Dichiarazione del Governo Lombardo (26 giugno 1848)

Dichiarazione del Governo Lombardo del 26 giugno 1848

L’unione cogli Stati Sardi fu dal popolo di Lombardia votata alla quasi unanimità sulla formola seguente:
Noi sottoscritti, obbedendo alla suprema necessità che l’Italia intiera sia liberata dallo straniero, e all’intento principale di continuare la guerra dell’indipendenza colla maggior efficacia possibile, come Lombardi in nome e per l’interesse di queste Provincie, e come Italiani per l’interesse di tutta la Nazione, votiamo fin d’ora l’immediata fusione delle Provincie lombarde cogli Stati Sardi, sempreché sulla base del suffragio universale sia convocata negli anzidetti paesi e in tutti gli aderenti a tale fusione una comune Assemblea costituente, la quale discuta e stabilisca le basi e le forme d’una nuova Monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia.
Questa formola conosciutissima non fu mai combattuta, ed anzi i Lombardi ebbero la gioia di vederla implicitamente consacrata dal Parlamento Sardo con un voto solenne espresso nell’Indirizzo al re.
Nessuno in Lombardia dubitò che quell’offerta d’unione fatta da fratelli a fratelli non venisse accolta puramente e semplicemente con quell’impeto d’affetto, con quella concordia d’intenzioni che i Lombardi non potevano non aspettarsi da un popolo generoso, il fiore del quale era corso a combattere per l’indipendenza e per l’unione italiana, per la salute e per la gloria comune.
Epperò i sottoscritti Commissari vennero inviati a Torino, non già per promuovere l’accettazione dell’unione, che non ponevasi in dubbio, ma soltanto per fissare d’accordo col Governo del re l’interinale regime della Lombardia.
Né altro fu il pensiero del Governo del re: tanto è ciò vero che i ministri discussero in più sedute coi sotto scritti le norme del transitorio regime, riconoscendo sempre per indisputabile il punto dell’unione e l’accettazione pura e semplice del voto lombardo.
Che tali fossero le intenzioni e la persuasione di tutti, lo prova all’evidenza il testo della Convenzione dove al l’articolo primo si legge: «Tosto che il Re col Parlamento Sardo avrà dichiarato di accettare la fusione quale fu votata dal Popolo lombardo in base alla Legge 12 maggio scorso, la Lombardia e gli Stati Sardi costituiranno un solo Stato».
Ciò posto, la stipulazione degli accordi non poteva presentare gravi difficoltà, dacché le norme da stabilirsi erano transitorie, la lealtà e il buon volere presiedevano alle trattative, ed i Commissari lombardi si facevano una legge d’ogni possibile abnegazione.
Stipulata la Convenzione, il Governo del re proponeva alla Camera il relativo progetto di legge, e nel proporlo si valeva di calde ed eloquenti parole che commossero profondamente tutti i cuori: i fratelli Lombardi, diceva, e gran parte dei Veneti vi porgono con amore la ma no: stringiamola con pari affetto, con pari fede: stringiamola indissolubile . . . . . importa che il solenne e glorioso atto sia rapido e pronto.
Alla Commissione scelta dalla Camera per l’esame del progetto di legge parve di dovere proporvi alcune emende, particolarmente per quanto concerne il conferimento del potere legislativo riguardo alla Lombardia durante il regime interinale. I sottoscritti, che dopo istanze inefficaci nelle trattative col Ministero avevano dovuto tollerare con dolore si grave lacuna, accettarono di buon grado l’emenda proposta, consistente nel dare al Governo del re il diritto di fare nuove leggi, abrogare o modificare le antiche, di concerto con una Consulta straordinaria composta dei membri attuali del Governo provvisorio di Lombardia. Ed era ben giusto che fosse legalmente possibile di chiamare la Lombardia a sforzi supremi, a nuovi sagrifizi d’oro e di sangue in questa guerra comune: era ben giusto che si potesse prontamente avvisare a profonde modificazioni del sistema doganale che divide attualmente i due paesi, o fors’anche alla totale abolizione della linea daziaria, abolizione che pure sta nei voti del Popolo sardo.
Così pure vennero accolte dai sottoscritti altre emende proposte dalla Commissione, relative alla legge elettorale per l’Assemblea costituente, riconoscendone l’opportunità.
Ma quando i Commissarii lombardi vennero chiamati ad esprimere il loro avviso sopra emende che dicevansi proposte dal Ministero e che toccavano a punti diversi da quelli ai quali riferivasi il loro mandato, dovevano dichiarare e dichiararono non essere in loro potere discuterle, accettarle o rifiutarle.
Ma siccome l’astenersi che essi hanno fatto potrebbe da taluni interpretarsi come una opposizione superabile forse dai Commissarii medesimi o dal Governo provvisorio di Lombardia, qualora tali emendamenti venissero dalla Camera sanzionati, cosi i sottoscritti debbono a sé stessi, debbono al Governo che rappresentano, debbono ai due Popoli il dichiarare, come dichiarano, che la sanzione degli emendamenti medesimi darebbe origine alle più gravi complicazioni.
Ecco l’emendamento del Ministero:
L’Assemblea costituente non ha altro mandato che quello di discutere le basi e la forma della monarchia.
Ogni altro suo atto legislativo o governativo è nullo di pien diritto.
La sede del Potere esecutivo non può quindi essere variata che per legge del Parlamento.
Prima di tutto è osservabile che con questa emenda il Ministero accorderebbe all’Assemblea costituente il solo diritto di discutere e non quello di stabilire: è osservabile che alla parola monarchia non aggiunge l’essenziale qualifica di costituzionale: è osservabile infine che ommette di fare parola della Dinastia di Savoia.
I Commissarii lombardi amano credere che queste ommissioni siano figlie di un semplice equivoco, e che quindi non possano dare luogo a serio dibattimento.
Ma la dichiarazione di nullità di ogni atto legislativo e governativo, nel mentre allude a sospetto di tendenze usurpatrici o faziose, sospetto non meritato ed ingiurioso per tutta la nazione, condurrebbe a conseguenze tali da rendere impossibile perfino l’esistenza del Parlamento definitivo, perché l’Assemblea costituente non potrebbe fare nemmeno la legge elettorale da servire per quella prima volta alla nomina dei Deputati. Questo dicasi per semplice esempio diretto a provare che quella emenda è concepita in termini effreni e tali da aprir l’adito ad insolubili discussioni, potendo facilmente avvenire che nella formazione dello Statuto insorga dissenso sulla natura piuttosto costitutiva che semplicemente legislativa di moltissime disposizioni.
Ma, supposto pure che siffatte contestazioni non siano possibili, supposto che la diffidazione espressa nei termini di cui sopra sia una conseguenza logica di una premessa indisputabile, sarà sempre vero che la diffidazione medesima assume la forma di condizione efficiente il consenso, e che in questo caso ragion vuole che la condizione venga positivamente ed espressamente accettata dal popolo di Lombardia.
Questa considerazione acquista forza a più doppi quando la si voglia applicata alla seconda parte dell’emenda relativa alla sede del potere esecutivo. Fosse anche vero che la Costituente non competa il diritto di pronunzare su questo punto, ciò non potrà mai dirsi la consecuenza logica e neccessaria della formola votata; beasi dipenderebbe da una serie affatto speciale di ragionamenti, e quindi sarebbe forza d’interpellare il popolo un’altra volta su tale questione.
Ora l’apertura di nuovi registri nelle attuali condizioni di guerra, rendendo problematico il fatto dell’unione, ravviverebbe tutte le più avverse speranze, tutti gl’intrighi, chiamerebbe l’intervento funesto della straniera diplomazia, conturberebbe i popoli, affliggerebbe il re, scoragirebbe quel valoroso esercito che nel fermo proposito di fondare l’unità italiana non si duole di ferite, di morti, di stragi d’ogni natura, e si duole all’incontro che il nemico non abbia il coraggio di accettare battaglia.
Ma supponiamo che il Ministero, supponiamo che la Camera non tengano conto di tutto questo: supponiamo che trovino di così vitale importanza l’emenda da correre le sorti suindicate e riaprire i registri: avranno bensì una risposta dal popolo di Lombardia, ma quella delle valorose città di Treviso e di Vicenza, quella dei popoli di Padova e di Rovigo, quando e come l’avranno? L’Austriaco tiene loro un piede sul petto e la spada alla gola.
Esse aspettano dal generoso Popolo piemontese una risposta confortatrice, franca, leale, italiana, come quel voto l’unione che essi non dubitarono di proclamare in faccia al comune nemico, non una risposta fredda, sospettosa, distruggitrice delle loro speranze.
Veglia la Camera prendere in seria considerazione queste nostre parole, e nel supremo interesse della patria comune por mente all’assoluta necessità che l’accettazione sia in perfetto accordo coll’offerta, onde abbia vita ed efficacia il contratto d’unione.


giorno. 26 giugno 1848.
GIUSEPPE DURINI – GAETANO STRIGELLI
ANDREA LISSONI
E. BROGLIO, Segretario

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