Quintino Sella – Prima parte

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Quintino Sella ministro e scienziato – Prima parte

Categoria: Saggi biografici

Il politico e scienziato Quintino Sella nacque a Sella di Mosso (Biella) da Maurizio e Rosa Sella (i genitori erano cugini) il 7 luglio 1827 (fu uno dei 20 figli della coppia, di cui 10 sopravvissero). La sua famiglia era dedita all’attività imprenditoriale nel settore dell’industria laniera, del quale fu pioniere Pietro Sella (1784-1827), prozio di Quintino.
Sella studiò fino ai diciassette anni presso una una scuola di studi classici poi andò a Torino dal 1843 al 1847 ove studiò ingegneria Idraulica e qui si laureò il 3 agosto 1847. Studio sotto la guida di Carlo Ignazio Giulio (meccanica) e dell’astronomo Giovanni Plana (analisi) maturando un particolare interesse per la Geometria e l’Algebra.
Entrò quindi nel Regio Corpo delle miniere quindi venne inviato a specializzarsi a Parigi ove giunse il 1° novembre 1847, grazie all’interessamento del suo professore Carlo Ignazio Giulio, dal Ministro degli Interni Luigi Des Ambrois (1807-1874), presso l’École des Mines, ove restò dal 1848 al 1851 quando conseguì il il diploma di éleve brevété dell’Ecole des Mines. Qui maturò uno speciale interesse per lo studio delle proprietà ottiche dei cristalli e della costituzione molecolare della materia, grazie anche aal mineralogista Henri Hureau de Sénarmont (1808-1862), con il quale intrattenne in seguito una corrispondenza scientifica.
In questi anni giovanili si interessò già di politica e prese posizioni in favore del progetto unitario anche se, agli inizi, aderì al progetto prospettato da Gioberti nel 1842 nel testo Del primato morale e civile degli italiani, ovvero la formazione di una confederazione di Stati nella penisola sotto la guida papale. Durante il soggiorno in Francia però aveva già mutato in parte idea e durante i moti del 23 e 24 febbraio 1848 a Parigi che portarono alla caduta degli Orleans e all’avvento della repubblica parteggiò per quest’ultima, assistendo anche in prima persona a vicende come la presa delle Tuileries. In linea con questa nuova e più radicale posizione comunicò il 19 marzo 1848, al fratelli Giuseppe Venanzio, la sua intenzione di arruolarsi come volontario non appena fosse scoppiata la guerra con l’Austria quindi, una volta tornato a Torino e scoppiate le Cinque Giornate di Milano, in maggio si recò nella città liberata e cercò di arruolarsi come volontario ma venne dissuaso dal ministro Des Ambrios che lo convinse il 24 a ritornare a Parigi e riprendere gli studi.
Terminato il triennio di studi parigini si perfezionò, come previsto, nei due anni successivi con viaggi di studio nei distretti minerari dell’Harz e della Sassonia meridionale. Nell’aprile del 1852 in Inghilterra per studiare le innovazioni tecniche del settore, in particolare le manifatture per il tempo all’avanguardia.
Ritornato definitivamente a Torino nel settembre del 1852, divenne il 2 dicembre dello stesso anno professore sostituto al Regio Istituto tecnico di Torino, insegnando geometria applicata, e poi dal 27 novembre 1853 divenne professore sostituto di matematica all’Università. Tenne, in questi anni, anche corsi serali presso le scuole di meccanica applicata alle arti e di chimica applicata alle arti, il suo interessamento all’istruzione tecnica continuò anche negli anni successivi quando cercò di darle impulso e pubblicò, nel 1861, il libro Sui principi geometrici del disegno e specialmente dell’axonometrico, opera con la quale introdusse nell’insegnamento scolastico i “principi teorici delle proiezione assonometriche”[1]Lacaita, Poggio (a cura di), Scienza tecnica e industria, pag.112.. Il suo interesse per la formazione professionale degli operai lo portò ad appoggiare l’impiego delle Società operaie stesse come strumento di istruzione dei loro membri, motivo che portò la Società di mutuo soccorso e istruzione degli operai di Torino a nominarlo suo socio onorario il 2 maggio del 1867.
Sempre nel 1853 ricoprì la carica di reggente del Distretto minerario di Moütiers in Savoja e in seguito, nel febbraio del 1856, divenne Ingegnere di 2ª classe del Regio Corpo delle Miniere (si dimise dalla carica quando divenne deputato) e nel 1858 assunse la reggenza del distretto di Torino. Nel 1857 fece parte della commissione incaricata di esaminare la possibilità di costruire la galleria del Moncenisio con perforatrici meccaniche ad aria compressa, predispose per questo, in una cava presso Genova, alcune esperienze che portarono Cavour ad approvare l’impresa.
Nel campo scolastico, assieme al geologo Bartolomeo Gastaldi (1818-1879) dal 1853 iniziò l’opera di riorganizzazione della Collezione Barelli (4.000 esemplari) del Regio Istituto Tecnico (dove ricopre anche la carica di Direttore del Gabinetto mineralogico), arricchendola con la propria collezione (costituita da 7.102 esemplari e donata nel 1858) e portandola complessivamente a ben 18.000 campioni. (Lo stesso anno in cui iniziò quest’opera, il 29 luglio, Quintino Sella sposò la cugina Clotilde Rey (figlia di Giacomo Antonio Rey e di Maria Luigia Sella), quindici giorni prima aveva ottenuto la necessaria dispensa dal vescovo di Biella Pietro Losana a causa della parentela). Nel 1858 la sua perizia nel campo venne riconosciuta e fu chiamato come ispettore della “Classe di mineralogia e metallurgica” per la esposizione nazionale dei prodotti dell’industria svoltasi a Torino.
L’anno successivo, in seguito ai mutamente politici in corso (la guerra con l’Austria), si arruolò in maggio nella Guarda nazionale di Torino.

L’inizio della carriera politica

Il 25 marzo 1860 venne eletto deputato della destra del collegio di Cossato (Biella) con 384 voti contro 241 (venne poi riconfermato anche il 16 ottobre 1864 con 324 voti su 330 e nell’ottobre del 1865 con 461 voti su 539) e si dimise dalla cattedra di mineralogia della Scuola di Applicazione per Ingegneri[2]Ente sorto, con sede al Valentino, dal precedente Istituto Tecnico di Torino e di cui lui stesso aveva promosso la nascita., ottenuta nel 1853, prima era stato assistente di Bartolomeo Gastaldi. Sella aveva già prestato le sue competenze tecniche alla politica, fu assieme a Felice Giordano (1825-1892), il redattore della legge n. 3755 del 1859 sulle miniere che istituì il Corpo delle Miniere al posto dell’Ispettorato Generale delle miniere degli Stati Sardi e collaborò con il ministro della Pubblica Istruzione, Gabrio Casati, per redige la parte di legge sull’istruzione nel 1859 che trasforma le Scuole Tecniche in Scuole di Applicazione per Ingegneri.
Nella nuova veste si recò a Bologna per i lavori della Commissione istituita dal ministro dei Lavori pubblici per la determinazione del tracciato della ferrovia tra Bologna e Pistoia (nel maggio del 1864 si sarebbe anche recato a Napoli per la questione delle ferrovie Meridionali); si interesso pure del suo collegio presentando già nel giugno del 1860 una richiesta per l’istituzione di scuole speciali tecniche a Biella (in città viene poi aperta una Scuola professionale per operai nel 1869 da lui promossa), poi tu uno dei 41 deputati firmatari della “Legge Pica”[3]Il testo della legge (Link consultato il 30/11/2017)., la legge n. 1409 del 1861[4]Questo anno venne anche eletto, l’11 luglio, consigliere comunale a Torino. contro il brigantaggio meridionale ed appoggiata dal governo.
Quest’anno, il 1861, venne rieletto deputato e in marzo presentò una proposta di legge per trasformare da regionale toscana a nazionale l’esposizione di pittura, promossa dal governo, che si stava organizzando a Firenze e anche di spostarla a settembre, nacque così la prima “Esposizione Nazionale”, svoltasi appunto a Firenze alla Stazione Leopolda, su progetto dall’architetto Giuseppe Martelli, dal 15 settembre 1861 – quando venne inaugurata dal re Vittorio Emanuele II – fino all’8 dicembre (il governo provvedette al suo finanziamento stanziando nel complesso ben 700.000 lire).
Il 27 maggio del 1861 tenne il suo primo importante discorso come deputato durante il dibattito sulla conversione di due decreti emessi il 18 agosto e il 12 settembre 1860 che riducevano la già bassa tariffa doganale di alcuni prodotti cotonieri. Si schierò in favore delle tesi protezionistiche trattando la questione nell’ottica del futuro e dello sviluppo dell’industria italiana, secondo lui l’esistenza di un vasto mercato unico nazionale, l’adozione di una politica di protezione doganale non avrebbe condotto alla creazione di monopoli e privilegi come era capitato in stati di piccole dimensioni, ma avrebbe intensificato la concorrenza interna tra le varie industrie che avrebbe portato ad un aumento della produzione interna, una riduzione dei prezzi e il formarsi di una struttura economica che avrebbe reso il paese capace, in seguito, di abbassare le tariffe e fronteggiare la concorrenza internazionale; in aggiunta criticò l’abolizione perché troppo rapida fatto che impediva alle industrie di adattarsi al mutamento e quindi le avrebbe danneggiate. La sua posizione in materia si contrapponeva alla teoria diffusa basata sui costi comparati elaborata da Ricardo e che collegava lo sviluppo nazionale e il commercio internazionale in maniera opposta; il suo intervento causò un contro intervento di Cavour in favore del liberismo il 27 maggio, il suo ultimo discorso parlamentare.
Sempre quest’anno, in giugno, a riprova della carriera politica che ormai stava facendo, gli venne offerta la carica di segretario generale del ministero della Pubblica Istruzione, incarico che però rifiutò perché non venne accolta la sua richiesta di non percepire uno stipendio per tale mansione.

Ministro delle Finanze

Dopo dal 4 marzo all’8 dicembre 1862 fu ministro delle Finanze nel governo Rattazzi[5]Fu uno dei cinque ministri piemontesi del governo, assieme a Rattazzi (presidente e ministro degli Interni ad interim), generale Petitti (Guerra), ammiraglio Persano (Marina), Depretis (Lavori … Continue reading (in questa veste emanò un nuovo regolamento sulle dogane, approvato il 18 dicembre 1862[6]Sin dall’anno precedente Sella si era schierato contro la politica protezionistica, che riteneva dannosa per l’industria nascente nel paese.), dicastero che guidò anche nel periodo 28 settembre 1864-dicembre 1865 (governo La Marmora) che cadde in seguito alle forti polemiche e ad una interpellanza sull’affidamento del servizio di tesoreria alla Banca Nazionale deciso da Sella. Poi dal 14 dicembre 1869 al 19 luglio 1873 nel governo Lanza (questo governo venne formato dopo una lunga crisi del governo Menabrea, lo scoppio dello scandalo politico legato al caso Lobbia e il fallimento della formazione di un governo Sella, incarico affidatogli l’8 dicembre dal re a mezzo di Minghetti, a cui lui stesso rinunciò proponendo invece Lanza). Rifiutò invece l’offerta di entrare nel 1866 nel governo Ricasoli come ministro della Marina, ritenendosi incompetente nella materia.
Già in questo periodo, vista la sua carica, dovette iniziare ad intervenire per affrontare il problema economico derivante dal processo di unificazione, poi negli anni successivi – come si vedrà – adottò un articolato progetto. I problemi derivavano dal fatto che il debito pubblico del Piemonte era pari a 1.321 milioni di lire nel 1860, ma dopo le annessioni e l’adozione da parte del nuovo regno del debito degli stati preunitari, era salito a 2.402,3 milioni di lire[7]Costa Cardol, Ingovernabili da Torino, pag.231., il tutto che era aggravato da un disavanzo di bilancio dello stato che Sella stimava in 350 milioni per il 1861 (Pietro Bastogi lo stimava in 61 milioni) e per il 1862, sempre secondo Sella, sarebbe stato di 500 milioni (alla fine lui stesso lo indico pari a 772.157.501 lire nella esposizione finanziaria tenuta il 1° dicembre 1862), fatti che rendevano necessario un esame accurato di ogni voce di spesa “con la lente dell’avanzo”[8]Costa Cardol, Ingovernabili da Torino, pag.174. Per cercare di fare, almeno in parte, fronte sin dal dicembre 1861 fece estendere a tutto il regno il decimo di guerra introdotto il luglio 1859 in Piemonte, una sovraimposta del 10% su ogni tributo diretto o indiretto.
Tutta la sua azione nel campo fiscale era incentrata sull’obiettivo del pareggio di bilancio da raggiungere ricorrendo al credito, alla alienazione dei beni dello Stato (il suo piano, esposto il 14 febbraio 1863, pianificato fino al 1867, prevedeva anche “l’affidamento alle imprese private di investimenti in settori di interesse pubblico garantiti parzialmente dallo stato”[9]Capone, Destra e sinistra da Cavour a Crispi, pag.158.) e degli enti ecclesiastici soppressi (nei suoi interventi parlamentari del 4 novembre 1864 e 14 marzo 1865 presentò appunto il progetto di vendita di beni demaniali in cambio di un anticipo di 250 milioni al Tesoro), alla riduzione delle spese e all’aumento delle entrate fiscale; questa azione portò, nel periodo che va dal 1865 al 1871, ad un aumento del 63% del gettito derivante dalle imposte dirette e del 107% di quello derivante da imposte indirette[10]Poidomani, Fare l’Italia, pag.29., queste poi aumentarono ancora negli anni successivi.
Fu per la prima volta dopo il 1864 espressione diretta di una maggioranza parlamentare, di cui Sella stesso fu il promotore dopo il fallimento del tentativo di formare un governo guidato da Cialdini e che lui si era dichiarato disposto ad appoggiare ma che i deputati piemontesi a lui vicini si rifiutarono di appoggiare.
Nel marzo 1862 fece approvare una versione modificata del progetto presentato da Bastogi di estendere la legge di successione del Piemonte a tutta l’Italia, con alcune modifiche, poi riuscì a far approvare l’introduzione della tassa di bollo, l’imposta ipotecaria, l’imposta di manomorta sui beni ecclesiastici ed una tassa sul movimento ferroviario, che colpiva i trasporti a grande velocità con un’aliquota del 10%, anche se incontrando in questo caso maggiori ostacoli. Tutto questo era stato reso necessario dalla presenza di un disavanzo di bilancio superiore a quello previsto da Bastogi, ma non fu sufficiente e per questo ottenne anche l’approvazione della vendita di alcuni beni demaniali e dell’emissione di buoni del tesoro per 200 milioni. Il giugno, la commissione a cui era stata affidata lo studio, respinse un’altra sua proposta di introdurre dei dazi consumo, dei prelievi fatti al momento dell’immissione in un comune di prodotti destinati al commercio, venne ritenuta eccessivamente favorevole per i comuni interessati (una versione simile della norma venne poi approvata sotto il governo Minghetti e divenne legge il 3 luglio 1864).
Il 21 agosto 1862 venne anche approvata un’altra legge da lui proposta per l’unificazione normativa del paese, questa estendeva l’attività della Cassa ecclesiastica, creata in Piemonte con la legge 29 maggio 1855 per la gestione dei beni degli ordini soppressi, a gran parte del paese per svolgere anche nelle nuove terre annesse questa attività.
Non riuscì invece a far approvare un disegno di legge, sempre del 1862, mirante all’introduzione di un sistema di appalto per la riscossione delle imposte, visto che riteneva inadeguato quello in uso nel Regno di Sardegna (vi riuscì solo in un secondo tempo, con un nuovo progetto approvato il 20 aprile 1871, la legge n. 192 Concernente la riscossione delle imposte dirette[11]Quest’anno i proventi derivanti dalla imposte dirette sono parti al 165% rispetto a quelli ottenuti nel 1865., la prima normativa organica in materia di riscossione delle imposte dirette che introduceva la possibilità per il Comune di scegliere tra la nomina dell’Esattore delle imposte sopra una terna e la nomina mediante asta pubblica).
Sempre questo anno, il 18 novembre 1862, presentò alla Camera il progetto di legge per l’imposta di ricchezza mobile (i lavori erano iniziati sotto il ministro Bastogi e continuati con Minghetti che attuò sostanzialmente le proposte di Sella ma dilazionandole in un quadriennio), durante il discorso di presentazione dichiarò:

Fra i mezzi ai quali si poteva ricorrere, con grande probabilità di felice successo, per conseguire lo scopo che tanto, e con tanta buona ragione, preoccupa oggidì, del bilancio dello Stato, un’imposta sui redditi della ricchezza mobile era quello che più prontamente si offriva e sembrava meritare la preferenza. Due titoli di gran momento la raccomandano alla vostra attenzione, e furono per me decisivi. In primo luogo, il principio da cui essa parte, considerato teoricamente, ne fa la sola, tra le molte specie d’imposte che nel mondo prevalsero, la quale si accosti assai da vicino al concetto fondamentale delle pubbliche contribuzioni. La tassazione dei redditi procede logicamente e nettamente; abbandona le antiche vie tortuose, non cerca la cosa tassabile indipendentemente dall’uomo, non vuole proteggere industrie né favorire classi sociali, né opprimerne altre; ma, fondando direttamente i suoi calcoli sulla cifra reale della ricchezza, invece di andar tentoni cercandone gli indizi bene spesso fallaci, pone chiaramente il problema preciso della finanza: data una spesa da sopportarsi in comune, domanda a ciascun cittadino la parte sua, non già con la legge cieca del testatico, ma secondo l’annuo reddito che ciascuno possieda, secondo, cioè, il solo titolo per cui il cittadino possa sentirsi tenuto di concorrere in un’annua spesa che si faccia a beneficio di tutti. Si direbbe che la tassazione dei redditi sia l’inaugurazione della verità nelle imposte; costituisce forse l’unico caso al quale non possa competere l’espressione felice di cui si servivano i nostri padri, quando avevano dato il titolo di gabbanti a quelle tasse che gli Stati moderni han chiamato semplicemente indirette … In secondo luogo, questo teoretico pregio ha il suo naturale riscontro nella pratica amministrazione. Raggruppando le varie forme della produzione annuale per colpirle di una sola imposta, non solo si semplifica sempre più il metodo della riscossione, ma ancora, ciò che importa di più, si diminuisce il disturbo dei contribuenti. … Una sola obbiezione sembrava affievolire i motivi di favore, da cui si presenta accompagnato il principio di un’imposta sui redditi; ed essa è la difficoltà, vera o temuta, della sua pratica attuazione. Confesserò alla Camera che, avanti a questo dubbio, io pure ho alquanto esitato … Ma, dando attorno uno sguardo sul mondo e sulla storia, io ho trovato che l’Italia oggi sarebbe piuttosto il solo paese in cui il principio di un’imposta sui redditi, sotto una forma qualunque, pura o mascherata da imposta sul capitale, stabilita in modo perpetuo o temporaneo, sotto un titolo o sotto un altro, non figuri ancora esplicitamente nella legislazione finanziaria.

Questo tipo di intervento era reso necessario dalle condizioni delle casse pubbliche, come lui stesso dichiarò il 1° dicembre 1862, il giorno della caduta del governo Rattazzi, il disavanzo per il ’62 era pari a 418 milioni di lire e quello previsto per l’anno successivo pari a 354 il che rendeva per lui necessario l’emissione di un prestito di 500 milioni e 150 milioni di buoni del Tesoro, necessari per coprire le il disavanzo dell’anno in corso e parte di quello dell’anno nuovo. Questo intervento andava poi legato alla normativa sull’imposta di ricchezza mobile che una volta approvata avrebbe, secondo lui, garantito un introito di altri 100 milioni almeno e alla cessione ai privati delle ferrovie del Piemonte che avrebbe garantito altri 150 milioni; nel 1862 per far fronte alla situazione propose di cedere all’industria privata la costruzione delle ferrovie, alienare i canali posseduti dal demanio, passare al demanio i beni posseduti dalla Cassa ecclesiastica e alienare questi e i beni demaniali non destinati a uso pubblico.
Dichiarò il 1° dicembre 1862 alla Camera “ad assestare le nostre finanze occorrono imposte, imposte, null’altro che imposte”, poi aggiunse:

Credo invece che si debba far scomparire il più presto possibile il disavanzo ordinario, e nel pareggiare le entrate ordinarie con le spese ordinarie trovo il problema che, unitamente alla distruzione del brigantaggio nelle Provincie meridionali è in questo momento più urgente di risolvere: quello infine che oggi deve più di tutto occupare ogni uomo che abbia veramente a cuore la sua patria. E in verità giacché per malaugurate traversie indipendenti dal nostro volere non possiamo immediatamente pervenire alla nostra meta suprema, in niun altro modo provvederemo meglio alla salute d’Italia, che ordinandone la parte che è libera, e sopratutto ordinandone le armi e la finanza. Ed i momenti sono preziosi; imperocchè quando i tempi si facessero grossi, non si potrebbe forse più fare allora quello che oggi non solo è possibile, ma relativamente parlando, non malagevole. Ora in quanto al disavanzo ordinario io non vi posso esporre le cifre confortanti, che teste vi esponevo per l’andamento del disavanzo totale. …
V’ha quindi urgente necessità di ridurre di molto questo disavanzo, cioè di votare almeno un incremento d’imposta di cento milioni, onde ridurlo nello stesso 1863 ad essere minore di 150 milioni. Verso il termine del 1863 od io, o chi il Re chiamasse a reggere meglio di me la pubblica finanza, avrà tali notizie sulla ricchezza del paese, che sicuramente potrà proporvi pel 1864 quelle nuove imposte, o quelle modificazioni agli attuali balzelli, che valgano a fare inticramente scomparire il disavanzo ordinario, il quale certo per la sola discussione del bilancio si troverà notevolmente ridotto. Ed a mio parere il pareggio delle entrate ordinarie colle spese ordinarie entro il 1864 è per l’Italia questione di vita o di morte, questione del to he, or not to he.[12]Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.254.

Questa norma venne pubblicata solo più tardo sulla Gazzetta Ufficiale, solo il 14 luglio 1864 come legge n. 1830, a causa delle forti contrarietà e del lungo dibattito che causò. La necessità di questi interventi era da lui illustrata in un discorso del discorso alla Camera del 7 giugno 1862:

noi colla più grande indifferenza, senza mai tener conto del nostro passivo e del nostro attivo, senza preoccuparci mai dei mezzi coi quali si farà fronte alle spese, andiamo a votare un miliardo di spese contro mezzo miliardo di entrate! Continueremo noi ad avere un bilancio di un miliardo con un attivo di mezzo miliardo? Oppure non è giunto il tempo di dover seriamente pensare a rimettere ordine nelle finanze, e a non fare le spese se non quando si sarà sicuri di avere i mezzi per farle, se non quando si sarà provveduto con modi ragionevoli ad avere questi mezzi? … Non è giunto il momento di dire: dobbiamo seriamente ridurre l’ordinario al solo necessario; dobbiamo aggiungere a questo necessario l’interesse sulle somme che occorressero in via straordinaria per la difesa nazionale e per i lavori pubblici, e dobbiamo provvedere a queste passività ricorrenti con un buon sistema d’imposte? Non è giunto il momento di prendere ad esame questo sistema delle imposte, di organizzarle definitivamente, e, quando siano organizzate, di vedere se si possa aspettarsene, entro un discreto tempo, quello sviluppo che sia tale da pareggiare, con una data loro misura, il passivo ordinario?

Ed ancora il 1° dicembre del 1862 dichiarò:

Il Regno d’Italia si è formato direi in un attimo, per l’aggregazione di provincie da tanti secoli divise da altissime barriere. Le condizioni economiche di parecchie di queste provincie rese infelici per l’effetto della mala signoria o della straniera servitù, poche vie di comunicazione, quasi nessuna scuola popolare ed il commercio inceppato da quel mortale suo nemico che è l’arbitrio. Le imposte degli antichi Stati italiani in parte non piccola al momento della loro liberazione furono abrogate dai Governi provvisorii o per crederle oppressive o per affezionare le popolazioni al nuovo ordine di cose. Finalmente le spese del nuovo regno sono relativamente maggiori della spesa totale degli antichi Stati, a cagione della necessità di portar presto la civiltà di tutte le parti del regno all’altezza dei tempi odierni, ed a compiere i supremi destini del paese … Quindi la necessità, o signori, di attendere a tutta possa al riordinamento delle finanze ed allo sviluppo della ricchezza, alla diminuzione delle spese non proficue ed all’accrescimento dell’entrata.

La normativa sull’imposta di ricchezza mobile venne molto contrastata dai deputati non piemontesi e venne approvata dalla Camera il 21 luglio del 1863, con 130 voti contro 70 e dal senato l’11 gennaio 1864 con 57 voti contro 44, divenendo quindi legge n. 1830 il 14 luglio, legge la cui discussione era iniziata il 30 giugno 1863 sulla base della relazione che Sella aveva predisposto, con la collaborazione di Francesco Ferrara, per il progetto di legge presentato alla Camera il 18 novembre 1862 (lo stesso 14 luglio venne anche approvato il conguaglio provvisorio dell’imposta fondiaria).
Questa norma prevedeva la soggezione completa all’imposta dei redditi di puro capitale, per 6/8 per i redditi misti derivanti da lavoro e capitale, per 3/8 per i redditi da lavoro e un’imposta fissa di 2 lire per i redditi fino a 250 lire. Questi suoi interventi vennero però bloccati, nel 1864, da Minchetti che decise di cambiare linea politica e di porre termine alla fine delle grandi tasse e limitare, di conseguenza, le spese straordinarie a 100 milioni di lire.
Ancora nel 1864, dopo che in settembre si erano verificati dei moti di protesta tra la popolazione di Torino scoppiati in seguito al diffondersi della notizia del trasferimento della capitale da Torino a Firenze (a settembre a Parigi era stata firmata la convenzione con la quale la Francia si impegnava a ritirare le sue truppe da Roma contro la garanzia da parte dell’Italia di difendere il papato e l’impegno di spostare la capitale), si recò in qualità di consigliere del comune, assieme a Felice Rignon e Desiderato Chiavers, dal ministro Peruzzi per lamentarsi della condotta dell’esercito che aveva impiegato le armi senza longanimità e causato ventitré morti e centoquattro feriti.
Tornando alla sua politica finanziaria, nel 1864 operò altri interventi per il bilancio, questi furono oltre all’aumento della già vista imposta sulla ricchezza mobile, la riscossione anticipata dell’imposta fondiaria del 1865 (pari a 124 milioni, fin dal 1862 sostenne la necessità di tassare maggiormente le rendite fondiarie), abolì le franchigie doganali ed aumentò del 12% l’aliquota dell’imposta sui fabbricati (tutti questi interventi non risanarono la finanza statale, nel dicembre 1865 rimaneva un disavanzo di 625 milioni).
Sempre nella veste di Ministro il 4 novembre 1864 presentò, assieme al ministro dell’Interno Lanza, una proposta di legge per l’iscrizione sul Gran Libro del debito pubblico dello Stato di una rendita di lire 1.067.000 a favore della città di Torino in seguito al trasferimento della capitale a Firenze, come previsto dalla Convenzione firmata con la Francia a settembre, atto che portò anche allo scoppio di sommosse represse con durezza a Torino. Il 12 novembre, con il ministro della Giustizia Giuseppe Vacca presentò anche una contestata proposta di legge per la Soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti morali ed ordinamento dell’asse ecclesiastico di impronta finanziaria e suggerita “dallo intendimento di recar sollievo alla condizione del pubblico erario”. Questa norma, utile a fronteggiare i problemi perduranti nel bilancio, non venne però approvata e allora il 13 dicembre 1865, Sella assieme al nuovo ministro della Giustizia Cortese, presentò una nuova proposta di legge per la Soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti morali ecclesiastici e conversione ed ordinamento dell’asse ecclesiastico, un progetto di legge elaborato da Sella e Vacca, che incontrò l’opposizione di gran parte della Camera. La commissione che lo studiò, presieduta da Ricasoli, vi apportò modifiche introducendo la gestione dei beni dedicati al culto nelle parrocchie e nelle diocesi da parte della comunità dei fedeli, la proposta non venne accettata dal governo che decise di presentare solo uno stralcio del progetto originario criticato perché ritenuto un tentativo di conciliazione con la Santa Sede, polemica rinfocolata dal successivo ritiro della norma.
Verso la fine del 1865 dichiarò che il disavanzo previsto per il 1866 sarebbe stato pari a 265 milioni persisteva quindi un alto disavanzo pur se in diminuzione rispetto agli anni 1864 e 1863 ed evidenziato la rigidità del bilancio. Per questo richiese, per fargli fronte, di ridurre di 30 milioni le spese pubbliche, di ottenere dalla tassa sul macinato (100 milioni), sulle porte e sulle finestre (25 milioni) e inasprire le tasse di successione e sugli affari in modo da ottenerne altri 20, infine tornò sull’imposta di ricchezza mobile proponendo che venisse fissata all’8,8% dell’imponibile – proposta adottata nel 1866 – e venissero introdotte una tassa di bollo e di registrazione che avrebbero consentito di recuperare altri 20 milioni; propose anche la cessione ai comuni del dazio di consumo, tranne che sulla farina, e di alcune imposte sui fabbricati vietando l’introduzione di sovrimposte. Queste proposte non ebbero però seguito a causa della forte opposizione che incontrarono che in intensificò quando Sella presentò la proposta di procedere alla fusione della Banca Nazionale e della Banca Toscana e di affidare quindi al nuovo istituto il servizio di tesoreria dello Stato. Questa venne bocciata il 19 dicembre portando alla caduta del governo Lamarmora che formò il 31 il suo nuovo governo, ma senza Sella sostituito da Scialoja.
Questo stesso anno firmò la convenzione con la Società anonima per la vendita dei beni del regno d’Italia, formata da Domenico Balduino (1824-1885) ed altri finanzieri, questa si assumeva il compito di provvedere alla vendita di 130.000 ettari di beni demaniali divisi in 50.000 lotti. Si era già dichiarato favorevole ad una simile soluzione in un discorso tenuto il 4 novembre 1864 nel quale propose la stipula di una convenzione per trovare 200 milioni necessarie a fronteggiare il disavanzo, indicando come opzione appunto la firma di un accordo che cedesse la vendita dei beni demaniali ad una società che avrebbe anticipato 150 milioni, dei quali 40 lo stesso 1864, sulle vendite. Non essendo però sufficiente la convenzione, propose anche l’adozione di alcuni inasprimenti delle tasse già vigenti e il permesso di riscuotere subito, nel 1864, l’imposta fondiaria dovuta per il 1865.
Si oppose e votò contro, viceversa, nel 1868 all’approvazione della convenzione, discussa dall’1 al 4 agosto, stipulata dal nell’estate dal ministro Luigi Cambrai-Digny, per la concessione per quindici anni ad una società italiana e straniera (società formata da Pietro Bastogi, Domenico Balduino, il Credito Mobiliare, il gruppo Stern e la Banque de Paris), del monopolio dei tabacchi a fonte del pagamento allo Stato 180 milioni di lire oro come anticipazione oltre ad un canone annuo ed una partecipazione agli utili. La norma venne approvata alla Camera tramite l’ordine del giorno Mordini, nonostante l’opposizione della destra piemontese e di tutta la sinistra l’8 agosto con 205 voti contro 161 ed al senato il 22 con 106 voti contro 11, divenendo quindi legge il 24 agosto.
Sella varie volte intervenne alla Camera sulle questioni finanze del paese anche con discorso, in uno di questi tenuto il 14 aprile 1865 disse:

Vi erano due strade da tenere nella formazione del Regno d’Italia … Alcuni … ed erano i più paurosi … hanno potuto credere che si potesse mettere una specie di spegnitoio sopra il bisogno prepotente di lavoro, di movimento sorto in tutto il Regno, sopra questa spontanea necessità di nuova vita, e si dovessero continuare le spese in corrispondenza alle piccole risorse che avevano gli antichi Stati, e che finalmente non occorresse affrettare tanto l’unificazione, ma convenisse andare avanti lemme lemme, adagino, con tutto il nostro comodo. Noi abbiamo scelto una via diametralmente opposta; noi ci siamo gettati animosamente a soddisfare i bisogni di civiltà, di progresso che traspiravano da tutte le parti delle popolazione italiana … L’Italia dunque, a parer mio, ha fatto benissimo a gettarsi animosamente in tutte queste spese per provvedere ai bisogni dell’incivilimento e del progresso.

Nel 1865, sempre come ministro delle Finanze, annunciò in gennaio che il disavanzo previsto per l’anno in corso era pari a 208 milioni ai quali si aggiungevano altri 317 milioni di disavanzi rimanenti dagli anni precedenti.
Per questo propose di procedere al riordino in maniera coerente del sistema fiscale del paese tramite l’adozione del modello inglese per la gestione della contabilità statale, l’istituzione di un Ufficio di Contabilità generale e di un Ufficio del Pagatore generale mentre il progetto di istituire un Consiglio del Tesoro venne abbandonato. Sempre nel 1865 fu il propugnatore della legge approvata il 5 maggio che aboliva i privilegi e le franchigie che vigevano per i porti di Livorno, Ancona e Messina a partire dal 1° gennaio 1868 e propose, per fronteggiare il deficit, l’emissione di un nuovo prestito per 425 milioni netti (Minghetti aveva dovuto nel 1863 ricorrere ad un prestito di 1.014 milioni ovvero 700 milioni netti), oltre alla alienazione delle ferrovie per 185 milioni circa. Effettivamente durante l’anno vennero alienate le ferrovie liguri-piemontesi a favore della Società ferrovie dell’Alta Italia come previsto dalla convenzione stipulata da Minghetti nel giugno del 1864, assieme a dei tronchi in costruzione in Liguria e Campania a favore della Società ferrovie romane, per un’entrata di quasi 250 milioni di lire; a questo si aggiunge l’emissione in maggio un prestito di 660 milioni nominali al prezzo di 66 lire, 160 per la pubblica sottoscrizione e 500 per la casa Rothschild.
Sostenne una politica economica rigorosa e riuscì a riportare in pareggio il bilancio dello Stato, utilizzando anche misure fiscali che causarono proteste popolari, la più nota delle quali fu la tassa sul macinato, necessaria a fronteggiare un disavanzo che lui prevedeva essere per il 1866 di 265 milioni, come annunciato il 13 dicembre alla Camera. La norma sulla nuova tassa venne proposta da Sella il 13 dicembre 1865 alla Camera con un discorso nel quale dichiarò:

Ci sarebbero le gabelle; ma sapete che nelle dogane non possiamo fare aumenti [nel 1863 si era infatti deciso per un regime liberistico] … Quanto al sale e tabacco io già vi diceva che non c’è altro che lasciar la tariffa attuale … Vuolsi allora cercare qualche altra imposta indiretta che possa dare un grande provento alle finanze. Un’imposta di questo genere deve essere a base larga, imperocchè quando si prendessero imposte le quali non vertano sopra oggetti di grande consumo, dovrebbero essere troppo alte le tariffe e quindi troppo perturbatrici per dare un provento notevole. … Bisogna fare che un’imposta di questo genere non riesca di esosa riscossione. Ora, o signori, io, dopo averci lungamente pensato non senza esitanza e con grande rincrescimento mio, imperocchè, o signori, codesti uffici non si fanno volentieri, sono costretto a dirvi che credo trovare questi requisiti, meglio che in qualunque altra imposta, nella tassa sulla macinazione. …
E in primo luogo per la facilità del conteggio: abolite le polizze e le stadere, il contribuente non deve che mirare il contatore, prender nota del numero da cui cominci la sua macinatura, confrontarlo con quello con cui finisca e conteggiare col suo mugnaio le centinaia di giri eseguitisi: tutto ciò agevolmente si compie senza dubbi e contrasti e, quel che è più, senza inutile consumo di tempo … La facoltà di macinare in qualsiasi momento, la pienissima libertà di trasportare i grani e le farine come se nessuna imposizione vi gravitasse è conseguenza spontanea del sistema de’ contatori … Tale è il sistema in cui io credo che possa trovarsi la più soddisfacente soluzione di un problema agitato indarno per secoli, quello cioè di porre a profitto nell’interesse del pubblico una delle più feconde imposte che mai si possano immaginare, conciliandola, con tanta libertà ne’ cittadini, con tanta semplicità nelle forme e con tanta parsimonia di spese, che non avrebbe certamente esempio in tutta la storia delle pubbliche finanze.

Questa norma avrebbe dovuto portare, secondo le stime, almeno 100 milioni all’anno nelle casse statali.
Anche l’iter parlamentare della norma per l’introduzione della tassa sul macinato fu molto contrastato (la sua idea venne già contestata nel 1862 quando fu proposta una prima volta e ricevette l’opposizione di Crispi) ed essendo conscio della forte contrarietà che sussisteva che precisò che le angherie, la corruzione, gli arbitri che ne avevano caratterizzato l’applicazione erano conseguenti non alla tassa ma ai metodi con i quale era stata applicata e riscossa.
Per il calcolo di quanto dovuto propose di applicare ai mulini un contatore che segnasse i giri della ruota macinante in modo da per determinare la quantità di macinato prodotto. Dichiarò:

Il fisco non è più in contatto col contribuente, non ha da sorvegliarne le mosse, non gli domanda dichiarazioni, non gli impone bollette e polizze, non pesa i grani e le farine, non conteggia con lui. L’esercente del mulino si incarica di riscuotere a piccole somme come farebbe un cassiere e riversarle, di tempo in tempo, nel tesoro dello Stato.
La sua fedeltà rimane forzata, non dipende dalla sua morale; uno strumento muto e inesorabile tiene nota esatta delle rivoluzioni che egli imprime alla macina e delle somme che egli abbia ricevuto in deposito.
Pochi ispettori che vadano, di tanto in tanto, a verificare i contatori e stabilire il debito periodico dell’esercente sono tutto ciò che occorre per amministrare un cespite di tanta importanza pecuniaria, e quel che è più, per ottenere che nessuna discrepanza passi tra il dazio soddisfatto dal contribuente e quello cui il tesoro pretende.

La norma venne quindi approvata solo il 7 luglio 1868 (riproposta dal ministro delle Finanze Ferrari e poi sostenuta dal suo successore Cambray-Digny, appoggiato da Sella per l’occasione) con 219 voti a favore e 152 contrari (il 30 marzo la Camera con 182 voti contro 164 aveva già deciso con voto per appello nominale di passare alla discussione dei singoli articoli) e divenne legge n. 4490 (pubblicata il 14 dicembre) entrando in vigore il 1° gennaio, quando ormai le necessità delle casse statali si erano fatte più gravi anche a seguito della guerra del 1866 con l’Austria (la norma verrà abrogata solo nel 1883) e venne tacciata, giustamente, di essere una tassa che colpiva principalmente i poveri, tesi a cui rispose così il 28 marzo 1868:

Volete permettere anche a me di dire quale credo sia la tassa sul povero? … La vera tassa sul povero, a mio avviso, sta nella sfiducia, e starebbe essenzialmente in una catastrofe cui si andasse incontro. Oggi ci è una grave tassa nella sfiducia che va crescendo; sarebbe gravissima il giorno in cui … il fallimento si rendesse inevitabile … Riflettete un istante alla massa di capitali che diventa disponibile per la tassa sul macinato … Or bene, signori, io vi dico che i vantaggi economici che derivano al paese per l’aumento dei capitali disponibili, per la fiducia che farete rinascere ricompenseranno con tanta usura la classe operaia della tassa sul macinato che … non dubito che, ove si accalcasse sotto le nostre finestre, come disse taluno, lo farebbe per incoraggiarci, o signori, a prendere i provvedimenti che sono indispensabili ed a votare anzitutto il macinato.

Questa tassa, ritenuta particolarmente vessatoria per il popolo, venne ridotta solo nel 1878, quest’anno il ministro Seismit Doda presentò una proposta di legge per la riduzione dell’imposta di un quarto, portandola a 1,5 lire al quintale per il grano e a 0,75 lire al quintale per gli altri cereali, poi modificata su richiesta della Camera in esenzione totale per i cereali minori e a 1,5 lire al quintale per il grano con la clausola che sarebbe spirata anche questa nel 1883. Sella si oppose strenuamente a questa norma, presentata nella nuova versione il 5 luglio, e tenne un importante discorso per contrastarla ma senza successo, il 7 la Camera la approvò con 235 voti a favore e 78 contrari, segnando un riavvicinamento tra tutti gli esponenti della destra contro la legge, la sua discussione venne però posticipata dal Senato fino al giugno del 1879 quando il 24 approvò con 136 voti contro 50 la norma ma togliendo la diminuzione della tassa sul grano e l’abolizione della tassa nel 1884 (rimaneva solo la diminuzione per i cereali minori), a questo punto la norma tornò alla Camera ove Depretis dichiarò di voler mantenere il testo originale del provvedimento. Baccarini, Cairoli e Zanardelli, con l’appoggio di Nicotera e Sella, decisero invece di accettare il testo del Senato; a questo punto, il 3 luglio, la Camera votò la sfiducia al governo con 251 voti contro 159 e 6 astenuti.
Per quanto riguarda invece la guerra con l’Austria e il suo esito tutt’altro che lieta per l’Italia sconfitta sia a terra che sul mare, scrisse in una lettera inviata a Ricasoli:

Mia opinione personale è che oggi l’Italia sia immensamente meno potente che al principio della guerra. La flotta è diminuita di mezzi potentissimi, ed è sfiduciata. l’esercito è pure in condizioni morali immensamente meno buone … Il prestigio della Corona è pure diminuito ed il suo intervento nelle cose della guerra oggi né potrebbe continuare senza gravissimi danni, né potrebbe cessare … senza non men gravissimi inconvenienti … Il paese stesso ha, finalmente, assai meno entusiasmo e fiducia.[13]Mazzonis, La Monarchia e il Risorgimento, pag.121.

Nel 1870 propose il regolamento attuativo, approvato con R.D. 4 settembre 1870 n. 5852[14]Testo del R.D. 4 settembre 1870 n. 5852, della legge n. 5026 (legge Cambray-Digny) sull’amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità, che istituiva la Ragioneria generale e le ragionerie generali dei ministeri.
Sempre interessato al risanamento del bilancio statale quest’anno fece anche alzare l’aliquota dell’imposta sulla ricchezza mobile al 12%, con un’addizionale che la fece arrivare al 13,2%.
Come ministro cercò di istituire le Casse di risparmio postali (queste avrebbero consentito di ridurre il saggio della rendita, condizione necessaria per contenere il saggio generale d’interesse dei capitali, e avrebbe quindi prodotto l’allargamento dei confini del mercato dei capitali necessario per lo sviluppo economico e per il finanziamento pubblico), presentando un’apposita proposta già nel 1870 ed ottenendo la sua approvazione da parte della Camera una prima volta il 21 aprile 1871, ma l’iter venne interrotto dalla caduta del governo e dalla durissima opposizione alla loro creazione proveniente degli economisti liberisti.
Ritentò poi una seconda volta, sempre in qualità di ministro, ma ancora senza successo, vi riuscì infine solo come deputato, presentando la proposta il 10 dicembre 1874 (proposta che poi divenne con qualche modifica legge 27 maggio 1875 n. 2779[15]Testo della legge 27 maggio 1875 n. 2779) ed illustrando alla Camera come segue, l’11 dicembre, la sua proposta:

L’Inghilterra aveva nel 1868 una cassa di risparmio ogni 6.000 abitanti; l’Italia ne ha una ogni 120.000 abitanti, ed anzi, eccettuando le provincie ove si sta meno male, si trovano numeri anche più paurosi. Se, per esempio, prendiamo le provincie meridionali, troviamo una cassa di risparmio ogni 573.000 abitanti … Se poi si esamina il riparto di queste benefiche istituzioni di previdenza, si troverà che nelle città, nelle quali la popolazione è maggiore di 30.000 abitanti, la Cassa di risparmio vi è quasi da per tutto, o almeno nella proporzione di ottanta sopra cento di codeste città. Se veniamo a città comprese fra i 10.000 ed i 30.000 abitanti, si scende al 28 per cento e finalmente nel 1868 … noi avevamo 8.210 comuni con popolazione minore di 10.000 abitanti, nei quali non si arrivava all’1 per cento di Casse di risparmio e si avevano 77 Casse di risparmio sopra 8.210 comuni! … È doloroso, o signori, il vedere che progetti di legge, i quali come questo non presentano inconvenienti per nessuno, e vantaggi per tutti, debbano aspettare tanto per essere convertiti in legge.

In generale la sua politica di bilancio e fiscale anche se riuscì a conseguire una generale ripresa economica del paese e a migliorarne il bilancio, fu oggetto di una ampia campagna di satira condotta dai giornali ed anche critiche da parte dei suoi colleghi alla Camera, in una seduta del così risposte alle accuse mossegli:

L’onorevole Lazzaro dice: non siamo noi che abbiamo votato il macinato. In fatto d’imposta per verità non so che cosa abbiate votato. Credo che non ne abbiate votata alcuna. Avete solo votato le spese. Ma per ciò appunto ve ne lavate troppo facilmente le mani. Non basta dire: non abbiamo votato questa o quell’imposta. Avete votato quasi sempre le spese, moltissime ne avete domandate. Ora, credo che veramente s’impongano aggravi ai contribuenti, non quando si votano le imposte, ma quando si votano le spese … Siete quindi perfettamente solidali con noi della attuale situazione. Coloro i quali ebbero il coraggio di votare le imposte sono perfettamente giustificati a compiacersene, perocché con ciò hanno salvato il paese, che sarebbe stato perduto se non avessero votate le imposte.

Nel 1866 operò attivamente per conseguire la formazione dell’unità d’Italia, richiese al generale Lamarmora, capo di stato Maggiore dell’esercito, di poter essere arruolato e poi prese anche in considerazione la possibilità di arruolarsi con le forze volontarie di Garibaldi, come gli proponeva Candido Augusto Vecchi, entrambe tesi contrastate dal fratello Giuseppe Venanzio. Alla fine Sella, in seguito alle richiese di Lamarmora e del re, entrò nel governo Ricasoli e da qui operò attivamente con interventi di bilancio in linea con la sua teoria delle “economie sino all’osso”, ottenendo dal re una diminuzione di tre milioni di lire, un quinto della lista civile concessagli dal Parlamento per cercare di ripianare i disavanzi di bilancio che già gravavano sullo Stato (si deve però osservare che in cambio il governo aveva pagato alla una somma più ingente per sistemare i debiti del sovrano, senza che venisse diffusa tale notizia) e la riduzione da 25 mila a 20 mila delle indennità dei ministri, e poi ricoprendo la carica di Commissario straordinario per la provincia di Udine dal 28 luglio, città appena conquistata all’Impero Austriaco, fino al 10 dicembre quando giunse il primo prefetto della provincia.
Intervenne poi anche altre volte, in contrasto con i desideri del sovrano, per risanare il bilancio statale operando dei tagli ai bilanci dell’esercito, e nella sua veste di ministro delle Finanze propose ulteriori riduzione della lista civile a 10 milioni, lista che nel 1860 era stata elevata da 4 a 15 milioni di lire annui (la lista era stata nuovamente aumentata in seguito all’annessione del Veneto) ed anche che i funzionari della Real casa rispondessero pubblicamente del loro operato[16]Quintino Sella aveva propose anche, senza successo, di sottoporre alla supervisione pubblica le spese della corte, i rimedi.; si scontrò poi con gli interessi ecclesiastici per essere ricorso all’incameramento e alla vendita di beni della Chiesa (nel dicembre del 1870 dichiarò, durante un discorso alla Camera, che di queste vendite avevano beneficiato 100.000 nuovi proprietari, cifra poi contestata) e nel 1870 vi si scontrò di nuovo per essersi schierato tra i fautori della presa di Roma – intervenne per ottenere la nomina del generale Nino Bixio (1821-1873) a comandante della 2a che fece parte del IV Corpo d’esercito che prese Roma[17]Sella scrisse in una lettera del 4 settembre al Ministro della Guerra generale Govone «È importante avere poi il Bixio nel Romano. Se occorre ad oprare le armi (speriamo di no), egli ha il … Continue reading – assieme a Emilio Visconti Venosta (1829-1914), il che portava alla violazione della convenzione di settembre[18]Convenzione firmata il 15 settembre 1864, a Parigi, con la quale la Francia, con la quale questa si impegna a ritirare le sue truppe da Roma contro la garanzia da parte dell’Italia di difendere … Continue reading con la Francia, dopo essersi opposto al proposito del re di appoggiare l’imperatore di Francia Napoleone III (1808-1873) contro la Prussia in agosto-settembre, durante il conflitto che portò alla sua caduta.
Il 28 luglio 1867 votò contro la legge presentata il 16 ed il 17 gennaio da Scialoja per il governo Rattazzi per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, questa norma prevedeva la concessione al governo del diritto emettere, a sua discrezione, titoli fruttiferi al 5% per 400 milioni di lire. Questo governo era stato formato dopo le elezioni di marzo che avevano indebolito un po’ destra e rafforzato l’estrema destra clericale, fatto che porto Ricasoli, nella formazione del governo, a cercare di nominare Sella alle finanze tentativo però bloccato dal sovrano che lo riteneva troppo impopolare.
L’anno successivo, nel marzo 1868, fece parte della commissione parlamentare creata in seguito al susseguirsi delle polemiche sull’azione del corso forzoso avvenuta nel maggio del 1866 e presieduta da Filippo Cordova (gli altri membri erano Federico Seismit-Doda, Alessandro Rossi, Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Ercole Lualdi); questa presentò la sua relazione il 28 novembre e ritenne non necessaria la sua adozione ne da un punto di vista fiscale che finanziario.
Il 10 marzo dopo aver ricordato che lo Stato aveva dovuto procurarsi tramite alienazione di ferrovie, beni demaniali, ecclesiastici ed altri, oltre a prestiti, ben 3.442 milioni, dichiarò alla Camera, durante la Esposizione finanziaria, “ora, o signori, la conclusione che io traggo da tutto ciò è la seguente, che noi abbiamo proceduto coma dovevamo, aia aumentando le entrate, sia diminuendo le spese, ma che abbiamo avuto un torto gravissimo, e tutti l’abbiamo avuto (mi metto io per il primo, se volete, in questo numero, e fra i più colpevoli), il torto cioè di non sapere arrivare a tempo. Abbiamo fatto dei sacrifizi, ma non li abbiamo fatti a tempo. Abbiamo proprio operato come quel febbricitante che tutti i giorni piglia un po’ di chinina, ma non ne piglia abbastanza per troncarla febbre; l’organismo s’indebolisce e si rovina.”[19]Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.365-366..
Da questa premessa derivò la presentazione di una serie di sedici provvedimenti la cui discussione iniziò il 7 giugno 1870, raggruppati poi un unico disegno di legge, detto “omnibus”, legge 11 agosto n. 5784. Questa norma prevedeva la soppressione delle Casse di depositi e di prestiti di Milano, Napoli, Palermo e Torino, e l’accentramento delle relative attribuzioni nella Cassa centrale di depositi e prestiti presso la Direzione generale del Debito Pubblico di Firenze; tagli ai bilanci di guerra e marina; riduzione del numero degli uffici pubblici centrali e periferici; passaggio delle spese per l’istruzione secondaria alle provincie e altri interventi minori (gli interventi sul settore della scuola, non approvati, vennero poi ripresentati nel 1871 da Cesare Correnti ma ancora una volta non vennero adottati), la loro complessità e vastità portò la Camera a nominare quattro diversi commissioni per il loro studio. Questi interventi doveva servire a ridurre a 25 milioni il disavanzo previsto per l’anno in corso, mentre una serie di aumenti delle tasse esistenti avrebbero consentito il pareggio nel 1871. Comunque, in attesa della sua attuazione e per fronteggiare le necessità più immediate, contrasse un debito di 122 milioni con la Banca Nazionale.
Si prevedeva l’inasprimento delle tasse esistenti[20]Pensò anche di introdurre una imposta globale sul coacervo dei redditi, con aliquota progressiva, ma poi la abbandonò. e si richiedeva un anticipo alla Banca nazionale, proponeva anche di incamerare parte del patrimonio lasciato alla Chiesa, il tutto perché a fronte alle spese pari a 441 milioni, oltre ad un debito pubblico di 670 vi erano entrate previste di soli 880 milioni, il suo progetto mirava a ridurre a 25 milioni il disavanzo dell’anno e ad annullarlo per il 1871[21]Scirocco,L’Italia del Risorgimento 1800-1871, pag.476. (questa sua politica fiscale non era condivisa da Minghetti che nel novembre del 1871 dichiarò al riguardo “c’è un limite a tutto, c’è una proporzione che bisogna sempre osservare nelle tasse, e i due termini di questa proporzione sono i bisogni dell’Erario e le condizioni necessarie per lo sviluppo economico del paese”[22]Lepre, Petraccone, Storia d’Italia, pag.50.).
Sella intervenne ancora la Parlamento il 12 dicembre 1871, per proporre una serie di interventi quinquennali miranti ad introdurre degli inasprimenti fiscali limitati e ad avviare una politica economico-finanziaria che portasse al pareggio e ad un incremento dei capitali produttivi, per affrontare la crisi finanziaria a cui gli innumerevoli interventi non avevano posto rimedio, anche a causa delle spese per la guerra. Propose fra gli altri interventi di sospendere l’ammortamento del debito con la Banca Nazionale dando in deposito obbligazioni ecclesiastiche e contrarre con questa banda un debito di 300 milioni coperti con una corrispondente emissioni di valuta da parte della banca.
Tutto questo era reso necessario dalla previsione che nel periodo 1872-76 le spese straordinarie avrebbero ammontato a 730 milioni (400 milioni di debiti redimibili, 160 per le costruzioni ferroviarie approvate, 170 di disavanzo di bilancio). Dichiarò:

Si è fatta una grande disammortizzazione di beni in questo decennio ; è stata fatta, dirò così, una specie di rivoluzione economica. Si sono venduti per circa 500 milioni di beni; 57 milioni direttamente dal demanidj 122 dalla società dei beni demaniali, e a 312 milioni ascendono quelli venduti appartenenti all’asso ecclesiastico, e questa vendita colossale di quasi 500 milioni fu divisa in 81,000 contratti!
Se vogliamo guardare anche le regioni in cui si trovano codesti beni, troviamo in prima linea le provincie napoletane; nelle quali furono venduti 162 milioni di beni, 73 lo furono nel Piemonte e nella Liguria, 63 nella Toscana, 49 nelle Marche e nell’Umbria, 40 nell’Emilia, 34 nella Sicilia, 27 nella Lombardia, 25 nel Veneto e 10 milioni nella Sardegna.
Sono stati dati ai comuni delle case provenienti dagli enti religiosi soppressi per il valore di 27 milioni; sono stati ceduti ai comuni, alle provincie ed ai corpi morali in genere, per stabilimenti di pubblica utilità, ecc., stabili per altri 27 milioni. Vi fu uno svincolo di cappellanie, ecc., per 106 milioni, di cui 51 milioni in beni stabili. Si fece lo scorporo dei beni ademprivili in Sardegna per 17 milioni, che furono dati ai comuni ; vi fu il riscatto del Tavoliere di Puglia, compito già per 17 milioni di capitale ; ebbe luogo la censuazione delle terre degli enti ecclesiastici in Sicilia, che dobbiamo ad un nostro antico collega, veramente benemerito d’Italia, l’onorevole Corleo; e quelli fra noi che facevano allora parte del Parlamento ricorderanno come egli, valendosi del suo diritto d’iniziativa, si facesse proponente di questa legge, e poi s’incaricasse egli stesso di attuarla senza stipendio.
Ebbene, quali sono stati gli effetti, o signori, di queste varie operazioni? Sono questi: 20,000 lotti; 188,000 ettari; 5,800,000 lire di rendita. Vale a dire che, soltanto fra la vendita dei beni fatta dal demanio è la censuazione dei beni ecclesiastici di Sicilia, si ebbero oltre 100 mila lotti. Non dirò che sieno 100 mila novelli proprietari, ma non ho bisogno, o signori, di richiamare la vostra attenzione sopra l’effetto che dovette avere sulla operosità economica una disammortizzazione di beni su così grande scala.
La legge del 1864 che porta, credo, il nome dell’onorevole Pisanelli, ha recati effetti che egli e con lui tutti quanti noi, siamo lieti certamente di riassumere adesso. Furono affrancati canoni, censi e livelli per oltre 8 milioni di rendita ; e sono molti questi canoni, censi e livelli. Per partite che si sono potute iscrivere nel Gran Libro direttamente, oltre 60 mila affrancazioni ; per partite, le quali per piccolezza e per gravami d’ipoteca dovettero passare per la Cassa di depositi e prestiti, 29.000 affrancazioni.
Voi vedete adunque, o signori, che, per ciò che riguarda lo svincolo delle proprietà nello scorso decennio si è fatta, lasciatemi ripetere la parola, chè non ne saprei trovare una più adatta, fu fatta, dico, una vera e grande rivoluzione economica.

Secondo Sella:

L’incremento del debito pubblico, per un uomo timido come me, è tale che atterrisce. Gli interessi del debito pubblico erano 113 milioni nel 1861, nel 1870 sono 380 milioni, cioè 270 milioni di aumento sull’interesse del debito pubblico! Signori, sono cifre tremende. Dell’aumento di capitale nominale i vari ministri delle Finanze non vi hanno mai parlato. Si trattava di non scoraggiarvi, ma bisognava pur anco guardarci, da 2.300 milioni siamo venuti a 8.200 milioni … E notate che l’aumento del debito pubblico è avvenuto malgrado l’alienazione di ferrovie e di un ingente patrimonio demaniale e di beni ecclesiastici … Ebbene, per accattare 2.691 milioni effettivi, ci siamo impegnati per un debito nominale di 3.852 milioni ed in questo decennio in cui abbiamo fatto queste operazioni abbiamo pagato 1.369 milioni per interessi e premi … Questa è la storia dell’improvvido figlio di famiglia; a tal passo non si regge. Considerate che tra perdite sul capitale nominale e ciò che abbiamo pagato in questo decennio per tali operazioni veniamo a scapitare di 2.530 milioni. E non abbiamo avuto che 2.691 milioni. Questa è la storia dell’improvvido figlio di famiglia; a tal passo non si regge. Considerate che tra perdite sul capitale nominale e ciò che abbiamo pagato in in questo decennio per tali operazioni scapitiamo di 2.530 milioni … Ora, o signori, è questo forse colpa di alcuno? Si poteva evitare? I disavanzi c’erano, e bisognava pur provvedere. Il credito non si trovava in condizioni felici; quindi nacque quello che è nato, cioè che le varie operazioni di credito hanno gravato il bilancio di somme assai ragguardevoli. Questo, secondo me, è l’ammaestramento più importante, fondamentale, che c’è da trarre dall’esame dell’andamento delle nostre finanze.[23]Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.400-401.

E poi:

Io domando a chi osserva attentamente, se questo sistema a cui ci appigliammo, e di cui riconosco tutti gli inconvenienti, tutti i gravissimi pericoli, non sia stato un male incomparabilmente minore di quello a cui saremmo andati incontro se avessimo provveduto con operazioni di credito … noi possiamo adesso riconoscere come quest’aumento di circolazione si sia potuto fare senza modificare sensibilmente l’aggio … Chi l’anno passato avesse detto che vi sarebbe stato un aumento di valori pubblici pari a quello che vi fu, forse sarebbe stato trattato da visionario … Il programma che vi ho fatto … si fonda essenzialmente su due concetti, un concetto finanziario e un concetto economico, che si confondono insieme. Il concetto finanziario è questo: provvedere ai bisogni del Tesoro senza percorrere quella terribile via che vi ho indicata, di aggravare il bilancio, opera che distrugge tutto ciò che si fa di buono; dall’altra parte mi propongo il rialzo del credito. Signori, io non so se sono troppo audace … Ho forse bisogno di dire che il rialzo del credito significa ribasso nell’interesse del capitale? Non sa ciascuno che uno dei principali inceppamenti alla nostra produzione è appunto il saggio troppo elevato dell’interesse dei capitali?[24]Lavori della Camera

Alla fine la norma venne approvata il 23 marzo 1872 con 208 voti favorevoli e 160 contrari. Il testo finale era però modificato rispetto alla proposta originale dalla commissione, presieduta da Minghetti, a cui era stata affidato il suo studio. Questa accolse un po’ tutte le proposte come l’aumento della circolazione cartacea della valuta a 300 milioni di lire e la conversione in consolidato dei debiti redimibili (si iniziò con il debito contratto nel 1866), l’aumento delle tariffe doganali per il petrolio e il caffè; non venne accolta viceversa la proposta di inasprimento fiscale e la proposta di affidare alle banche di emissione il servizio di Tesoro dello Stato, decisioni che rafforzarono la posizione di Minghetti e consentirono di ottenere l’appoggio delle varie anime della destra.
In generale i suoi interventi portarono, tra il 1870 e il 1872 un netto aumento dei biglietti a corso forzoso emessi dalla Banca Nazionale per conto dello Stato, passati da 550 milioni al 31 dicembre del 1870, a 790 milioni al 31 marzo del 1873. Stesso fenomeno si era verificato per i biglietti emessi per contro dei sei istituti di emissioni ancora autorizzati: Banca Nazionale, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana, Banca Toscana di Credito, Banca Romana, Banco di Napoli e Banco di Sicilia. Il loro ammontare era passato da 445 a 653 milioni mentre le emissioni di banche non autorizzare era passato da 11 a 34 milioni.
Per svolgere più efficacemente l’azione di risanamento, in seguito anche ai progressivi mutamenti avvenuti nella compagine statale, provvedette a chiamare nel 1872 Giovanni Giolitti e ad affidargli l’incarico di riordinare la direzione generale delle imposte.
Si deve osservare comunque che la sua attività parlamentare non fu incentrata solo sull’attività di risanamento del bilancio, fece parte anche della commissione che condusse un’inchiesta sulla questione della criminalità a Palermo ed in provincia, in cui soggiornò per due settimane in maggio, creata il 27 aprile 1867 (formata dal presidente Pisanelli, Sella, Rorà, Bortolucci, Zenoni, Tamaio e Fabrizi) ed operativa fino al luglio di quell’anno e delle motivazioni della sommossa (nell’agosto del 1866 era scoppiata la rivolta del “sette e mezzo”, represse con l’invio di un contingente militare comandato dal generale Raffaele Cadorna) identificate in parte nelle tendenze autonomiste ma soprattutto attribuite alla mancanza di lavoro con il conseguente disagio sociale ed economico.


Quintino Sella – Seconda parte

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References

References
1 Lacaita, Poggio (a cura di), Scienza tecnica e industria, pag.112.
2 Ente sorto, con sede al Valentino, dal precedente Istituto Tecnico di Torino e di cui lui stesso aveva promosso la nascita.
3 Il testo della legge (Link consultato il 30/11/2017).
4 Questo anno venne anche eletto, l’11 luglio, consigliere comunale a Torino.
5 Fu uno dei cinque ministri piemontesi del governo, assieme a Rattazzi (presidente e ministro degli Interni ad interim), generale Petitti (Guerra), ammiraglio Persano (Marina), Depretis (Lavori Pubblici).
6 Sin dall’anno precedente Sella si era schierato contro la politica protezionistica, che riteneva dannosa per l’industria nascente nel paese.
7 Costa Cardol, Ingovernabili da Torino, pag.231.
8 Costa Cardol, Ingovernabili da Torino, pag.174
9 Capone, Destra e sinistra da Cavour a Crispi, pag.158.
10 Poidomani, Fare l’Italia, pag.29.
11 Quest’anno i proventi derivanti dalla imposte dirette sono parti al 165% rispetto a quelli ottenuti nel 1865.
12 Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.254.
13 Mazzonis, La Monarchia e il Risorgimento, pag.121.
14 Testo del R.D. 4 settembre 1870 n. 5852
15 Testo della legge 27 maggio 1875 n. 2779
16 Quintino Sella aveva propose anche, senza successo, di sottoporre alla supervisione pubblica le spese della corte, i rimedi.
17 Sella scrisse in una lettera del 4 settembre al Ministro della Guerra generale Govone «È importante avere poi il Bixio nel Romano. Se occorre ad oprare le armi (speriamo di no), egli ha il vantaggio di conoscere minutamente il terreno» (Vidotto, 20 settembre 1870).
18 Convenzione firmata il 15 settembre 1864, a Parigi, con la quale la Francia, con la quale questa si impegna a ritirare le sue truppe da Roma contro la garanzia da parte dell’Italia di difendere il papato e l’impegno di spostare la capitale (“Convenzione di settembre”). In questo periodo si oppose ad un altro progetto, quello di una duplice alleanza austro-italiana.
19 Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.365-366.
20 Pensò anche di introdurre una imposta globale sul coacervo dei redditi, con aliquota progressiva, ma poi la abbandonò.
21 Scirocco,L’Italia del Risorgimento 1800-1871, pag.476.
22 Lepre, Petraccone, Storia d’Italia, pag.50.
23 Candeloro, Storia dell’Italia moderna Volume V, pag.400-401.
24 Lavori della Camera

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