Manifesto di Radetzky del 17 marzo 1849

Manifesto del Feld-Maresciallo Conte Radetzky alle truppe da esso comandate.

12 marzo 1849.
Nel momento in cui debbo un’ altra volta trarre la spada per difendere i diritti dell’Imperatore mio signore, e per mantenere l’integrità della monarchia, vado debitore alla mia valorosa armata ed alla santità della causa che difendo di gettare uno sguardo sul procedere del mio avversario, non che sul mio. Grande è il potere di una giusta causa; in essa confido, e lascio senza timore decidere ai contemporanei ed ai posteri da qual parte sia la ragione, se nel campo dell’Inperatore od in quello del Re sardo.
Il possesso dell’Italia fu l’esca a cui fu preso.
Mentre le sue note diplomatiche contenevano le più amichevoli ipocrite espressioni di buon vicino, le colonne della sua armata varcavano il Ticino e marciavano in Lombardia.
Dimentico dei vincoli di parentela che legano la sua casa alla casa imperiale, obliando quanto spesso la casa di Savoja dovette all’Austria la conservazione della sua corona, calpestando la santità di tutti i trattati, ed ogni legge sprezzando che i popoli, dacché uscirono dalla barbarie, sempre rispettarono, irruppe col suo esercito nel nostro territorio, pari al ladro che coglie l’occasione dell’assenza del padrone per compiere con sicurezza il suo furto.
È nota l’origine di questa guerra. Protetta da varj governi italiani, s’era formata un’associazione il cui scopo palese era l’unità d’Italia, ed il mezzo onde conseguirla la caduta della dominazione austriaca; imperocchè senza la cacciata dell’Austria dalle pianure della Lombardia divenisse impossibile l’avveramento di quel pro getto. Chi conosce l’Italia, la sua storia, l’origine de’ suoi stati e delle sue costituzioni,.i suoi popoli e il loro carattere, potrà convincersi che i capi stessi di quel movimento di cui que’ governi erano trastullo, non potevano credere al conseguimento di una unità italiana, ma che loro primo pensiero era la rovina di ogni governo legale, e dell’austriaco in particolare, per far forse nascere più tardi dal sangue e dalle rovine una repubblica rossa. A Carl’Alberto fu assegnata la prima parte in questa farsa politica; facevasi assegnamento sulla sua armata, sulle sue velleità guerresche, non che sui mezzi che poteva accordare al meditato movimento.
Il concentramento delle mie forze nel centro de’ miei mezzi militari, voluto dalla sollevazione generalmente scoppiata, fu da Carl’Alberto riguardato come una fuga, come un abbandono della Lombardia. Fu grande errore; io disponeva ancora di mezzi bastanti da far pentir Milano della sua ribellione; ma non ne feci uso: io sapeva che lo scioglimento della questione non consisteva nella distruzione di una città che volevo conservare al mio Imperatore e signore.
Carl’Alberto attraversò come in trionfo la Lombardia senza incontrare alcuna resistenza, e tenendosi già per padrone di quella, perché non conosceva la differenza che havvi tra l’occupare ed il mantenere un paese.
Al Mincio soltanto incontrò egli l’armata imperiale, e qui ebbe anche fine la sua corsa trionfale. Battuto, ripassò la Lombardia fuggendo più velocemente di quando l’attraversava senz’aver davanti a sé alcun nemico.
Ancora una volta tentò egli, dinanzi a Milano, di resistere alla vittoriosa mia armata; stretto nella città, era in mio potere di costringerlo a render le armi. La mia armata era padrona delle sue comunicazioni, e due giorni avrebbero bastato a rendergli impossibile la fuga da quella città.
Gli avanzi dell’armata nemica erano in disorganizzazione: io potevo star sicuro di non incontrare sulla mia marcia alcun imponente ostacolo, e tuttavia accordai al mio avversario un armistizio. Lasciai che tutti coloro i quali s’erano compromessi, che volevano togliersi al nostro dominio, s’allontanassero, e Milano non faceva certamente conto di essere da me trattata, qual fu, con tanta indulgenza. Ma, usando tal moderazione, credetti operare nello spirito del governo del mio Imperatore e Sovrano.
Io sapeva che l’Austria voleva sostenere il suo buon dritto, respingere un attacco sleale senza esempio, ma non voleva far conquiste, né dar motivo ad una guerra generale in Europa. E perciò ordinai che le vittoriose mie truppe s’arrestassero alle sponde del Ticino.
Non si tosto Carl’Alberto si riebbe dal primo spavento delle sue sconfitte, ed in certo modo ebbe nuovamente raccolte ed ordinate le sue truppe, si tornò da capo coll’antico giuoco de gl’intrighi.
Sotto i più futili ed indegni pretesti non fu eseguita l’evacuazione di Venezia, e non si diè compimento all’art. IV dell’armistizio. Mi vidi obbligato e costretto ad usar di rappresaglia, a trattenere cioè il parco d’artiglieria di assedio che trovavasi in Peschiera, fino a che Venezia fosse sgombrata dalle truppe piemontesi e la flotta avesse abbandonato Alla per
il mar Adriatico fine la flotta lasciò bensì le acque di Venezia, non però per ritornare, giusta l’art. IV dell’armistizio, negli stati sardi, ma per recarsi ad Ancona, donde proseguì ad appoggiare la sollevata Venezia.
Carlo Alberto consideravasi ancor sempre siccome legittimo padrone della Lombardia; di fuggiaschi lombardi formò egli una consulta governativa, che emanò decreti, quasi foss’ella il governo legittimo del paese. I I più sozzi e bugiardi bullettini erano stampati al quartier generale del re, e con ogni mezzo diffusi nella Lombardia a fine di mantenere nel popolo l’acciecamento e l’agitazione.
Uomini scellerati, agenti di provincie sollevate dell’impero, vennero trattati dal re e dalle sue camere quali inviati di potenza amica. Costoro propagarono i i più menzogneri ed incendiarj eccitamenti alla diserzione fra le mie truppe; disertori ed arruolatori illeciti rappresentavano quindi una parte importante al quartier generale del re.
Se avessi presentito che la dignità reale doveva in Carlo Alberto cadere in tanto avvili mento, non gli avrei mai risparmiato l’onta di farlo prigioniero in Milano; per rispetto ad un principio che in faccia alle tendenze antimonarchiche del tempo credevo di dover proteggere anche pel mio nemico, non avrei dimenticato che fra la dignità e la persona esiste ancora una gran distanza.
Gli avvenimenti politici furono cagione che l’armistizio si traesse più in lungo di quello si prevedeva al momento della sua conclusione.
Questo tempo fu dal Piemonte utilizzato a fare incessanti apparecchi di guerra. Fu un inganno, una frase e nulla più, allorché il re domandava un armistizio, pretestando intenzioni di pace.
Egli non aveva peranco obliato la perdita della corona ferrea che già credeva di tener stretta in pugno, non imparato a sopportare il pensiero di vedersi così rapidamente precipitato dal sognato grado di gran capitano.
Gli uomini moderati, di provati sentimenti patrj ed affezionati alla dinastia, furono allontanati dal gabinetto, al loro posto successero i più esaltati repubblicani, fantastici di nessuna abilità
pratica, e milanesi intriganti, i quali spinsero il re, meritevole di compassione, ai passi più estremi e rovinosi, talchè ora, trascinato dall’ambizione e dall’acciecamento, arrischia la prosperità delle sue provincie ereditarie, l’esistenza della sua propria dinastía.
La casa di Savoja con una politica tutt’altro che onesta ha spesso colto il momento di gravi lotte di cui l’Austria era occupata, come avvenne nella guerra di successione austriaca, per trarre a sé frazioni della Lombardia. Ma al possesso di tutto il regno fu primo Carl’Alberto che osò pretendere. E su quali diritti appoggiò egli le sue pretensioni? Su nessuno. L’Austria possiede la Lombardia in forza di quegli stessi trattati a cui la casa di Savoja va debitrice del titolo e del possesso dell’isola di Sardegna. Forse sul diritto di conquista? Carl’Alberto non ha mai conquistata la Lombardia: egli ha colto un istante che il paese era sguernito di truppe per irrompere slealmente in esso, ma ne fu vergognosamente scacciato. Forse adunque sul diritto della libera elezione del popolo, della così detta fusione? Codesta fusione altro non è che una ribellione, un atto estorto illegalmente e violentemente ad un partito, un atto di cui tre quarti della popolazione anche adesso non hanno al cuna cognizione, alcuna idea. Cari’ Alberto, non ha mai goduto le simpatie della Lombardia, né al presente le gode. Lo confessano gli stessi suoi generali. Si faceva assegnamento sulla sua armata, sul suo ajuto, e si lusingava perciò la sua vanità, la sua ambizione: allorché l’armata fu battuta, le simpatie degenerarono in odio e nelle più indegne villanie. Chi vuol conoscere l’amor dei Lombardi per Carlo Alberto, visiti il palazzo Greppi in Milano, e troverà le tracce di quel l’amore nella soffitta della camera dov’era Carlo Alberto, traforata dalle palle; legga la sua vergognosa fuga di notte buja dalla capitale dei suoi fedeli alleati Lombardi, e domandi poscia se un re tanto disprezzato possa essere un le per elezione del popolo?
Giammai re fu trattato sì indegnamente qual fu Carl’Alberto dai Milanesi, e come può mai aver esistito o può per l’avvenire esistere amore ed attaccamento fra lui ed i Lombardi? Ambe le parti s’ingannauo: uno spera di sopraffar l’altro, e quando sia vinto il temuto austriaco, facilmente sbrigarsi dell’influenza l’un dell’altro.
Carl’Alberto lavora alla rovina del suo trono e della sua dinastia, quasi fosse il principale agente di Mazzini; egli, un giorno il più assoluto dei monarchi che mai fosse, crede forse con una politica da trivio rafforzar il suo trono?
Onestà e giustizia sono virtù di cui, men che ogni altro, non può far senza un monarca; la storia non offre esempio che colla slealtà e lo spergiuro si consolidassero i troni, ed anche Carl’Alberto non assicurerà il suo, dopo averlo somminato colla brama di conquista e la smisurata sua ambizione.
Fidando nella giustizia della nostra causa, nel valore della mia armata, vado incontro al nemico se la nostra moderazione nella vittoria non poté indurlo alla pace, decida un’altra volta la spada; il possesso di Torino renderà forse più facili le pratiche di pace.

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