprio vantaggio l’imponga: principio che basta l’aver gittato perché fermenti e si riproduca più tardi: principio che a noi sembra d’una verità incontestabile, e racchiude perciò il più forte argomento possibile contro il vincolo federativo applicato a paesi che debbono e e vorrebbero starsi uniti in perpetuo.
Ma tra noi — ripetiamolo anche una volta dove sono le differenze che accennammo pur ora? Travagliati dalla stessa vicenda, educati nei bei secoli a glorie comuni, a libertà uniformi, poi al comune servaggio, oppressi da una stessa tirannide, soggiacenti a bisogni eguali, quali tra le cagioni che vietarono all’America l’unità la vietano a noi? È pur forza dirlo o ritrarsi. È pur forza scendere rinunciando agli esempi sul terreno italiano.
Quali sono in Italia gli ostacoli che si allegano inseparabili all’unità?

(Sarà continuato. )
Gius. MAZZINI,

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