Memorandum del Governo Lombardo ai Governi e Popoli d’Europa

Memorandum del Governo provvisorio Centrale ai Governi e Popoli d’Europa

12 aprile 1848.
IL GOVERNO PROVVISORIO CENTRAL DELLA LOMBARDIA ALLE NAZIONI DELL’EUROPA
Un popolo rigenerato nel sangue suo, sparso in un’eroica battaglia di cinque giorni da lui combattuta con armi disugualissime contro un esercito numeroso e preparato di lunga mano, può fidatamente presentarsi all’Europa ed invocarne il giudizio senza superbia e senza viltà.
Diciamo il giudizio, e potremmo dire il suffragio, perché la nostra causa è già giudicata: da Dio che avvalorò i nostri sforzi, dagli uomini che hanno festeggiata la nostra vittoria. Noi non vogliamo sottrarci al su premo sindacato dell’opinione, interprete della coscienza universale, arbitra inappellabile de’ popoli e de’ re. Abbiamo combattuto e vinto alla faccia del sole, e alla faccia del sole ci presentiamo all’Europa, non per essere assolti della nostra vittoria, ma per far chiaro che vincemmo perché dalla parte no stra era il diritto.
A petto del Governo austriaco, che in forza delle stipulazioni del Congresso di Vienna ci ha tenuti per trentaquattr’anni nella sua signoria, noi abbiamo il diritto inalienabile che tutti i popoli hanno d’esistere da sé e d’essere padroni del suolo della patria: abbiamo il diritto d’essere Lombardi non solo ma Italiani. Ponno i trattati comporre le quistioni pendenti fra popoli: disporre dell’essere del popoli non ponno, così come non potrebbero cancellare la storia, abolire una lingua, stabilire che un fatto passeggiero creato dalla forza prevalga sulle leggi fisse dalla Provvidenza. La vita delle nazioni appartiene a un ordine altissimo, in cui non entra la diplomazia colle sue combinazioni soggette agli interessi momentanei. Può accadere che una nazione percossa dall’ira dei casi o disciolta dalle proprie colpe appaia deposta nel funereo lenzuolo delle sue sventure; ma basta il menomo accidente, basta una parola a restituirle il soffio vitale, e allora essa risorge nel pieno vigore del suo diritto. Né già noi potemmo essere risguardati mai come popolo morto, neppure durante il lungo periodo della nostra servitù, parte che fummo sempre, benché staccata, benché compressa, della nazionalità italiana, ammessa e rispettata non dalla geografia solo o dalla statistica ma dal diritto pubblico di tutto il mondo civile. Di questa nostra nazionalità italiana noi fummo sempre gelosi e tenaci sostenitori. Possiamo accusarci, possiamo essere accusati d’aver subita la dominazione forestiera: non possiamo accusarci né essere accusati d’averne ammesso il diritto, e meno poi d’avere disconfessata mai la nostra nazionalità. Tutta la nostra vita pubblica, tutta la nostra vita privata deporrebbe contro quest’accusa: la smentirebbero tutte le manifestazioni del nostro pensiero nelle scienze, nelle lettere, nell’arti. No, noi non facemmo atto mai d’essere austriaci, e nemmeno Lombardi o Veneti; bensì professammo sempre d’essere e di voler essere Italiani.
Ma se pure noi ci fossimo tranquillamente adagiati alla legge delle circostanze ed avessimo disdetto il nostro diritto, i modi che tenne con noi il Governo austriaco dal fu nesto 28 aprile 1814 al giorno della sua cacciata furono tali da rendercelo incomporta bile pel sentimento della nostra dignità d’uomini e di cristiani. Sicuri nella quistione di diritto, siamo tanto vittoriosi nella quistione di fatto che sentiamo il bisogno di contenere in faccia all’Europa la mostra parola perché non paia che vogliamo farci spettacolo di miracolosa pazienza.
Il Governo austriaco s’affaticò del continuo non solo a diseredarci della patria no stra e a farci credere uomini, contrada e provincia dell’Austria, ma ben anco intese ad avvilirci innanzi a noi stessi come apostati della famiglia italiana: intese a corromperci, a toglierci ogni coscienza, ogni vita. Nel 1815, quando lo sgomentava la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba e il moto italico di Gioachino Murat, promettevaci rispettata la nostra nazionalità, una costituzione, una rappresentanza italiana; e tante promesse riescivano alla bugiarda rappresentanza delle Congregazioni centrali e provinciali, che di mano in mano venivano spogliate d’ogni iniziativa, d’ogni diritto, ed anche di quello di consigliare e supplicare.
Promettevaci conservare quella nostra mili zia che sui campi di battaglia di Napoleone aveva gloriosamente ricevuto il battesimo del fuoco; e subito la scioglieva e la mescolava con le milizie delle altre provincie dell’impero, facendo così del nobile mestier dell’armi una schiavitù vergognosa per noi, uno stromento di schiavitù per noi e per gli altri. Prometteva pagare i debiti che s’era assunti, ereditando del regno d’Italia, e li riconosceva per giusti; poi li disconosceva e non pagava, aggravando invece il Monte Lombardo-Veneto, cassa italiana, di debiti austriaci e facendoli di soppiatto pagare con turpe mistero.
Nessuna ci serbava delle sue promesse il Governo austriaco, ed il ricordo medesimo ne sbeffeggiava e puniva.
Violator della fede, nell’arbitrio non doveva aver freno, e non l’ebbe. Ci gravò di imposte smodate sui beni, sulle persone, sulle necessità: ci obbligò ad assicurarlo dal fallimento, a cui le sue scompigliate finanze, stolidamente e ladramente amministrate, d’ora in ora lo strascinano. Ci condusse intorno una siepe d’impiegati forestieri, pubblici funzionarii e spie segrete, mangianti il nostro pane, amministranti i nostri interessi, giudicanti i nostri diritti, ignari di nostra lingua e d’ogni nostra consuetudine. C’impose leggi bastarde, inefficaci per la loro moltiplicità; c’impose una procedura crimimale lunghissima, inestricabile, ove non era di pubblico, di solenne, di vero che la sentenza e la condanna, la prigione e la gogna, il carnefice e il patibolo. C’impigliò in una rete di regolamenti civili e militari, giuridici ed ecclesiastici, tutti inceppanti, tutti mettenti capo al centro di Vienna, che doveva aver sola il monopolio del pensieri, delle volontà, dei giudizi. Ci vietò ogni sviluppo di nostro commercio, di nostra industria, per servire agli interessi delle altre provincie e delle fabbriche privilegiate erariali, privata speculazione de viennesi oligarchi. L’ordinamento municipale e comunale, antico vanto di queste contrade, prezioso deposito del lucido buon senso italiano, assoggettò a una tutela minuziosa, molesta, tutta negl’interessi del fisco, tutta rivolta a stringere, a impastoiare. La religione finse proteggere per usarla a strumento di dispotismo, e la fe’ schiava delle ignobili sue paure. Alla pubblica beneficenza tolse ogni azione spontanea, la intricò nelle lungaggini amministrative, la ridusse una docile macchina dell’aulica onnipotenza. Non permise od a stento permise, ed armandosi delle cautele più basse, che la carità cittadina sorgesse a soccorrere la pubblica miseria, a frenare e purgare il contagio della corruzione abbandonato a sé stesso sulle vie e ne’ tugurii, ne’ ricoveri e nelle carceri. Si impadroni del patrimonio de’ pupilli, obbligando i tutori ad investirlo nelle carte pubbliche lasciate alla balìa delle misteriose sue frodi. Le professioni liberali ammiseri, assoggettando il loro esercizio alle prescrizioni più grette, più vessatorie. Perseguitò la scienza italiana, cercò distruggerla coi moltiplici studi introdotti nel pubblico insegnamento, tutti falsati, tutti confusi, perché l’idea non restasse in noi libera, perché il peso e la massa fiaccassero lo slancio e facessero abortire l’ingegno. Sollevò ridicoli scrupoli, inciampi odiosi e infiniti alla stampa italiana, alla diffusione della stampa forestiera, per mortificare in noi l’intelletto ed il cuore, per appartarci dalla civiltà europea. Insidiò, martoriò gli uomini più chiari, protesse in cambio le intelligenze e le nature servili: organizzò la vendita infame delle coscienze: organizzò in esercito lo spionaggio: eresse la delazione e il sospetto in sistema: fe’ arbitra la Polizia della libertà, delle vite, delle fortune: imputò colpa al desierio, inflisse pena alla parola, intimò minaccia al pensiero: confuse e disperse le vittime del patrio amore con gli assassini e coi falsarii.
E tutto questo e di peggio noi soffrimmo per tanti anni; soffrimmo l’onta che ce ne gravava in faccia a noi stessi, in faccia all’Europa: tutto soffrimmo col coraggio della pazienza, procacciando a grande studio che in noi non si spegnesse la favilla del senti mento nazionale. Poco aspettavamo, nulla desideravamo dal Governo austriaco; ma ci ratteneva l’idea della terribile responsabilità che ci saremmo addossata, gettando, forse prematuramente, in mezzo all’Europa la gran quistione della nostra indipendenza. I moti del 1821 e del 1830 ci agitarono, ci scossero nel profondo, e il grido che usci pel mondo delle crudeli torture di Spielberg annunciò quanti nobili ingegni, quante ani me ardenti avessero fra noi giurato sin d’allora di sacrificarsi alla causa nazionale.
Tuttavia il paese intero continuò nella sua longanimità, nella sua perpetua, ma tacita protesta contro il Governo austriaco, e mostrò d’essere deliberato ad aspettare sino a quel giorno in cui fosse colma la misura delle sue oppressioni e della nostra pazienza.
E quel giorno venne. Alla voce del gran Pontefice che Dio suscitò per la salute d’Italia, per l’affrancamento di tutte le genti cristiane, noi ci sentimmo rinfiammati di tutti i nostri cittadini affetti; noi ci sentimmo più che mai Italiani. Fattici del suo nome il simbolo delle nostre speranze, del nostri intenti, cominciammo ad effondere gli animi nostri da sì gran tempo compressi, a manifestare il nostro sentimento nazionale con un tributo unanime d’ammirazione, di gratitudine, d’amore a Pio IX. Ed ecco il Governo austriaco spiegar tutto l’apparato della sua forza per impedire che ci mostrassimo Cattolici ed Italiani, per farci complici quasi del suo odioso attentato di Ferrara:
eccolo rompere ogni freno alla cieca e crudele ira sua, e sull’inerme popolo milanese, festeggiante nel nome di Pio IX l’ingresso nella sede del suo novello arcivescovo, sguinzagliare i suoi sgherri, i suoi soldati trasformati in sgherri, e imbrattare di sangue incolpevole le piazze e le vie. Ah! Quel sangue avrebbe dovuto farci gridar guerra irreconciliabile al Governo austriaco; eppure noi avemmo ancora pazienza; volemmo vedere, volemmo che l’Europa vedesse fin dove potesse giungere il dispotismo della Casa di Lorena.
Da quel giorno noi ci demmo a moltiplicare le proteste, i reclami, le domande: le Congregazioni centrali, le provinciali, le municipali, tutti i Corpi costituiti, amministrativi, giudiziarii, scientifici, i cittadini più distinti si associarono, senza saputa gli uni degli altri, in una supplica sola, in una sola protesta: fu una voce sola in tutto il paese, un solo lamento, una sola manifestazione, che proruppe in ogni maniera d’atti: mai non fu veduto un accordo così unanime di tutto un popolo. Ma il Governo austriaco mostrò d’accorgersene solo per eluderlo, per volgerlo in deriso, per soggiogarlo. Dal nostro canto il rispetto della legalità recato fino allo scrupolo: dal canto suo le provocazioni e gl’insulti, gli arresti arbitrarii, le proclamazioni insensate. Ma fece di più. Organizzò l’assassinio, lo consigliò, lo protesse:
sprigionò sicarii pagati in vino e in denaro contro uomini inermi, contro cittadini pacifici: non dubitò disonorare in opera sì nefanda la militare assisa; e Milano per la seconda volta, nel 3 gennaio d’infame e dolorosa memoria, e Pavia e Padova videro rinnovate le stragi di Galizia.
Eppure noi durammo ancora ad essere pazienti; e benché il cuore ce ne sangui nasse, accennammo dar fede alle parole lusinghevoli con che si cercò sopire la nostra indegnazione: parole bugiarde, benché movessero dal seggio più vicino al trono: parole tosto disdette dalle proscrizioni, dalle deportazioni, dal nuovo apparato militare diretto a fulminare la nostra città, dalla proclamazione del giudizio statario. Durammo ancora ad essere pazienti, e ci rassegnammo a divorar gli schermi più amari, gli oltraggi più crudeli per oltre due mesi lunghissimi, che ci furono una continua agonia.
Finalmente il 18 di marzo usciva in Milano un Bando in cui s’annunziava che il Governo austriaco s’era deliberato di con cedere a suoi popoli istituzioni più larghe, e promettevasi la libertà della stampa e la convocazione in Vienna pel mese di luglio delle Rappresentanze di tutti gli Stati della Monarchia. Nel tempo stesso spargevansi le novelle del moto viennese, da cui raccoglie vasi che il Governo austriaco aveva dovuto cedere a fronte dell’insurrezione. Quel bando e quelle novelle rivelavano che si trattava di una promessa estorta, da eludersi o rinnegarsi appena le circostanze mutassero. E però noi risolvemmo tentar l’ultimo esperimento e chiarire le intenzioni di Vienna all’Europa: vittima ch’eravamo da tanti anni dei soprusi e delle frodi della Polizia, domandammo che questa fosse disciolta e che a tu tela dell’ordine pubblico venisse armata una milizia cittadina.
Ci fu risposto a colpi di moschetto e di Cannone, Allora noi sentimmo giunto il momento di operare, e sorgemmo: cessammo allora d’esser pazienti: allora ci deliberammo di farla finita e per sempre.
Dio fu con noi! Con qualche centinaio di moschetti, con quell’armi che il caso ci offrì, col selciato delle nostre vie, coi tegoli dei nostri tetti, coi congegni delle nostre barricate, col suono delle nostre campane, in una battaglia di cinque giorni, abbiamo sgomentato e volto in fuga un esercito di ben sedicimila soldati agguerriti, che dall’atroce lor Capitano erano stati rinfervorati con la promessa dell’incendio e del saccheggio, Dio fu con noi, con noi deboli contro il forte violento; e non appena per noi s’espugnavano le porte della nostra Città, noi ci vedevamo circondati da turbe di nostri fratelli, armatisi al grido del nostro combattimento, e che, accorsi per dividere con noi i pericoli della lotta, con noi divisero il tripudio della vittoria.
Non ancora son corse intiere tre setti mane, e l’Italia tutta ci ha stesa la sua mano soccorrevole e fraterna. Il magnanimo Re di Sardegna s’è posto alla testa del primo italiano esercito che da oltre tre se coli abbia difesa la causa italiana; e una voce sola è sulle nostre labbra, come un solo affetto ne’ nostri cuori:
VIVA L’INDIPENDENZA ITALIANA!
Il Governo austriaco per noi non è più: esso è il nostro nemico, che dobbiamo, che vogliamo combattere, che lealmente combatteremo sotto la bandiera tricolore, bandiera nostra e d’Italia: è il nostro nemico, con cui non vogliamo venire a patti mai più.
Siamo risorti a popolo; siamo ridivenuti interamente Italiani, e nella sacra gioia di che questa coscienza c’inebria, sentiamo orrore persin dell’idea di qualsivoglia forestiera signoria. Noi crederemmo venir meno ai miracoli che Dio ha operato in noi, se non ci rinfiammassimo nella fede d’esser chiamati a stringerci con tutti i nostri fratelli d’Italia; se non dichiarassimo in faccia al mondo che non saremo più mai per curvare il collo sotto il giogo del Governo austriaco, né per venire con esso a verun componimento.
Se anche lo volessimo, nol possiamo: il Governo austriaco stesso, e ne siam lieti e ne ringraziamo Dio, ci ha posti in tale con dizione che nol possiamo. Egli ci fa una guerra di esterminio: egli ha rinnovati contro di noi gli esempi delle devastazioni pagame e barbariche. Le carnificine, le depredazioni onde l’orde sue hanno segnata la via dell’obbrobriosa lor fuga, aprirono fra noi ed esso un abisso che ci disgiunge per sempre. Le nostre campagne desolate dal sacco e dal fuoco, le nostre chiese profana te, le vituperate nostre donne, i nostri bambini sgozzati ed arsi, i cari capi de’ nostri fratelli imprigionati a tradimento e trascinati dalle bande fuggitive, ci fanno impossibile ogni pensiero d’accordo col Governo austriaco. Da tal nemico, che ha di tal guisa sconsacrata la guerra, come potremmo noi ricevere parola di pace? È guerra di di fesa la nostra; è guerra di civiltà contro barbarie; e noi la proseguiremo impavidi, preparati a tutto, e anche ad affrontare l’estremo eccidio, con l’animo di chi postosi a un gran cimento né vuole ritrarsene né può Di queste nostre dichiarazioni, di questi nostri proponimenti noi invochiamo mallevadrice l’Europa: all’Europa ci volgiamo per domandarne l’efficace concorso in opera di alta giustizia ed umanità. Il Governo austriaco bandisce contro di noi una crociata; suscita le sue popolazioni con tutti gli argo menti dell’odio, con tutte l’arti dell’ipocrisia:
Noi non temiamo i suoi battaglioni: noi li aspettiamo nella sicurezza che la vittoria sarà un’altra volta dalla parte del diritto Ma per l’onor di questi tempi, per l’onore della civiltà e del nome cristiano, ci contrista il pensiero di quelle popolazioni, acciecate da un feroce fanatismo, che verranno a combattere una guerra così sciagurata ed iniqua. Tocca all’Europa d’illuminarle, di farle accorte del lor veraci interessi, di rimoverle da un’impresa donde non racco glierebbero che lutti ed obbrobrii. Levi l’opinione europea il suo forte grido, e certo accadrà che si risparmi a questo secolo la vergogna della rinnovata barbarie.
Intanto a Dio noi commettiamo le nostre sorti, all’Europa il giudizio del nostri atti, Questo tempo è grave d’eventi che debbono su nuove basi ricomporre la società cristiana. Forse non è lontano il giorno in cui tutti i popoli, disdetti i vecchi rancori, si raccoglieranno sotto il vessillo dell’universale fratellanza, e cessate tutte le dispute, si daranno a coltivare fra loro relazioni del tutto pacifiche, di cui il commercio e l’in dustria stringeranno il saldo legame. Noi affrettiamo del nostri voti quel giorno: liberi, indipendenti, Italiani, noi annoderemo allora volonterosi i vincoli santi della pace fraterna, anche, se il vorranno, coi popoli ch’oggi formano l’Impero d’Austria. E le Nazioni ci accoglieranno nel consorzio europeo perché potremo dir loro: Noi che fra tutte le italiche genti fummo destinati a patire di più, ad espiare più dolorosamente le colpe e gli errori degli avi, noi avemmo la gloria di suscitarle tutte, di ritemprarle nelle emozioni sublimi del nostro combattimento e della nostra vittoria, di stringerle tutte in torno al nazionale vessillo: noi siamo degni di parlare in nome della Patria Italiana.


Milano, il 12 aprile 1848.
CASATI, Presidente
BORROMEO – DURINI – LITTA – STRIGELLI GIULINI – BERETTA – GUERRIERI TURRONI – MORONI – REZZONICO – Ab. ANELLI CARBONERA – GRASSELLI – DOSSI
CORRENTI, Segretario generale

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